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Corriere/Economia:I Ceo d'Italia vengono dalla scuola pubblica

La maggioranza dei top manager ha studiato in un'università statale

01/12/2006
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Corriere della sera

A sorpresa anche poco estero e pochi master nel curriculum dei numeri uno delle 40 principali quotate in Borsa

Laurea in economia, superspecializzazione, esperienza all'estero, capello bianco? Non sono necessari per impugnare il timone delle large cap italiane. Tanto eno è indispensabile il prestigio di un'università privata. Una nostra ricerca sui curricula dei vertici delle 40 società dell'S&P/Mib, l'indice dei principali titoli quotati a Piazza Affari, sfata molti miti sul dna del top manager «nostrano». A cominciare dal punto di partenza, la formazione. Ovviamente dottori in economia e ingegneri fanno la parte del leone, ma un quarto degli amministratori delegati/ceo presi in considerazione proviene da altre facoltà. Anche umanistiche: Ugo Ruffolo, di Alleanza assicurazioni, è laureato in lettere. Altra «sorpresa», la scelta dell'ateneo: la maggior parte dei ceo delle aziende nel paniere dell'S&P/Mib ha studiato in un'università pubblica. Come dicono gli esperti, l'importante è che il percorso sia adeguato alle esigenze del mercato.
POCHI MASTER — Ma, stando ai risultati della nostra indagine, cade anche un'altra certezza: la necessità della specializzazione. Se il numero uno di Banca Intesa, Corrado Passera, può vantare un Mba alla Wharton School of finance di Philadelphia, Paolo Scaroni di Eni ha «sviluppato» le sue conoscenze alla Columbia University e Sergio Marchionne di Fiat all'University of Windsor del Canada, in generale i master conseguiti all'estero o in Italia sono rari tra le eccellenze del mondo economico. Come spiega Giovanna Brambilla, amministratore delegato della società di ricerca manager e specialisti Value Search Finance, «venticinque anni fa, quando questi signori si sono laureati, certi corsi non erano diffusi come adesso». Ma, soprattutto, non tutti gli esperti concordano che l'Mba sia un elemento discriminante, in particolare per raggiungere il top assoluto di un'azienda ad «alto peso netto». «C'è un ritorno all'esperienza vissuta più che a quella teorica», sottolinea l'amministratore delegato di Eric Salmon & Partners, Massimo Milletti. «E, potendo scegliere, oggi la prospettiva di un job interessante dopo la laurea è da prendere al volo. Perché è un passo davvero importante per la carriera entrare in realtà molto dinamiche e formative come possono essere, per esempio, Luxottica, la nuova Fiat, Eni, Unicredito o Banca Intesa». Certo è che, comunque, nel portafoglio di un manager top level, oltre a formazione e competenze, è assolutamente determinante il network di conoscenze costruito negli anni.
SCARSE LE ESPERIENZE ALL'ESTERO — E l'esperienza oltreconfine? «E' essenziale, perché il raggio d'azione delle aziende si è enormemente ampliato e i mercati di riferimento sono molto spesso mondiali, sia in acquisto che in vendita», argomenta Brambilla. Londra o New York sono d'obbligo per chi vuole scalare i confini della finanza; gli Usa un must per chi fa carriera nel mondo dei servizi; il Far East e la Cina le nuove frontiere. Ma si parla di futuro. Perché, malgrado si respiri aria di internazionalizzazione, una minima parte degli attuali ceo, di fatto, ha lavorato per un consistente periodo fuori Italia. E Maurizia Villa, managing partner Italia di Heidrick & Struggles, tutto sommato non si stupisce più di tanto. «Il problema è che il periodo all'estero non sempre è così premiante, in particolare per chi ambisce a ricoprire cariche molto importanti al ritorno in Italia: un'esperienza nei mercati emergenti, per esempio, dà sicuramente un forte valore aggiunto; ma, al lato pratico, se non è proprio mirata non va a incidere sulla scelta della propria candidatura rispetto a quella di qualcun altro». Insomma estero sì, ma puntando bene l'obiettivo.
Più vivace, sicuramente, è la mobilità intrasettoriale dei top manager dell'S&P/Mib: circa un terzo può vantare fondamentali agganci su più fronti, spesso perché ha «saltellato» dall'industria ai servizi. «Ma è ancora troppo poco» commenta Milletti. «All'estero è un fenomeno molto più diffuso. E aiuta a rafforzare la capacità di essere un leader, caratteristica che per un capo è oggi fondamentale». Anche Villa promuove «l'eclettismo»: «Sicuramente dà una visione molto più completa rispetto all'esperienza monoculturale, a meno che si vadano a ricoprire posizioni all'interno di realtà con controllo familiare, privato, molto più omogeneo».
VINCONO I QUARANTENNI — Ma c'è un altro mito da sfatare che è quello del dirigente italiano troppo attempato: i quarantenni a capo delle società dell'S&P/Mib superano ampiamente il numero dei cinquantenni e ancor più degli ultra sessantenni. I «giovani» avanzano dunque. Fin troppo: gli esperti criticano quello che chiamano «rampantismo». «L'età si è spostata verso il basso con la new economy, che ha puntato l'attenzione sui cambiamenti velocissimi di mercato e sulla capacità creativa, dando grande enfasi all'energia e all'entusiasmo», spiega Raffaella Longhi, associate partner di Kpmg (executive search). «Dal mio punto di vista, però, oltre a queste caratteristiche oggi sono necessarie anche doti di spessore personale e professionale che vengono date dagli anni di esperienza». Meglio, quindi, arrivare alla punta estrema della piramide verso i cinquanta? Probabile. Ma nella domanda di risorse c'è anche una nuova interessante tendenza. «Adesso le aziende richiedono molto spesso di "scoprire" nuovi manager, cioè talenti non ancora arrivati che, però, siano in grado di esprimere dei potenziali», spiega Villa. «E' un po' finita — aggiunge — l'era dei soliti noti sui giornali».