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Corriere: «Contro la guerra studi senza frontiere»

La storia dell'associazione francese che ha dato a giovani ceceni e ruandesi la possibilità di frequentare università occidentali

30/11/2006
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Corriere della sera

Ragazzi strappati all'orrore torneranno a casa istruiti

di ANDRÉ E RAPHAËL GLUCKSMANN

«Gli uomini non si nutrono di solo pane. Nelle cantine di Grozny, sotto le bombe, quello che mi mancava di più erano i miei libri, i miei quaderni di scuola, i miei film, tutte le cose che avrebbero permesso alla mia anima di volare via, lontano da quest'inferno». Milana Terloeva ha 26 anni. È cecena. In Russia, questo è un crimine. Non da noi. Nel settembre del 2003 lascia le rovine di Grozny e sbarca a Parigi. Tre anni più tardi, ottiene il diploma della «Scuola di giornalismo» dell'Istituto di Scienze politiche di Parigi, pubblica un libro magnifico ( Danser sur les ruines, une jeunesse tchétchène, ed. Hachette, Parigi) e ora si appresta a tornare nel suo Paese. Milana incarna il successo di «Etudes Sans Frontières» (www.etudessansfrontieres.org).

«L'uomo non vive di solo pane». Nel caos delle guerre e delle dittature che insanguinano il nostro pianeta, quanti ragazzi sono privati del diritto di studiare liberamente? Mentre il terrorismo internazionale minaccia le nostre società, quale progetto più nobile per la gioventù occidentale d'offrire a studenti di paesi distrutti l'accesso al sapere e alla cultura? Quale progetto più utile per contrastare i mercanti di odio che sfruttano la disperazione di chi l'Occidente dimentica? Tendere la mano a coloro che la demenza degli uomini esclude dalla Storia, ecco ciò che anima il piccolo gruppo di studenti francesi che nel marzo 2003 fondarono «Etudes sans frontières».

Tornando a casa dopo una manifestazione contro la guerra in Cecenia (200 mila morti su una popolazione di un milione di persone), che non aveva mobilitato più di cento parigini, quegli studenti si posero una domanda evidente, ma inaudita: «cosa fare per salvare i giovani ceceni della nostra età?». Non potendo lavorare su quel pezzetto di terra chiuso agli stranieri, essi si presero carico di alcuni studenti di Grozny e offrirono loro di studiare a Parigi. Gli scettici e i «realisti» sorrisero tristemente: impossibile! Eppure, in settembre, la prima promozione di studenti sostenuti da «Etudes sans frontières» fu accolta.

Anna Politkovskaya, la nostra carissima e tanto rimpianta amica, credette fin dall'origine nel progetto e ne colse subito l'importanza. Una goccia d'acqua in un oceano d'indifferenza? Nessuno meglio di lei conosceva le devastazioni di un conflitto spietato, nessuno aveva rischiato tanto la propria vita per incontrare le ombre umane di Grozny. L'arrivo in Europa di dieci, venti, trenta o cinquanta studenti, diceva Anna incoraggiante, sono segni di speranza per chi resta fra le rovine. No! Non erano soli al mondo. No! la parola «ceceno» non era universalmente dimenticata. Il «ghetto» si sarebbe dischiuso. Gli assassini lavorano nella notte e nella nebbia, e bruciano le biblioteche, sta a noi edificare ponti spirituali. I nemici della libertà hanno ammazzato Anna, ma la sua lotta per la verità continua. Per esempio attraverso i giovani di «Etudes sans frontières», attraverso Milana e gli studenti ceceni invitati a Parigi, a Lilla e presto a Roma, Bruxelles, Montreal, Barcellona.

La Cecenia è stata la prima missione dell'Associazione. Ed è tuttora la principale. Poi è stata la volta del Ruanda. Altri giovani di altri paesi aspettano. Se il progetto ottiene una base finanziaria, politica e popolare, non sarebbe necessario accogliere giovani del Darfour o dell'Iraq nelle nostre scuole e università?

