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Corriere-Ritorno in classe-Ma le Regioni

RITORNO IN CLASSE Ma le Regioni di GASPARE BARBIELLINI AMIDEI Dieci milioni di ragazzi italiani tornano a scuola dopo una interruzione natalizia di una quindicina di giorni. Al lor...

10/01/2005
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Corriere della sera

RITORNO IN CLASSE

Ma le Regioni

di GASPARE BARBIELLINI AMIDEI

Dieci milioni di ragazzi italiani tornano a scuola dopo una interruzione natalizia di una quindicina di giorni. Al lordo di scioperi, occupazioni e cortei vari li aspettano 600 ore per completare a giugno un altro anno di studio, nel primo o nel secondo ciclo, dalle (ex) elementari alla (ex) maturità. Prima della interruzione avevano "lavorato" in classe per 300 ore. Facciamo un calcolo. Dividiamo la cifra complessiva di 900 ore per 365, i giorni dell'anno. Fanno 2 ore e mezza scarse al giorno. Questo da un punto di vista statistico: in realtà lo studio si concentra, a causa delle vacanze e dei fine-settimana, in meno di 200 giorni per 5 ore al giorno. Secondo le valutazioni di "Marketingtv.com", basate su dati Auditel, nel 2004 i ragazzi italiani fra i 4 e i 12 anni hanno invece guardato la televisione ogni giorno dell'anno per 3 ore e 37 minuti, un record in Europa. A questa tv, che è divenuta la principale agenzia formativa delle nuove generazioni, va aggiunto l'altro tempo telematico dello svago e della comunicazione: cellulari, playstation, Internet. Contenuti che vicendevolmente si ignorano, si contrappongono a distanza dentro e fuori dalle aule. Davanti al video il 32% dei ragazzi dichiara di seguire il "reality show" dell'"Isola dei famosi" di Simona Ventura. Sui banchi il poeta più amato è Eugenio Montale. Svaporato con i computer di istituto l'entusiasmo iniziale per la precoce informatizzazione dell'apprendimento, si ripropone la domanda: come convivono le due culture presentate ai giovani, quella del consumo elettronico e quella della formazione scolastica? La prima sfasatura che si coglie riguarda i tempi, veloce nella sua logica mercantile quello dello spettacolo televisivo, lentissimo nel suo assestamento burocratico quello dell'istruzione. I percorsi dello studio sono in mezzo al guado della riforma, contestata da una parte degli operatori anche per motivi politici, ideologici e contrattuali e da un'altra parte spesso disamata per l'inadeguatezza dei mezzi finanziari che dovrebbero sostenere le innovazioni più apprezzabili.

Chi governa il tentativo scolastico di recuperare la centralità del "time-budget " dei giovani? Chi può restituire appetibilità all'esperienza conoscitiva? La riforma puntava molto sul "tutor", figura professionale che si è conquistata meriti in altre parti d'Europa. In Spagna il socialista Zapatero ha inserito il "tutor" fra gli elementi-cardine del suo programma per l'istruzione. Limitata per ora all'ambito delle primarie, in Italia la prova è scivolata subito in una discussione sui pro e i contro di maestre singole o prevalenti o multiple, il che è tutt'altra cosa.
La partita della trasformazione si impantana nella povertà economica del contesto. Prevalgono il disagio anche finanziario diffuso fra i docenti e la rivendicazione dei diritti maturati da una moltitudine di precari. Sono temi importanti ma diversi dalla questione essenziale, che riguarda le competenze e gli stili culturali e professionali di generazioni lanciate nella sfida europea.

La classe politica stenta a cogliere dimensioni e urgenza della scommessa con gli altri Paesi dell'Unione. Un esempio: a pochi mesi dalle elezioni, le Regioni si avviano al rinnovo delle assemblee senza avere definito le linee dell'ordinamento e della gestione scolastica, che la Costituzione affida loro per tutto il percorso della istruzione e formazione professionale dai 14 ai 23 anni. E' una delle due opzioni del secondo ciclo. Il sistema sta slittando verso una licealizzazione quasi globale degli studi. Si danno ben 700 diversi titoli di (ex) maturità, diplomi variegati come collezioni di francobolli, ma non si riesce a dotare di maggiore dignità sociale e culturale il percorso professionale alternativo, liberandolo dallo stigma di formula di serie B, parcheggio di risulta per studenti senza successo. Non si sfrutta a sufficienza la vitalità intellettuale e produttiva dei territori.
Le esasperazioni localistiche rischiano invece di ridurre l'autonomia a folklore, il dinamismo regionale a didattica strapaesana e dialettale. Confonde poi le idee e prefigura nuove discriminazioni sociali e culturali chiamare licei le scuole che licei proprio non sono. Se le Regioni non fanno bene la loro parte e prevalgono interessi settoriali, ci si avvia ad avere 80 ragazzi su 100 in un grande contenitore semiliceale e 20 su 100 emarginati in zone di studio che non contano, con docenti meno gratificati e contenuti scadenti. Sarebbe il contrario di ciò che serve e che è stato promesso dalla riforma.