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Quella professoressa che è riuscita a capire il disagio di un adolescente fragile

Michela Marzano

04/06/2017
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la Repubblica

STORIA DI IVAN, IL BULLISMO RACCONTATO IN UN TEMA

SONO diverso, non sbagliato», scrive Ivan alla fine di un tema in cui la professoressa di italiano ha chiesto ai propri alunni di raccontare la storia di un ragazzo o una ragazza vittima di bullismo. A dodici anni ognuno di noi è convinto di non essere all’altezza delle aspettative altrui e pensa che gli altri ce la facciano meglio, riescano meglio, siano meglio. A quell’età, nessuno sa esattamente chi è e che cosa vuole. A quell’età si ha solo bisogno di essere rassicurati che si va bene così come si è e che, anche se di cose da imparare ce ne sono tante, ciò che si “è” non lo si deve modificare.

È IL problema del “riconoscimento”, come direbbe il filosofo tedesco Axel Honneth: essere amati per quello che si è, senza bisogno di cambiare o di fare uno sforzo per adeguarsi a ciò che gli altri si aspettano da noi; tanto siamo tutti e tutte diversi non solo da quello che gli altri vorrebbero che noi fossimo, ma anche da quello che talvolta noi stessi vorremmo essere. Ma questo, ai più piccoli, lo si insegna. Almeno quando si prende sul serio il proprio ruolo educativo e la si smette di credere che, per essere bravi docenti, basti trasmettere un sapere nozionistico. La scuola serve a sfatare i miti e a decostruire i pregiudizi, a insegnare il rispetto e a trasmettere la tolleranza. Solo così si possono aiutare i più piccoli a crescere, riconoscendo e accettando non solo le altrui differenze, ma anche la propria alterità.

È da quando è bambino che Ivan si sente diverso: preferisce giocare con le bambine, non ama il calcio, canta, è timido. E, quando si è bambini, è facile che le diversità diventino un macigno di cui non ci si riesce a sbarazzare.

Soprattutto quando si diventa il bersaglio della cattiveria di quanti, forse a loro volta insicuri e diversi, cercano di rassicurarsi sulla propria “normalità” identificando un capro espiatorio su cui far convergere paura e aggressività. Ormai lo sappiamo bene: i bambini e gli adolescenti possono essere crudeli. Anche quando tutto comincia un po’ per gioco. Quando il bulletto di turno vuol sentirsi più forte degli altri e cerca di attirare l’attenzione generale prendendo in giro un compagno o una compagna di scuola. Quando gli amici lo seguono per divertirsi anche loro. Quando i più fragili e i più vulnerabili cominciano a stare male e non sanno come fare per uscire da quel meccanismo perverso di umiliazioni e violenza che, se non viene interrotto, non smette mai di autoalimentarsi. Come si fa d’altronde a crescere in modo equilibrato se nessuno ci spiega che non esiste un modo “giusto” o “sbagliato” di essere maschietti o femminucce e che ognuno ha il diritto di giocare con chi vuole, di amare o meno lo sport, di essere attirati da un compagno dello stesso sesso o del sesso opposto? Come si fa a capire che le diversità sono parte integrante della nostra ricchezza e che è l’unicità di ognuno di noi a renderci preziosi se gli adulti restano indifferenti alle dinamiche talvolta estremamente brutali che spesso si mettono in moto proprio all’interno della scuola?

Quando si è piccoli non si hanno gli strumenti adeguati né per difendersi dagli altri né per nominare in maniera corretta quello che si prova o come ci si sente. Mancano le parole, manca la forza, talvolta manca anche la voglia di reagire. Ci si convince pian piano che si è sbagliati dentro, che da qualche parte c’è stato un errore, che forse non si ha nemmeno più il diritto di continuare a vivere. A meno che non intervenga qualcuno che, come la professoressa di Ivan, riesce a trovare il modo affinché all’interno di una classe siano i ragazzi a scoprire che ognuno di loro è diverso da tutti gli altri e che nessuno è sbagliato.

La scuola non è solo sapere nozionistico: serve a sfatare i miti, a decostruire i pregiudizi e a trasmettere la tolleranza