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La libertà della scienza va conquistata ogni giorno

Emanuele Capponi intervista Pietro Greco, giornalista ed esperto del rapporto tra scienza e società, che parla del significato della mobilitazione che ha visto scendere in piazza la comunità scientifica in più di 500 città del mondo.

25/06/2017
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ROARS

Sono scesi nelle piazze di tutto il mondo in occasione dell’Earth day, lo scorso 22 aprile, per chiedere il sostegno dell’opinione pubblica, per chiedere più finanziamenti pubblici, per ribadire l’importanza di solide basi scientifiche nelle decisioni politiche. I ricercatori – soprattutto quelli che lavorano negli Usa – si sentono sotto attacco, in un momento in cui l’amministrazione Trump ha proposto significativi tagli ai fondi per la ricerca e ha derubricato il risultato degli studi sui cambiamenti climatici a una mera opinione, assumendo una posizione negazionista. Abbiamo chiesto a Pietro Greco, giornalista e studioso del rapporto tra scienza e società, il senso di questa mobilitazione, e di come questo evento abbia inciso nel rapporto tra mondo scientifico, politica e società civile.

Pietro Greco, perché la March for Science è stata importante?
“Intanto per una questione di principio: effettivamente la libertà della scienza deve essere tutelata, soprattutto in un momento in cui due diverse forze, non completamente indipendenti ma diverse, tendono in qualche modo a limitarla. Da un lato, ormai da decenni esiste una ricerca portata avanti da imprese private. In un’economia di mercato, queste realtà hanno interesse a un guadagno a breve termine, e questo porta dei limiti a chi fa ricerca nell’industria privata. L’altra grande novità, almeno nei paesi democratici, è che la libertà della ricerca viene erosa, limitata e messa in forse anche da forze politiche e da governi. Come? Riducendo la scienza ad un’opinione come le altre, politicizzando la scienza e non riconoscendo l’indipendenza stessa del metodo scientifico e quindi dei risultati della scienza”.

Si tratta della prima volta nella storia che si verifica un fenomeno di questo tipo?
“No, ma forse è la prima volta che succede in paesi come gli Stati Uniti in cui questa libertà di indipendenza della scienza è stata coltivata con grande cura negli ultimi 70, 80 anni, in particolare dopo la Seconda guerra mondiale. C’è stato un patto tra il potere politico e la comunità scientifica negli Stati Uniti e un po’ in tutti i paesi occidentali: voi rispettate la libertà di ricerca e noi entriamo a far parte della classe dirigente del paese, e quindi forniamo al paese le conoscenze necessarie al suo sviluppo. Questo patto rischia di essere incrinato con dei risultati che la storia ci dimostra essere catastrofici: basta ricordare quello che avvenne in Unione Sovietica negli anni ’30 e ancora poi negli anni ’50 quando la politica sposò la teoria scientifica di Lysenko, antidarwiniana, che determinò il collasso dell’Unione sovietica quando era considerata il granaio del mondo, provocando delle crisi di produzione nell’agricoltura. Si tratta di un esempio estremo, che verosimilmente non si verificherà di nuovo in Occidente. Ma il mettere in dubbio, o addirittura considerare un’autentica bufala i risultati scientifici sullo studio dei cambiamenti climatici, come sta facendo oggi il nuovo presidente degli Stati Uniti, ci induce a pensare che le conquiste di libertà, anche di libertà della scienza, non sono per sempre ma vanno riconquistate giorno per giorno”.

Qual è allora il significato di questa mobilitazione? Siamo di fronte a un cambiamento di “marcia” nel rapporto tra il mondo della scienza e la società civile?
“Ci sono diversi cambiamenti di ‘marcia’. La prima sensazione è che finalmente, da un punto di vista pratico e organizzativo, la comunità scientifica assume una dimensione davvero internazionale nei suoi rapporti con la società. La scienza, ovviamente, ha di per sé una vocazione universale e globale. La stessa scienza la si insegna a Washington, a Pechino, a Mosca o a Johannesburg, perché è una cultura tendenzialmente universalistica. E quando questi valori vengono elusi, la comunità scientifica li ripropone con molta forza, per esempio con questa marcia. Questo non è un elemento secondario, perché se il valore all’universalismo nasceva nel Seicento, quando la comunità scientifica non contava più di qualche centinaio di persone, adesso si ripropone in un mondo in cui la comunità scientifica conta almeno 10 milioni di persone che lavorano a tempo pieno nella ricerca scientifica. Si tratta di un passaggio estremamente importante. Ma con questa marcia viene anche ristabilito un antico patto tra le democrazie e la scienza. La scienza è un’attività che chiede di essere libera, e la cui libertà viene riconosciuta da tutti i paesi democratici. Questa marcia universale e globale in più di 500 città del mondo ne fa una richiesta assolutamente generale”.

