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INFN: stato giuridico e personale tecnico-amministrativo nella riforma Madia

La FLC CGIL ne analizza alcuni aspetti che potrebbero tornare utili nella discussione.

26/05/2016
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I rappresentanti del personale nel Consiglio direttivo, attraverso una lettera alle Ministre Madia e Giannini, prendono posizione a favore dello Stato giuridico, ma si dimenticano che rappresentano anche tecnici e amministrativi. Prima di prendere una posizione si sarebbe quantomeno dovuto discutere la questione con il personale. 

Un nostro primo comunicato per dare informazioni non ideologiche.
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Il 20 maggio scorso i Rappresentanti Nazionali del personale dell’INFN hanno sottoscritto, come membri eletti nel Consigli Direttivo dell’INFN, una lettera ai Ministri Madia e Giannini presentando alcune considerazioni riguardo la bozza di decreto di riforma degli EPR (cd Riforma Madia).

Hanno stupito molto le considerazioni sottoscritte nella lettera alle Ministre sia dal punto di vista formale, sia dal punto di vista sostanziale.

Partiamo dall’aspetto formale, sapendo che in determinate circostanze la forma è sostanza, tanto più se a scrivere sono dei Rappresentanti eletti e i destinatari dei Ministri.

Non ci risulta che la presa di posizione riguardo al “Decreto Madia” sia stata discussa dal personale INFN nei vari organismi, e che il personale abbia dato mandato ai Rappresentanti nazionali di portare avanti una posizione. Si tratta quindi di posizioni personali, che non sono state discusse in assemblee aperte. Nessuno ha potuto esprimere la propria posizione e tantomeno dare mandato di portare avanti le considerazioni come sunto di una discussione aperta e libera. E’ altresì auspicabile che, su un tema così importante che condizionerà la vita lavorativa futura, ci sia la massima partecipazione del personale e che ognuno possa esprimere in modo ufficiale e nelle sedi assembleari il proprio punto di vista spingendo la discussione in un verso piuttosto che in un altro.

Dal punto di vista sostanziale, la prima cosa che balza agli occhi è la totale assenza nel documento, di tutte le problematiche connesse al personale tecnico e amministrativo (il 50 % della forza lavoro degli Epr) e un appiattimento sul ruolo giuridico dei ricercatori e tecnologi, con un parallelismo Epr-Università che parte zoppo. Nelle università non ci sono i tecnologi o personale equiparabile, si ipotizza un mondo ideale che non esiste, si prende a modello la riforma universitaria (riforma Gelmini) che, oramai tutti (non solo la FLC CGIL), riconoscono come negativa per le università e che facilmente rovinerebbe gli Epr creando grossi problemi al personale sia strutturato sia precario.

Analizziamo alcuni aspetti che potrebbero tornare utili nella discussione, che in FLC CGIL è già stata avviata dall’assemblea nazionale che si è tenuta ai Laboratori di Frascati e che presto i materiali verranno condivisi con tutta la comunità scientifica.

De-contrattualizzazione e passaggio al ruolo della docenza universitaria: quali le caratteristiche?

Il regime di diritto pubblico che si applica alla docenza universitaria è strettamente legato all’autonomia statutaria dei sistemi universitari. Quindi vive di due tensioni interne: la prima, ovvia, la capacità del sistema universitario di incidere sul processo legislativo (pesa ancora una certa rappresentazione ormai superata nei fatti del ruolo sociale del professore universitario); la seconda, la capacità di mettere insieme la regolazione dello stato giuridico con l’autonomia statutaria (secondo cui i docenti governano tra pari le strutture universitarie e l’amministrazione ha una funzione di servizio). Non è quindi solo un tema connesso alla “professionalità” o all’organizzazione del lavoro dei docenti.

Se guardiamo al rapporto tra stato giuridico e autonomia statutaria, oggi il quadro ci consegna il punto di massima distanza storica tra il sistema universitario e la sua tradizionale rappresentanza politica-legislativa. Nel contempo, l’autonomia statutaria è stata fortemente ridotta dai processi di ri-centralizzazione della cosiddetta nuova governance universitaria.