Una guerra finisce quando persone educate liberamente partecipano alla costruzione della pace. Il presupposto per uscire da una crisi è un rapporto democratico con il potere e la violenza. E questo rapporto si apprende nello scambio interculturale. Il Presidente ceceno assassinato, l'unico eletto liberamente dal suo popolo, Aslan Maskhadov, l'aveva capito quando, alla fine della prima guerra cecena (1994-'96), supplicò i paesi occidentali di accogliere studenti ceceni nelle loro università. Sognava dirigenti liberali capaci di ricostruire una società massacrata dalla guerra, minata dalla violenza. L'Occidente fece orecchie da mercante. La Cecenia rimase isolata e le gang seminarono il caos. I wahhabiti, invece, usufruirono di borse di studio nei paesi rinomati per le loro concezioni liberali e laiche, come il Pakistan o l'Arabia Saudita. Il terrorismo non è solo un fenomeno di reti terroristiche che è bene smantellare, trae la sua origine da un'ideologia della chiusura, della disperazione e dell'odio. E questa ideologia non sarà sconfitta solo da una cooperazione poliziesca o militare, ma spezzando il giogo psichico delle porte chiuse sotto cui il terrore e la solitudine rinchiudono le vittime delle pesti politiche e sociali.

Esistono due tipi d'impegno. Il primo vuole trasformare il mondo secondo un dogma prestabilito. Il secondo, più modesto, vuole medicare le piaghe dell'umanità nell'emergenza. Il fallimento del primo non deve distogliere i giovani dal secondo. Sartre conobbe entrambi: il compagno di strada del Partito comunista, che proclamava «qualsiasi anticomunista è un cane», alla fine della vita appoggiò i dissidenti antisovietici e i boat people che fuggivano dalla dittatura comunista del Vietnam. Rinunciava al dogmatismo per aderire al principio di solidarietà universale che unisce coloro che godono della libertà a coloro che ne sono privati. «Etudes sans frontières» si conforma a questa seconda scelta filosofica e pratica.

L'8 novembre scorso l'Associazione ha celebrato l'apertura di una sua base italiana a Palazzo Farnese, sotto l'egida dell'ambasciatore di Francia, Yves Aubin de La Messizière, alla presenza di Tommaso Padoa- Schioppa, ministro dell'Economia, e di Rita Levi-Montalcini, senatrice a vita e Premio Nobel per la medicina. È un esempio brillante per l'intera Europa.

Il mondo non ha più isole. Se l'Europa non aiuta le giovani vittime delle guerre e delle dittature che la circondano, non speri di salvarsi da un cataclisma che non mancherà di sopraggiungere. Nessuna civiltà ha potuto vivere per lungo tempo in pace e nell'opulenza senza che il caos del mondo finisse per raggiungerla. Dall'11 settembre 2001 sappiamo che le disgrazie di Kabul possono scuotere Manhattan. Il centro e la periferia hanno ormai un destino comune.

Qualche piccolo gruppo di studenti sfuggiti allo smarrimento planetario è poca cosa, ma non è un fatto irrisorio. C'è di mezzo il senso dell'Europa. Voltaire concludeva il «Candido» con queste parole: «Coltiviamo il nostro giardino». Molti commentatori si fermano al «giardino», quando invece quel che prevale è l'ingiunzione «coltiviamo». Coltivare = formare una comunità di cultura. Questo era già il disegno di Benedetto (cui l'attuale Papa rende omaggio) il quale, dopo Montecassino, moltiplicò i monasteri, fragili oasi di sapere e di discussione dove furono preservate le fondamenta della nostra cultura.

Il nostro «giardino» è ormai mondiale. Ritroviamo l'anticlericale Voltaire e il Santo cristiano. Contro i teorici dello scontro di civiltà, «Etudes sans frontières» può diventare un movimento collettivo di ecologia spirituale e di solidità mentale. Si parla molto, giustamente, dei pericoli planetari che minacciano l'«ambiente»: deforestazione, riscaldamento climatico, scomparsa delle specie naturali. Non dimentichiamo che il primo «ambiente» di un essere umano sono gli altri esseri umani. La più grande minaccia per l'umanità resta la distruzione non della natura ma della cultura, cioè della capacità che esiste in ciascuno di noi di ascoltare e comprendere gli altri.

(traduzione di Daniela Maggioni