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Corriere: L’università delle 180 mila materie

I presidi nominano sempre più professori a contratto E gli studenti si perdono: due su tre sono fuori corso

23/11/2009
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Corriere della sera

Insegnamenti suddivisi in più parti, troppe prove da sostenere per conquistare pochi «crediti»

La battaglia della Gelmini contro l’inefficienza e i punti attribuiti grazie a una poco chiara «esperienza nel mondo del lavoro»

Sapete quanti sarebbero, calco­lando il loro numero teorico in ba­se ai crediti assegnati e alle prove superate, gli studenti perfettamen­te in regola con gli esami? Non più di un terzo.

Esattamente 514 mila 539, il 33% del milione e 558 mila 997 che nel­l’anno accademico 2007-2008 risul­tavano iscritti in tutta Italia ai corsi di laurea di primo livello, ovvero quelli triennali e a ciclo unico (con­siderando anche le lauree speciali­stiche e quelle del vecchio ordina­mento gli studenti universitari in Italia erano l’anno scorso un milio­ne e 806 mila 056). Si potrebbe arri­vare alla conclusione che l’Italia sia diventata la patria dei somari. Op­pure dei lavativi. E che nelle univer­sità statali, soprattutto meridiona­li, gli studenti battano particolar­mente la fiacca. Qualche esempio? A Bari il numero degli studenti teo­ricamente in perfetta regola (l’indi­catore messo a punto dal Comitato li definisce «studenti equivalenti regolari») è appena il 25,1% del to­tale, a Salerno il 24,7%, a Cassino il 23%, a Cagliari il 19,6%, a Reggio Calabria il 18,7%, a Palermo soltan­to il 14,4%. Ma da questo a sostene­re che sia tutta colpa degli universi­tari, ce ne corre. Che la riforma con la quale il vecchio ordinamento de­gli studi è stato diviso in due (le co­siddette lauree brevi triennali e le lauree specialistiche biennali) fos­se un flop clamoroso era chiaro fin dall’inizio. Nonostante questo in dieci anni di continui ritocchi, si è riusciti, se possibile, a peggiorare ancora le cose. Dice il ministro at­tuale Mariastella Gelmini in una circolare spedita ai rettori il 4 set­tembre scorso, giusto al ritorno dalle vacanze estive: «La concreta attuazione della riforma non ha prodotto finora tutti i risultati atte­si ».

Evviva la sincerità. Aggiunge che la percentuale di ragazzi che si iscrivono all’università è tornata sotto il 70%. Che il tasso d’abbando­no dopo il primo anno è rimasto identico: 20%. Che gli studenti fuo­ri corso «sono in costante aumen­to e tale aumento appare in accele­razione ». Che i corsi sono lievitati in maniera abnorme, incrementan­dosi del 32% in sette anni. Che le sedi periferiche sono proliferate in modo esasperato, al punto che in 70 sedi c’è un solo corso e in altre 30 appena due. Che i costi, soprat­tutto, sono saliti alle stelle: sottoli­nea Mariastella Gelmini che fra il 2001 e il 2006, periodo che sostan­zialmente coincide con la gestione ministeriale della sua collega di schieramento politico Letizia Mo­­ratti, oggi sindaco di Milano, la spe­sa del personale e del funziona­mento delle università è aumenta­ta del 23,4 per cento. Poco meno di un quarto, senza che la qualità del­l’istruzione sia minimamente mi­gliorata.

Troppo, per non sospettare che i ministri di turno non abbiano mai letto con attenzione i rapporti del Comitato per la valutazione del­l’università, dove queste cose ven­gono denunciate da anni. E dove si indicano con sconcertante lucidità le patologie del sistema. Se infatti l’interpretazione anarchica della ri­forma del 1999 ha generato una moltiplicazione insensata dei corsi di laurea, questo è niente in con­fronto a quello che è successo per gli insegnamenti, cioè le materie di studio. Erano 116 mila 182 nel 2001-2002, sono saliti a 180 mila 001 nel 2006-2007. Nell’università italiana c’è un insegnamento per ogni dieci studenti iscritti. Ma con­siderando che gli iscritti «in cor­so » sono un milione 73 mila 339, la proporzione scende a un inse­gnamento per sei studenti. Un fe­nomeno, sostiene il Comitato, av­venuto «senza un’apparente logica obiettiva» che ha avuto un impul­so massimo nelle facoltà di Sociolo­gia e Medicina.

