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Corriere: Formazione, a scuola due milioni di italiani

«Troppo pochi». La metà di quanti ne vorrebbe l’Europa. Tanti corsi ma nessun controllo sui risultati

30/11/2009
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Corriere della sera

La situazione Il ministro Sacconi: «Non c’è buona occupazione senza un aggiornamento continuo». Bankitalia: un investimento che rende il 9%

Alzi la mano chi non ha pen­sato ad un certo punto del­la propria vita di iscriversi ad un corso di formazione. Finite le scuole, usciti dall’università o mentre si sta preparando la tesi, durante un periodo di inattività, dopo la pensione. Tutti ci hanno pensato almeno una volta ma po­chi l’hanno poi fatto davvero, no­nostante sia sempre più chiaro che la formazione cominciata sui banchi della scuola non dovrebbe più terminare in un mondo com­plesso che pretende da ogni indivi­duo la capacità di organizzare, sele­zionare e usare al meglio l’enorme quantità di informazioni e di dati nuovi che riceve ogni giorno.

In Italia le parole «corso di for­mazione » evocano tre differenti mondi: quello della formazione continua, che si rivolge alle perso­ne occupate, a chi lavora ma vuole mantenere alto il proprio livello di professionalità o vuole raggiunge­re nuove capacità professionali. Qualche settimana fa il ministro del Welfare Maurizio Sacconi ha detto: «Non c’è buona occupazio­ne senza formazione continua». Come dargli torto? Oggi la forma­zione continua la fanno le aziende attraverso i fondi interprofessiona­li (sono diciotto), che il lavoratore si paga da sé lasciando per legge al datore di lavoro il 3 per mille del proprio stipendio. Si tratta di alme­no un miliardo di euro, diceva il ministro alla presentazione del rapporto Isfol 2009, soldi gestiti dalle aziende e dai sindacati ma che «non sono delle parti sociali, sono di tutti e vanno usati bene per aiutare il nostro lavoro a rima­nere competitivo».

C’è poi la formazione professio­nale, riservata ai giovani in cerca di un lavoro e ai disoccupati in ge­nere. È quella che assorbe la gran­de parte di fondi pubblici, quella che finisce non di rado nelle in­chieste delle procure per corsi fa­sulli messi in piedi solo per acca­parrarsi i soldi dell’Unione Euro­pea. La metà arriva dal Fondo so­ciale europeo, un dieci per cento è in capo alle Regioni, che per leg­ge organizzano i corsi, e un 40 per cento viene sborsato direttamen­te dallo Stato ma speso e distribui­to sempre dalle Regioni. La cifra che l’Europa impegna in Italia si aggira attorno ai due miliardi di euro.

Per questi corsi, ma anche per quelli professionali veri e propri, Sacconi ha auspicato una riforma radicale. Alla presentazione del rapporto Isfol 2009 il ministro ha detto: «Tutta la formazione va completamente ripensata, abban­donando il metodo scolastico. Il corso serale come viene concepito ora va cancellato perché a fronte di ingenti finanziamenti si otten­gono risultati risibili, soprattutto in termini di ricaduta occupaziona­le. E finisce che a far festa sono so­lo i formatori».

C’è infine la formazione perma­nente, quella di tutti, quella rivolta agli adulti che si iscrivono ad una scuola per «sapere di più, conosce­re meglio, perché continuare a stu­diare equivale a garantire al Paese più crescita e più benessere», dice Francesco Florenzano, presidente dell’Unieda (Unione per l’educazio­ne degli adulti) e dell’Università popolare di Roma.

Tutte e tre le formazioni, intor­no alle quali girano parecchi mi­liardi di euro e quindi molti inte­ressi economici, alla fine dei conti si rivolgono ad un esiguo 6,3 per cento della popolazione italiana, poco più di due milioni di perso­ne, se rimaniamo nei parametri usati da tutti i Paesi europei che considerano nel conto i cittadini dai 25 ai 64 anni di età. Sale al 15 per cento circa se, come ha fatto l’Isfol, vengono contati anche i gio­vanissimi dai 15 anni di età in su, quelli che però avendo lasciato la scuola sono ovviamente più inte­ressati a seguire un corso per crear­si una professione, e che rientrano quindi nel cosiddetto «apprendi­stato » .

«Questo 6,3 per cento del 2008, pur se in crescita rispetto al 6,2 del 2007 e al 6,1 del 2006, resta ovvia­mente un dato troppo basso — di­ce Sergio Trevisanato, presidente dell’Isfol, l’ente pubblico di ricerca che collabora con il ministero del Lavoro —. E comunque lontano dall’obiettivo di Lisbona che aveva fissato il 12,5 per cento entro il 2010. Obiettivo fallito, quindi. E non per l’Italia. Infatti tutta l’Euro­pa, in media, non raggiunge quel risultato e si ferma al 9,6 per cen­to ». Tutto il sistema-formazione è da rivedere, secondo Trevisanato, nonostante l’elemento positivo che vede «in crescita il coinvolgi­mento dei soli occupati con 200 mila persone in più che nel bien­nio 2006-2008 hanno partecipato ad un corso».

Appena due milioni di italiani, quindi, ogni anno fanno un corso a fronte dei 30 milioni di tedeschi che regolarmente ne seguono al­meno uno. E le statistiche poi non ci dicono di che tipo di corso si tratta. Ci sono Regioni che spendo­no milioni di euro per il moltipli­carsi spesso inutile di corsi per ac­conciatori o per estetiste, che han­no poi un basso riscontro in termi­ni di occupazione. Solo il Lazio, con l’eccezionale traino di Roma, e il Trentino Alto Adige, di tradizio­ne e cultura tedesca, riescono con il loro 8,5 per cento a testa ad avvi­cinarsi un po’ alla media pur bassa dell’Europa. Perché? «Perché man­cano politiche di sostegno e di in­centivo — dice Florenzano —. Inoltre, nulla sappiamo di che co­sa accade dopo aver frequentato un corso di formazione professio­nale. Il lavoro cercato si è poi trova­to? Il corso è stato utile? Tutte do­mande finora senza risposta per­ché non c’è un monitoraggio con­creto sulle finalità del finanziamen­to ottenuto dalle Regioni. E l’Euro­pa stessa non premia il Paese che riesce a far lavorare di più ma quel­lo che ha speso di più. Più spendi, più corsi hai fatto, più sei stato bra­vo... Un’assurdità».

La Banca d’Italia ha invece stu­diato il rendimento della formazio­ne. Ed è arrivata ad un risultato che sorprende ma che ne sottoli­nea l’importanza: chi investe nella propria formazione ne ricava poi, a lungo termine, un 9 per cento di rientro economico. Una cifra che è molto più alta di quella ottenuta investendo i propri soldi in Bot e Cct.

«Non c’è nulla — dicono alla Banca d’Italia — che dia un rendi­mento altrettanto alto».

Mariolina Iossa