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La differenziazione smart: quali rischi per gli atenei del Sud?

Il nesso, non supportato dai dati, tra qualità della ricerca e dimensione degli atenei è di fatto un modo per giustificare l’ulteriore definanziamento della ricerca al Sud.

21/07/2020
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ROARS

Laura Giovinazzi

Il concetto della differenziazione della ricerca e delle risorse ad essa destinate echeggia tra i corridoi universitari già da un bel po’ di tempo. Nel piano Colao la commissione si limita ad una vaga enunciazione della differenziazione intelligente: “incentivazione delle piccole università da parte del Ministero a specializzarsi in alcune delle diverse funzioni svolte: formazione di base, formazione specialistica e dottorale, ricerca pura, ricerca applicata e terza missione… etc.,”L’idea è ripresa dal libro Salvare l’università italiana. Oltre i miti e i tabù dove Capano, Regini e Turri spiegano la ricetta in maniera più articolata: “gli atenei piccoli in cui una concentrazione elevata di ottimi ricercatori in diverse aree scientifiche non è plausibile, sarebbero spinti a scegliere una strada fra le due sole ragionevoli: specializzarsi in una-due aree scientifiche al massimo (nel caso della ricerca) oppure puntare tutto sulla formazione valorizzando servizi di supporto alla didattica e percorsi più fortemente capaci di garantire un inserimento nel mercato del lavoro”. La proposta di ‘rilanciare’ la ricerca del sistema universitario italiano attraverso la differenziazione smart in realtà non farebbe altro che introdurre la distinzione tra due tipologie di università: quelle di ricerca (grandi e al Nord) e quelle dedicate all’insegnamento (piccole e al Sud). Il nesso, non supportato dai dati, tra qualità della ricerca e dimensione degli atenei è di fatto un modo per giustificare l’ulteriore definanziamento della ricerca al Sud.

Il concetto della differenziazione della ricerca e delle risorse ad essa destinate in base al cosiddetto sistema meritocratico echeggia tra i corridoi universitari già da un bel po’ di tempo. Come è già stato mostrato da altri il libro Salvare l’università italiana. Oltre i miti e i tabù (2017), spiega chiaramente il ragionamento di fondo – e le possibili ricadute – della differenziazione intelligente. Cosi ai punti 76i e 76ii del piano Colao (p.35), la commissione delinea la differenziazione intelligente, limitandosi ad una vaga enunciazione del concetto:

Incentivazione delle piccole università da parte del Ministero a specializzarsi in alcune delle diverse funzioni svolte: formazione di base, formazione specialistica e dottorale, ricerca pura, ricerca applicata e terza missione, partecipazione a network internazionali, contributo allo sviluppo territoriale, etc.,

Il testo di Turri, Regini e Capano lo spiega invece in maniera più articolata, e con una forte convinzione di fondo: gli atenei piccoli, per definizione, non sono capaci quanto gli  atenei medio-grandi di svolgere attività di ricerca di eccellenza, tantomeno in diverse aree scientifiche.  Dunque, ne segue che dovrebbero abbandonare del tutto l’idea, piuttosto che ‘suicidarsi’ nello svolgere ricerca in discipline nelle quali non sono competenti. Riprendendo un passaggio del libro:

‘…]il ministero potrebbe decidere di concedere l’accreditamento quali scuole di dottorato a non più di n  sedi per ciascuna area disciplinare […] gli atenei piccoli in cui una concentrazione elevata di ottimi ricercatori in diverse aree scientifiche non è plausibilesarebbero spinti a scegliere una strada fra le due sole ragionevoli: specializzarsi in una-due aree scientifiche al massimo (nel caso della ricerca) oppure puntare tutto sulla formazione valorizzando servizi di supporto alla didattica e percorsi più fortemente capaci di garantire un inserimento nel mercato del lavoro (pp. 152-155).

L’idea è dunque quella di sostenere le università verso un percorso di estrema specializzazione, a tal punto da permettere alle politiche dei ranking di modificare le attuali modalità di accreditamento ed attivazione dei corsi di dottorato, sottraendola del tutto a quelli atenei che non dovessero risultare “eccellenti” (sulla distorsione del concetto di eccellenza della ricerca da parte degli autori si può vedere qui). Il punto di arrivo ideale sarebbe così  la concentrazione di risorse per la ricerca in poche ed eccellenti sedi – o dipartimenti al loro interno-  attraverso una redistribuzione delle risorse ‘sprecate’ invece da altri atenei. Questo verrebbe attuato spingendo gli atenei ad adottare modalità di governance manageriali per ‘[…] sviluppare piani strategici veri, basati su una capacità di selezionare e programmare ciò che l’attuale sistema di governance non garantisce’ (Capano et al .155).

Queste proposte si inseriscono all’interno di una governance del sistema universitario incapace di garantire risorse sufficienti per l’accesso e la continuazione della carriera di ricerca all’interno degli atenei statali.

Dal 2007 al 2019, infatti, i posti di dottorato a bando sono diminuiti del 43,4%, mentre il personale post-doc precario supera quello a tempo indeterminato (68.428 lavoratori contro 47.561) (fonte: qui ). Si vuole, quindi, migliorare questo contesto preoccupante attraverso la concentrazione della ricerca in meno sedi, avviandosi però verso un maggiore consolidamento della nozione di università di serie A e università di serie B.

