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Protocollo d’Intesa Confindustria Crui. Se questa è la strada per l’innovazione partiamo con il piede sbagliato

La FLC CGIL esprime forti perplessità sul metodo e sui contenuti del protocollo d’intesa.

11/11/2011
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E’ opinione di questa organizzazione sindacale che una delle ragioni della crisi attuale del nostro paese debba essere ricercata nel suo modello produttivo senza ricerca. Il nostro problema principale è l'innovazione di prodotto. Ciò naturalmente ha effetti sulla qualità del lavoro. L'industria senza ricerca e innovazione richiede qualifiche professionali basse, ritiene poco importante il titolo di studio e ignora le capacità professionali.  Non è un caso infatti che abbiamo un numero di laureati impiegati nel mondo del lavoro tra i più bassi d'Europa per non parlare dei dottori di ricerca. E’ indispensabile favorire la transizione verso una nuova specializzazione produttiva e ciò può avvenire solo con un impegno straordinario dello stato. Del resto è sempre stato così in tutto il mondo.

La stessa esperienza della Germania dopo l'unificazione ci racconta di uno straordinario impegno dello stato nella ricostruzione di un politica industriale fondata sull'intersezione tra scienza e innovazione. Tutto questo senza dimenticare l'importanza della scienza di base. Del resto oggi non ha senso parlare di ricerca di base e ricerca applicata come se fossero due cose distinte. Esistono la ricerca fondamentale e le sue applicazioni. La mancata traduzione della prima nelle seconde dipende da una scarsa se non scarsissima domanda di innovazione da parte dell’Impresa. Il problema è quindi come aumentare la fame di innovazione.

Alla luce di queste considerazioni esprimiamo rilevanti perplessità in ordine all’accordo siglato tra Confindustria e Crui che prevede azioni congiunte su otto punti relativi ad “azioni misurabili per l’Università, la ricerca e l’innovazione”.

  • Orientamento verso le lauree tecnico-scientifiche
  • Ricerca e trasferimento tecnologico
  • Occupabilità dei laureati triennali
  • Dottorato
  • Internazionalizzazione
  • Monitoraggio della Riforma: reclutamento
  • Monitoraggio della Riforma: governance
  • Benchmarking internazionale

Alcuni contenuti di questo accordo rischiano di tradursi nell’ennesimo attacco all’autonomia e alla natura pubblica dell’Università italiana senza produrre alcun effetto concreto sull’innovazione tecnologica all’interno delle nostre filiere produttive e uniti al drammatico sottofinanziamento dei nostri atenei, possono portare ad un indebolimento della ricerca di base e dei saperi non immediatamente applicativi. Inoltre colpisce che sia proprio la CRUI a siglare un protocollo di intesa con confindustria su argomenti che dovrebbero essere di competenza Ministeriale. Evidente che ciò si spiega, al di là del merito del protocollo, in ragione della totale latitanza e inconsistenza Ministro in carica fino a ieri beatificato da entrambe le associazioni.

Nel merito del primo punto Orientamento verso le lauree tecnico-scientifiche  vogliamo evidenziare che, se nell’attuale situazione di declino delle iscrizioni a questi corsi è certamente questa una preoccupazione condivisibile tuttavia nulla è detto su azioni analoghe che potrebbero coinvolgere aree diverse da quelle tecnico-scientifiche che pure offrono fondamenti culturali, scientifici e formativi decisivi per il nostro sistema produttivo. Su questo punto l’accordo ci pare lontano dagli percorsi più vivi e innovativi della ricerca e della produzione odierni.

Allo stesso modo, azioni come quelle relative alla ricerca e al trasferimento tecnologico, all’occupabilità dei laureati, al dottorato di ricerca “executive-per-l’industria” nell’attuale situazione del nostro mercato del lavoro rischiano di diventare strumenti di interfaccia tra aziende e alcuni settori dell’alta formazione universitaria per il reclutamento di stagisti e lavoratori a basso costo, piuttosto che l’avvio di un ampio e complessivo impegno all’orientamento, alla formazione, al reclutamento in azienda. Se i beni che produciamo richiedono professionalità medio basse è evidente che il problema non si risolve con incentivi di questo tipo. Così come non ha funzionato il distacco dei ricercatori presso le aziende privarte di Berlingueriana memoria. Lo diciamo con rammarico, ma è così.