Dinamica stipendiale, carriere e certificazione dell’attività lavorativa

Oggi il quadro giuridico nazionale presenta:

  • Tutela di legge fortemente indebolita. Questo è testimoniato dal blocco stipendiale che nel sistema del regime di diritto pubblico ha visto non solo il blocco dal 2010 al 1 gennaio 2016, ma anche – e solo per la docenza universitaria – il blocco dell’anzianità di servizio e quindi il blocco di qualsiasi recupero economico.
  • Nel nuovo regime “Gelmini”, gli incrementi stipendiali non sono più automatici (biennali, per classi e scatti), ma triennali e legati a valutazioni individuali definite sulla base di regolamenti di ateneo che devono tener conto delle attività didattiche, di gestione e di ricerca. La relazione è quindi individuale tra il singolo docente da valutare e la sua amministrazione, senza alcuna tutela contrattuale o legale se non quelle offerte dalla sempre più limitata possibilità di incidere attraverso gli organi collegiali rappresentativi (in particolare il Senato Accademico). Senza questi ultimi, non c’è alcun filtro tra le scelte dell’amministrazione e il docente.
  • Le carriere dipendono essenzialmente da procedure concorsuali che, esaurita la fase transitoria post Gelmini, sono procedure “aperte” di valutazione comparativa/abilitazione nelle quali tutti gli abilitati per un settore concorsuale possono concorrere.
  • Il nodo dei punti organico: nel reclutamento il differenziale stipendiale fotografato dai punti organico è decisivo, limitando (distorcendo) la possibilità di una reale competizione tra candidati esterni/interni.

Il docente universitario e l’amministrazione/governo dell’istituzione:

  • da un lato, l’autogoverno espresso dalla governance universitaria (sempre più limitata come forma dell’autogoverno) – in particolare, la riduzione del ruolo degli organi collegiali/rappresentativi (consigli di dipartimento, senati accademici) che non di meno restano un elemento centrale del sistema universitario a tutela dell’autogoverno dei docenti universitari;
  • dall’altro lato, la tendenza nei regolamenti interni agli atenei ad una regolazione sempre più rigida della certificazione delle attività (didattiche, amministrazione e governo) connesse alle procedure di accreditamento e certificazione della qualità, e delle performance di sistema (Anvur, ma non solo);

Cartellino orario: un problema o il problema?

Il dibattito negli Enti di ricerca sembra essere condizionato da un perenne senso di inferiorità dovuto alla regolamentazione dell’orario di lavoro o meglio alla certificazione dell’orario di servizio, rivendicando l’abolizione dell’orario vincolante negli enti di ricerca a fronte di una regolazione flessibile per la docenza universitaria: ma non sempre (quasi mai) tutto ciò che luccica è oro.

Nelle Università (quindi per i docenti) è sempre più difficile esercitare l’autogoverno nell’organizzazione del lavoro in ragione di processi di “valutazione”/assicurazione della qualità che condizionano fortemente le possibilità di organizzazione autonoma del lavoro. Per tutte quelle attività che richiedono la presenza in sede, anche nel caso dell’Università è l’amministrazione che attribuisce gli orari al docente (ad esempio, gli orari dei corsi).

Sorge allora spontanea una domanda: è proprio impossibile annullare per via contrattuale la retribuzione dal tempo di lavoro per legarla alla funzione? Crediamo che l’organizzazione del lavoro debba essere dettata da norme generali definite dal quadro legislativo e dalla regolamentazione interna.

Il contratto nazionale potrebbe, senza difficoltà, disciplinare le modalità autonome di certificazione del lavoro svolto dal ricercatore, sia in presenza – in funzione delle esigenze di servizio generale – sia invece di lavoro “da casa” o autonomo, né più né meno come accade per l’Università.