Ciò avviene in due modi. Primo, come si è accennato, la concentrazione delle ricerche porta ad una forbice sempre più ampia tra gli atenei che possono svolgere la ricerca (solo, però, quelli di qualità ‘eccellente’) e atenei che invece non possono (e per le quali ci sarebbe una contrazione delle risorse). Secondo, aumenta il divario territoriale tra le università del Centro-Nord e le università del Sud. L’assunto degli autori secondo il quale il piccolo ateneo viene considerato incapace (non meritevole) di svolgere ricerca ha ripercussioni maggiori per le università delle regioni meridionali e si tradurrebbe di fatto in un’ulteriore contrazione di risorse destinate alla ricerca per gli atenei di questa parte del paese. Questo, tra altre cose, perché:

1) Il sistema universitario meridionale è composto da una maggioranza di atenei piccoli (fino a 15.000 iscritti). Nel mezzogiorno, la percentuale di atenei piccoli sul totale degli atenei statali nel mezzogiorno è del 47, 8% (11 atenei piccoli su 23 totali) contro il 18% circa al Nord (4 atenei piccoli su 22 totali) (fonte: https://www.anvur.it/download/rapporto-2018/ANVUR_Rapporto_Biennale_2018_Sezione_1.pdf)

2) Come mostrato da Viesti et al.,(2016), la performance della ricerca negli atenei medio-piccoli del mezzogiorno, per diverse aree scientifiche, è più alta di quella degli atenei più grandi della stessa regione (https://www.roars.it/online/il-declino-delluniversita-italiana/). Inoltre, se ci si allontana dal sistema VQR e si volge l’attenzione sui ricercatori promossi per l’ASN (https://www.roars.it/online/la-laurea-negata/), emerge che le differenti capacità dei ricercatori candidati all’ASN non è poi così marcata quanto si sostiene:  il 61% dei candidati promossi  proviene dal Sud contro il 70% dal Nord (dati 2016)  – anche in questo caso con risultati migliori per i piccoli atenei del sud rispetto ai più grandi.

Ecco, dunque, che la formula secondo la quale la ricerca nei piccoli atenei si traduce in ricerca di bassa qualità non trova radici abbastanza forti per rimanere indiscussa. Infatti, questo ragionamento viene fatto senza tener conto di alcuni degli elementi fondamentali e contestuali che influiscono sulla qualità della ricerca, che dipingono un quadro molto più eterogeneo di quello presentato dalla commissione Colao. La proposta di ‘rilanciare’ la ricerca del sistema universitario italiano – così com’è stata presentata nel piano Colao supportato dalle elaborazioni di Capano et al., – esaspererebbe divergenze territoriali già esistenti nella mobilità degli studenti meridionali e nell’accesso alla ricerca all’interno di atenei del mezzogiorno, usando il nesso tra qualità della ricerca e dimensione degli atenei per giustificarne ulteriori definanziamenti.

Osservando  il trend generale delle  immatricolazioni negli ultimi anni, notiamo che  il 23% degli studenti meridionali è andato a studiare in una regione diversa da quella di residenza, a fronte dell’8,5% dei colleghi settentrionali e del 10,8% di quelli residenti nelle regioni centrali (https://www.censis.it/formazione/la-classifica-censis-delle-universit%C3%A0-italiane-edizione-20192020). La mobilità geografica degli studenti universitari segue ormai un’evidente rotta Sud-Nord, ‘spopolando’ grandi e piccole università del Sud. Si ricorda ad esempio che tra il 2016-17 Puglia e Sicilia hanno perso circa 7.000 nuovi studenti immatricolati, mentre Emilia e Lombardia invece ne hanno guadagnati circa 8.000. (https://www.roars.it/online/la-laurea-negata/).

Per quanto riguarda la ricerca, si continua a verificare un caso di compressione selettiva dei posti di dottorato a bando. Dal 2007 al 2018, il calo è stato del 37% al Nord, 41,2% al Centro e 55,5% al Sud. Inoltre, il 40% dei posti è bandito da 10 atenei, di cui 7 al Nord, 2 al Centro e 1 al Sud (https://dottorato.it/sites/default/files/survey/indagine-adi-2019.pdf). Esiste dunque già un gruppo ristretto di atenei che detengono maggiori capacità di attrarre dottorandi, una concentrazione che però andrebbe diluita sul territorio per consentire un accesso equo a tutti gli aspiranti ricercatori senza che la regione o l’ateneo di provenienza diventino fattori (ancor più) discriminanti.

Un’ulteriore concentrazione di borse di dottorato negli atenei più performanti secondo ranking che valutano la qualità delle strutture e meno la qualità della ricerca delle aree scientifiche al loro interno andrebbe inoltre a rafforzare un sistema all’interno del quale i ranking di eccellenza  riflettono più il peso delle risorse pubbliche percepite (https://www.roars.it/online/colao-e-la-supercazzola-della-vqr/) che la capacità di atenei sottofinanziati, ad esempio, di selezionare e formare ricercatori.

Le criticità della ricerca scientifica italiana che la commissione critica sono dunque solo parzialmente fondate. Seguendo le indicazioni di Capano et al., la commissione Colao ha così distorto lo stato dell’arte della ricerca in Italia. Invece di smentire i miti sull’università italiana, i proponenti della task-force hanno rafforzato quelli manageriali, dove la prestazione diventa funzionale a ciò che si vuole dimostrare, mentre a pagarne le conseguenze vi sono, ancora una volta, coloro che fanno, o aspirano a fare, ricerca.