In particolare per quanto riguarda il percorso di dottorato per l'industria sarebbe stato opportuno accompagnare questa previsione da un riferimento esplicito sia ad un tutorato in azienda finalizzato a monitorare l’attività del dottorando sia la predisposizione di un progetto specifico di ricerca. Inoltre anche il ruolo delle organizzazioni sindacali in azienda non è secondario nel garantire che la ricerca non diventi un pretesto per l’ennesima operazione di compressione del costo del lavoro.

L’apprendistato di alta formazione è certamente un riferimento utile ma non sufficiente a garantire che si svolga una vera attività di ricerca.  

Ma soprattutto il problema che abbiamo oggi è rappresentato dal taglio delle risorse per le borse di dottorato che rischia di diventare la vera ragione per orientare interi corsi verso attività in azienda.

Ancora, sotto la voce benchmarking internazionale, lo sforzo di individuazione di “best practices” da sottoporre agli Atenei e alle imprese ci sembra, nella migliore delle ipotesi, il frutto della scarsa conoscenza delle problematiche connesse alla gestione e alla valutazione di strutture così profondamente diverse tra loro quali sono l’università e l’impresa. Quasi come se si ricercassero per le università italiane facili e illusori modelli di gestione manageriale e aziendalista senza alcun fondamento scientifico o concretezza operativa.

Certamente più grave è il ruolo assegnato a Confindustria in materia di “monitoraggio della riforma”: ossia la governance universitaria – relativamente al grado di applicazione della legge 240/2010 - e il reclutamento. Quale contributo possano dare Confindustria o le imprese italiane al monitoraggio dei problemi complessi, e delle soluzioni che gli atenei dovranno individuare, relativi all’applicazione di una legge ingiusta e confusionaria come la 240 del 2010 ci è ignoto. Allo stesso modo, sul punto del reclutamento universitario, troviamo incomprensibili le ragioni per le quali Confindustria possa e debba entrare nel merito della “definizione di criteri per la valutazione della qualità di docenti e ricercatori da proporre all’Anvur” o della “definizione di modelli di accreditamento dei corsi universitari in linea con gli standard europei”. In nessun paese del mondo l’impresa individua i criteri di valutazione della qualità dei docenti e dei ricercatori, semmai sono docenti e ricercatori a individuare gli elementi sulla base dei quali valutare l’operato e la capacità operativa e innovativa delle aziende.

Delle due l’una, o l’accordo è il frutto di una politica spettacolistica finalizzata a rassicurare parti politiche e assetti di potere sulla “buona volontà” dei rettori italiani e delle imprese, oppure esso rappresenta un gravissimo attacco all’autonomia dell’università italiana e alla libertà di ricerca e di didattica nonché alla pluralità e alla multidisciplinarietà del sapere, della ricerca, della formazione.

Peraltro, in un contesto di sottofinanziamento cronico come quello attuale, di blocco del turnover, di mortificazione sistematica del personale universitario e degli studenti anche i meno opinabili tra i punti elencati diventano chimere. Se Confindustria vuole contribuire alla tenuta e allo sviluppo del sistema universitario italiano cominci ad accettare che senza diritto allo studio, senza biblioteche, senza infrastrutture, senza ricerca di base  non potrà mai esserci innovazione. L’eccellenza non nasce nel deserto.

Gli associati a Confindustria accettino una sana competizione per ottenere risorse pubbliche finalizzare all’innovazione di prodotto e smettano di chiedere sgravi fiscali generalizzati che già hanno fallito più e più volte. Accettino valutazioni vere dei progetti meritevoli di sostegno da parte dello stato alla luce di una politica industriale finalizzata a cambiare il volto del sistema produttivo italiano per orientarlo verso prodotti high tech. Decidano di rischiare investendo in ricerca e innovazione. Si rendano disponibili a contrattare l’innovazione organizzativa e a valorizzare le professionalità con salari adeguati come avviene in alcuni casi, troppo pochi per fare sistema.

 Se la Crui vuole veramente dare un contributo allo sviluppo del sistema universitario italiano ponga con forza alle istituzioni politiche del paese la necessità di un vero e ordinato finanziamento del sistema universitario, piuttosto che accogliere con sussiego le promesse di riduzione dei tagli fatte fino ad oggi da un governo di cui siamo, per fortuna, a vedere la fine.