Ruolo unico

Iniziamo col dire che nell’università non esiste un “ruolo unico”: tema problematico. Vi è gerarchizzazione e coesistenza di figure e funzioni diversificate. E’ difficile definire il ruolo unico: è carriera unica? funzioni uniche? dinamica stipendiale unica?

Nel caso dei professori associati e ordinari (che qualcuno riconduce ad un ruolo unico su due fasce) si distinguono in maniera molto limitata per le funzioni, più significativamente per le dinamiche stipendiali e l’accesso ai ruoli di governo. Vi è quindi una gerarchia implicita che svuota di senso ogni riferimento al ruolo unico che, nell’università, non esiste.

Allo stesso modo, l’Università è condizionata da una radicale e profonda separazione (ai limiti dell’astio reciproco) tra il personale che ha lo status giuridico (professori e ricercatori) e il personale tecnico e amministrativo. Ciò rende difficile il lavoro di tutti, ed è una separazione sulla quale non si è in grado di intervenire non essendoci la mediazione comune offerta dalla contrattazione e dalla negoziazione contrattuale.

Negli Epr la ricerca è fondata sulla cooperazione tra le varie figure professionali. Se si gerarchizzasse il lavoro assisteremmo ad un sostanziale abbassamento della qualità della ricerca, che non significa anarchia lavorativa ma valorizzazione del contributo che ognuno dà per raggiungere importanti risultati come è evidente nell’INFN e come è previsto dalla Carta dei ricercatori (tanto citata ma poco applicata) che prende in considerazione un bacino di lavoratori più ampio del semplice ricercatore.

Se si andasse ad una separazione netta tra lo status di ricercatore/tecnologo e la mera esecuzione di direttive da parte dei tecnici e amministrativi sarebbe inevitabile che l’astio reciproco presente nelle università si presenterebbe anche negli Epr. Già questo è iniziato con l’aberrante legge Brunetta (un giorno di malattia per un tecnico/amministrativo costa al lavoratore cinque volte di più rispetto ad un ricercatore/tecnologo), oppure basti pensare al blocco del turn over che ha separato la possibilità di reclutamento, diminuendo al 25 % il ricambio generazionale per i livelli IV-VIII. Non si può inoltre tralasciare che tecnici e amministrativi hanno carriere bloccate Se questo è un problema va affrontato e risolto, per tutti e non solo per una parte di personale.

Terza fascia TD: tema della tenure track

Nella lettera sottoscritta dai rappresentanti e inviata ai Ministri è ben chiaro che il precariato rischia una precarizzazione ancora maggiore dal punto di vista delle tipologie di contratto (vengono liberalizzati i contratti atipici). Aggiungiamo: si sancirebbe la precarizzazione a vita. Non si capisce allora come possa essere auspicabile la soluzione già vista con la riforma Gelmini per le Università, avendo già ora ben visibili gli effetti nefandi che ha prodotto.

Una tenure è auspicabile in un quadro ben definito di carriere. Nell’università però non c’è. E non solo perché le Università si sono comportate male (anche, forse) nel reclutamento. Negli atenei ci sono ormai figure diverse in competizione per risorse scarse, con regole del gioco fortemente distorsive.

Il blocco rappresentato dalla figura in esaurimento del ricercatore ha ingessato il reclutamento di nuovi studiosi ed ha abbassato la qualità del sistema, riducendo le possibilità di carriera (quindi frustrazione dei tanti ricercatori non abilitati o abilitati senza possibilità concrete di

chiamata) e alzando l’età media. Pesante è il vincolo formale offerto dal differenziale stipendiale che ingessa la programmazione. A questo si associa il vincolo informale rappresentato dalla normale tendenza conservativa dell’istituzione che tende ad anteporre il collega (interno) all’esterno.