Se però questo avesse compor­tato un miglioramento dell’effi­cienza universitaria e della prepa­razione degli studenti, niente da dire. Il fatto è che ha provocato il contrario, grazie a una follia chia­mata «crediti formativi». La legge stabilisce che per conseguire la laurea triennale, il cui obiettivo iniziale era quello di abbreviare il percorso formativo per consentire ai giovani un ingresso più rapido nel mondo del lavoro, sia necessa­rio accumulare 180 crediti: 60 l’an­no. Ma un decreto dice pure che non si possono fare più di 20 esa­mi. Diversamente, che «laurea bre­ve » sarebbe? Questo significa che ogni esame deve «valere» almeno nove crediti. È successo però che molti insegnamenti sono stati spacchettati fino all’inverosimile, con il risultato che per raggiunge­re i fatidici nove crediti è talvolta necessario seguire anche due o tre insegnamenti e sostenere i relativi «esami». Allora a che serve il tet­to? «Il decreto non prescrive la ri­duzione delle materie, ma suggeri­sce esami integrati e altri escamo­tage per abbassare il conto delle prove superate. Ad esempio, se si tratta di esami su insegnamenti scelti autonomamente, qualun­que sia il numero, è come se fosse un solo esame», ha spiegato Ales­sandro Monti, autore di un recen­te saggio pubblicato da Gangemi editore dal titolo inequivocabile: Indagine sul declino dell’universi­tà italiana.

Basta pensare che dei 180 mila 001 insegnamenti attivi, ben 71 mila 038, quasi il 40% del totale, sostiene il Comitato, «hanno al massimo quattro crediti». Illumi­nante è una tabella contenuta nel rapporto più recente di quell’orga­nismo, che spiega come i «crediti medi per insegnamento» siano 5,8, con un minimo di 4,2 per So­ciologia, 4,4 per Medicina e un massimo di 7,8 per giurispruden­za. Questo significa che lo studen­te per risultare perfettamente in regola con il corso di studi deve sostenere un numero di esami an­che doppio. Seguire il doppio del­le lezioni, e pure comprare il dop­pio dei libri. D’altro canto, tanti in­segnamenti diventano anche tanti incarichi da distribuire. Ecco chia­rito come mai il numero dei do­centi di ruolo sia aumentato del 20% in sette anni, passando dai 51 mila 191 del 2000 ai 61 mila 685 del 2008, ma soprattutto come quello dei professori a contratto, esterni agli atenei, sia cresciuto del 67%, da 20 mila 848 a 34 mila 726. Più spese, ma anche più pote­re per rettori e presidi e la possibi­­lità, per i contrattisti, di scrivere «professore» sui biglietti da visi­ta. Talvolta con qualche riflesso sulle parcelle professionali. E poi ci si stupisce che gli studenti in re­gola con gli esami siano così po­chi?

Il capitolo dei crediti non si può archiviare senza un accenno ai cre­diti formativi riconosciuti a pre­scindere dagli esami sostenuti, sol­tanto in base a una dimostrabile esperienza accumulata nel mondo del lavoro. In qualche caso regali in piena regola ottenuti grazie a convenzioni con albi professiona­li, addirittura spezzoni della pub­blica amministrazione e sindacati. Un mercato avviato anch’esso dal­la riforma di dieci anni fa, che ha spesso superato il limite della de­cenza. Tanto che l’ex ministro Fa­bio Mussi aveva prescritto per de­creto un tetto massimo di 60 al nu­mero dei crediti formativi che le università potevano concedere sulla base del riconoscimento del­l’esperienza. Questo ha ridotto, ma non certamente arrestato del tutto gli abusi.

Il 4 settembre Mariastella Gelmi­ni ha scritto fra l’altro ai rettori di voler abbassare ulteriormente il tetto, portandolo da 60 a 30. Ma per fare quella operazione è neces­saria una legge. Il tetto Mussi è sta­to infatti fissato con un decreto legge approvato nel 2006 e per cambiarlo bisogna avere il placet del Parlamento. In quella lettera l’attuale ministro, accanto ad altri propositi bellicosi per mettere un freno alla partenogenesi dei corsi e degli insegnamenti, annunciava appunto la presentazione di un ap­posito provvedimento alle Came­re. Da allora sono passati 100 gior­ni.

Qualcuno l’ha visto quel dise­gno di legge?

Sergio Rizzo

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