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Povertà, esclusione e infanzia

In apertura del suo intervento Sandro Del Fattore, Dipartimento welfare e nuovi diritti CGIL, afferma che il fenomeno dell'esclusione e della povertà, è caratterizzato da un elevato livello di complessità.

A tal proposito, l'ISTAT ha pubblicato dati importanti riferiti al 2009 sulla povertà assoluta e relativa. L'incidenza della povertà relativa in Italia è pari al 10,8%, mentre l'indice di povertà assoluta è pari al 4,7%. Fin da subito, però, Caritas Italiana e Fondazione Zancan hanno contestato l'interpretazione fornita dall'Istat su questi dati. Secondo la Caritas, sono ben ottocentomila le persone che sono cadute in una situazione di rischio di povertà e di esclusione. Si tratta di persone che non erano povere, ma che sono state costrette a cambiare tenore di vita, perché su di loro si sono abbattuti gli effetti della recente crisi economica, primo fra tutti la perdita di posti di lavoro e, conseguentemente, di fonti di reddito. Eppure queste famiglie non sono considerate povere dalle statistiche ufficiali, ma l'esperienza di tutti i giorni ci insegna che queste possono da un momento all'altro cadere nella povertà e tale fenomeno è diventato particolarmente evidente a partire dagli ultimi tre anni.

Per evitare di penalizzare ulteriormente famiglie già pesantemente colpite dalla crisi, occorrerebbe rivedere il metodo di dichiarazione ISEE, sottolinea Del Fattore. Attualmente viene fatta sulla base del reddito dichiarato nell'anno precedente e non tiene conto dell'eventuale perdita del posto di lavoro di qualche componente della famiglia. Per ovviare a questo inconveniente, bisognerebbe fare la dichiarazione ISEE sulla base del reddito disponibile al momento.

Fino a qualche tempo fa l'escluso e il povero erano identificati con il disoccupato. Oggi la situazione è mutata: è a rischio di povertà anche chi è dotato di un solo reddito. Tutto ciò accade perché si diffonde sempre più il fenomeno del “lavoro povero”, che interessa soprattutto donne, migranti, giovani, lavoratori over 45 con bassa specializzazione. Si amplia, in questo modo, la fascia della marginalità sociale e del rischio di esclusione. I dati ISTAT ci fanno notare come la situazione persista nel tempo e non migliori; da ciò possiamo dedurre che in Italia è molto facile entrare nella condizione di povertà (che oggi interessa almeno 13 milioni di persone), ma è molto difficile uscirne.

Questa diffusa condizione di povertà ha un forte impatto sui minori. Le famiglie che sono esposte a un rischio maggiore di povertà sono solitamente famiglie con minori a carico. Oggigiorno in Italia i minori che vivono in una condizione di povertà relativa sono 1.800.000, il 69% dei quali vive nelle regioni meridionali e il 19% in quelle settentrionali.

Secondo dati forniti dall'UE, in Italia il rischio-povertà (indicato dalla percentuale di popolazione che ha un reddito inferiore al 60% del reddito medio nazionale) è pari al 19% (contro una media UE del 17%). Questo dato sale al 25% se parliamo di minori (il 20% nelle UE): nell'UE a 27 stanno peggio di noi solo Bulgaria e Romania.

La condizione dei minori è strettamente correlata alla condizione sociale delle famiglie di appartenenza. È ancora molto forte in Italia la correlazione tra reddito familiare e condizione futura dei figli. Negli USA la metà dei bambini nati da genitori con reddito basso, conserva da adulti un reddito altrettanto basso. Nel Regno Unito 4 bambini su 10 manterrà la stessa condizione di svantaggio della propria famiglia di origine. In Italia molto rigida è la mobilità sociale relativa al reddito: infatti la probabilità che un figlio di genitori laureati si laurei a sua volta è molto alta (pari al 56%), mentre è molto bassa la medesima percentuale se riferita ai figli di genitori che hanno al massimo solo la licenza elementare (in questo caso tale probabilità scende ad un misero 4,7%).

Anche le scelte del tipo d'istruzione secondaria di II grado, effettuate ad un età troppo precoce alla fine della III media, sono fortemente condizionate dalla situazione economica della famiglia di origine.

Che senso ha continuare a difendere a parole la famiglia, come ha fatto questo governo nella recente Conferenza sulla famiglia, se poi lo stesso governo, nella Manovra di finanza pubblica approvata nella scorsa estate, ha ridotto il finanziamento del Fondo previsto dalla legge 328 da un miliardo e mezzo (tale è l'ammontare del finanziamento per l'anno in corso) ad appena 352 milioni (meno di un terzo per l'anno venturo)? Come faranno adesso le Regioni ad assicurare la continuazione dell'erogazione di finanziamenti ritenuti essenziali per assicurare il minimo indispensabile nell'ambito delle politiche sociali e di assistenza?

Quel che occorre davvero è l'adozione di un serio e organico Piano di lotta alla povertà e all'esclusione, che preveda almeno queste tre misure di improcrastinabile urgenza:

  • la diffusione capillare di “Punti di accesso” sul territorio, ai quale la gente possa rivolgersi liberamente per manifestare la propria condizione di disagio;
  • l'erogazione di un sostegno economico al reddito alle famiglie con figli a carico, riconosciuto sulla base di una dichiarazione ISEE, ricavata non più sul reddito dichiarato nell'anno precedente, ma sulla base del reddito disponibile al momento;
  • un'azione che leghi il sostegno economico alla famiglia, ad esempio al reinserimento nei percorsi di istruzione e formazione dei minori, che eventualmente in precedenza avevano abbandonato gli studi.

I minori, però, non sono esposti solamente ad un impoverimento di tipo materiale: esso è, oggi più che mai, un impoverimento di tipo culturale.

Un ultimo accenno sul lavoro minorile. Secondo Sandro Del Fattore, ha ancora senso oggi parlare di lavoro minorile: infatti, da una ricerca della CGIL che risale agli anni '90 è emerso che, in quegli anni, in Italia c'erano ancora trecentomila piccoli lavoratori.

In alcuni casi si tratta di bambini costretti a lavorare tutto il giorno senza frequentare la scuola, ma, nella maggior parte dei casi, si tratta di bambini costretti ad andare a scuola al mattino e a lavorare al pomeriggio o nel fine-settimana. Il triste fenomeno del lavoro minorile è causato ancora nelle Regioni meridionali da situazioni di grave bisogno economico, mentre, in altre parti più ricche del Paese, esso è il frutto di modelli culturali sbagliati che propongono come una necessità persino ai ragazzi una vita autonoma a livello economico fin dall'adolescenza, svalutando di fatto l'importanza del percorso scolastico nella formazione della persona.

Del Fattore si avvia a concludere. L'Italia, afferma, di questo passo, difficilmente riuscirà a raggiungere gli Obiettivi della Strategia di Lisbona, che si proponeva di fare dell'Europa “l'economia della conoscenza più competitiva del mondo”. Questi obiettivi saranno sempre più lontani, almeno fino a quando l'unico criterio di giudizio di ogni politica sarà il rispetto dei parametri del debito pubblico. In questo modo è veramente difficile investire nell'economia della conoscenza.