Le posizioni dell’amministrazione Trump in materia di ambiente vanno contro quella che sembrava essere stata una presa di consapevolezza a livello mondiale sui cambiamenti climatici. Obama in una recente intervista a Rolling Stone ha detto che Trump capirà. La direzione tracciata dalle COP 21 e COP 22 è comunque ineluttabile?
“Purtroppo no. Ogni conquista nell’ambito della politica non è mai definitiva, bensì provvisoria e va riattualizzata, di giorno in giorno, in particolare quella sui cambiamenti climatici. Ora, negli ultimi 25 anni, da quando si è tenuta la conferenza delle Nazioni Unite a Rio nel 1992, la scienza ha prodotto una quantità di conoscenza sui cambiamenti climatici davvero importante dalla quale abbiamo stabilito con sufficiente certezza che i cambiamenti climatici sono in atto e che sono dovuti per la gran parte ad attività umane. La scienza ha raggiunto prima questa certezza, la politica ha faticato molto”.

Quali sono le responsabilità della politica?
“Gli USA hanno fondato il loro sviluppo economico anche sull’abbondante uso dei combustibili fossili a basso costo, oltre che in altri settori ad alta tecnologia. Questo ha reso la società americana un po’ riottosa a limitare questo uso. L’Europa ha seguito una strada un po’ diversa, ha tentato di percorrere, con discreti successi, la strada dell’innovazione tecnologica e scientifica in ambito energetico, per far sì che in maniera relativamente rapida, si imponessero fonti energetiche rinnovabili e carbon free. Poi sono intervenuti i paesi in via di sviluppo. All’epoca di Rio, nel ‘92, paesi come la Cina sono diventati primi tra i paesi emettitori, e questo impone anche a loro un intervento. La Cina sembra oggi aver sposato la tesi europea, rendendosi consapevole dei danni che questi cambiamenti produrrebbero anche sul suo vasto territorio, come previsto dagli attuali modelli climatici. Così i cinesi hanno capito che è possibile cambiare il paradigma energetico con un vantaggio di tipo economico. Questo ha fatto sì che anche negli USA si formassero correnti di pensiero volte nella stessa direzione, come quella rappresentata dall’ex presidente Obama. Questa unità di intenti si è coagulata finalmente a Parigi nel 2015 e sembrava quasi ineluttabile. Dico ‘quasi’ perché in politica nulla è ineluttabile. E infatti le ultime elezioni sono state vinte da Donald Trump che, come è noto, non riconosce la validità scientifica dei cambiamenti climatici. Pensa che siano un’invenzione della Cina per minare l’economia americana. In realtà lui rappresenta un gruppo di interessi molto incentrato sui combustibili fossili. La domanda che resta aperta, allora, non è se gli USA cambieranno politica, l’hanno già cambiata, ma se il cambiamento nella politica degli Stati Uniti farà cambiare la politica nel resto del mondo. Ovvero se la Cina e l’Europa avranno abbastanza forza da continuare la strada tracciata a Parigi oppure no. Non è un’impresa facile, gli Stati Uniti sono una grande realtà economica e quindi anche ecologica, ma è possibile. È possibile fare a meno degli Stati Uniti. Solo quando gli Stati Uniti capiranno di aver perso un treno, tecnologico ed economico, oltre che ecologico, allora probabilmente potranno rientrare, come auspica Obama, nel convoglio che viaggia nella giusta direzione”.

Quanto hanno inciso i social network e le fake news nel determinarsi di questa situazione? E il mondo della scienza come può usare questi strumenti per veicolare le sue istanze?
“Questa è una domanda complessa su cui ci si divide. È chiaro che il mondo di internet incide, è il più grande strumento di comunicazione che abbiamo, connette miliardi di persone in tutto il mondo. Tuttavia dal punto di vista qualitativo io non vedo delle novità. Quando fu inventata la stampa a caratteri mobili e si cominciarono a produrre centinaia di migliaia di libri, molti intellettuali storsero la bocca. Oggi direbbero ‘questa è letteratura trash, sono astrologi e ciarlatani’. Nel 1610 fu stampato il Sidereus nuncius in 50 copie. Secoli dopo uno storico delle idee dirà che quel libro ha rappresentato uno spartiacque fondamentale. In questo senso, l’edizione della stampa è stata utilizzata nel bene e nel male. Ma anche Platone avvertiva dei danni provocati dall’invenzione dell’alfabeto: sminuiva l’importanza della memoria. Ogni nuova tecnologia rompe antichi equilibri, crea caos, ma quando questa tecnologia è valida, questi equilibri si ricompongono in genere ad un livello cognitivo più alto. Noi ci guadagneremo. Detto questo, attraverso i media digitali viaggiano anche fake news, anche relative al clima. Ci sono gruppi organizzati che utilizzano internet per veicolare notizie che sanno essere false. Hic Rhodus, hic salta, caro scienziato, e quindi bisogna agire. Gli scienziati lo stanno facendo. Molti scienziati hanno capito che la comunicazione al grande pubblico è un dovere civile e un elemento di democrazia, ineludibile. E quindi è un loro dovere civile e sociale partecipare al dialogo con la società. Questo è un diritto ma anche un dovere della società, proprio perché la scienza ha un ruolo così importante nella società della conoscenza, la società ha in diritto e il dovere di partecipare a questo dialogo, con tutti i mezzi che ha, anche quelli elettronici che sono strumenti straordinari».

Articolo prodotto in collaborazione con il Master in Giornalismo e Comunicazione Istituzionale della Scienza dell’Università di Ferrara