Non possiamo inoltre dimenticare che all’interno dell’INFN (ma vale anche per gli altri enti di ricerca) ci sono un gran numero di lavoratori sottoinquadrati. Persone che hanno conseguito anche il dottorato di ricerca ma sono tecnici o amministrativi e che mai, con una riforma di questo genere, potrebbero avere la benché minima chance di poter concorrere ad un posto che rispecchi il loro percorso formativo e lavorativo. Già oggi, vista la scarsità di risorse assunzionali, a questi lavoratori si preferisce il precario (“interno”) che altrimenti sarebbe definitivamente fuori. Un contratto collettivo di lavoro potrebbe dare gli strumenti necessari per evitare lo scontro tra singoli soggetti, riconoscendo le professionalità e migliorando sia l’attività di ricerca sia le condizioni lavorative.

Mobilità

Giustamente i Rappresentanti nazionali nella lettera citano le norme che già ci sono in materia di mobilità tra Università e Epr. Ci si chiede allora: perché sono pochissimi i ricercatori che utilizzano questo strumento? Pensare che si inneschi un sistema di mobilità tra enti e università a partire dal riordino dello stato giuridico è fittizio e non ha nessuna base logica credere che lo stato giuridico aumenti automaticamente la mobilità.

La mobilità non si attiva perché mancano gli incentivi di sistema (in particolare per le università) ad accogliere ricercatori. Peraltro, ogni singola università è un’amministrazione autonoma per la quale la mobilità è sempre “reclutamento”. Vi sono quindi fortissimi limiti connessi alla programmazione da parte degli atenei delle esigenze didattiche e di ricerca (in un contesto di precariato strutturale) che disincentivano processi di mobilità che non siano – per intenderci – “extra budget”.

Non si deve rifiutare la sfida della mobilità, ma dati gli strumenti esistenti lavorare sugli incentivi, eventualmente premiali. Lo stato giuridico non risolve nulla!

Valutazione: confusione terminologica

Nella lettera inviata ai Ministri Madia e Giannini la “valutazione” sembra il convitato di pietra. Sembra che ci sia il terrore di citarla. Non si può però eludere questo argomento.

Quello che oggi abbiamo nelle Università: valutazione individuale della ricerca, valutazione individuale della performance, valutazione della performance delle strutture, politiche di accreditamento e valutazione in itinere delle strutture e “dei processi”, valutazione come certificazione dei bilanci. Il ruolo dell’Anvur, l’irrigidimento e la centralizzazione dei processi, l’aggravio di lavoro - tutto al di fuori di qualsiasi possibilità negoziale del personale. I docenti universitari sono oggi ingabbiati in una rete di forme valutative e di certificazioni che non ha eguali nel mondo della pubblica amministrazione e che rappresenta un aggravio di lavoro amministrativo difficilmente comprensibile.

In termini più generali, ci si illude che un comune stato giuridico garantisca un’omogeneizzazione dei sistemi. Semmai, si costruisce una forzata uniformità tra strutture molto diverse. Si pensi al sistema universitario che è già composto da realtà molto diverse: atenei politecnici, generalisti, dimensioni diverse, caratteristiche territoriali differenti. A maggior ragione questo vale per gli Enti di Ricerca (vigilati dal Miur e strumentali per esempio). C’è un problema di convergenze e integrazione, non di omologazione.

Non ci sono soluzioni semplici. Certamente sia il sistema del contratto nazionale, sia quello del regime di diritto pubblico sono in crisi. Ma adottare un qualche stato giuridico – magari modellato su quello della docenza – senza i suoi prerequisiti (a partire dal sistema dell’autonomia universitaria) rischia di individualizzare il rapporto tra il ricercatore e la sua amministrazione indebolendo le tutele e i diritti offerti dalla contrattazione senza, con questo, assumere alcuna delle caratteristiche dell’organizzazione del lavoro propria della docenza universitaria.

Seppur il percorso sia difficile è indispensabile fare lo sforzo di confrontarsi e non è utile portare avanti la singola posizione, ma è necessario rappresentare le posizioni di tutti per il bene di tutti.

Roma, 26 maggio 2016

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