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Manfredi "Per la ricerca dall’Italia più fondi con il Recovery Fund"

Intervista al ministro dell’Università

13/09/2020
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la Repubblica

Luca Fraioli

«Il professor Amaldi ha ragione: bisogna dare più soldi alla ricerca pubblica. E mettendo in campo le risorse europee del Recovery Fund quel traguardo può essere raggiunto». Risponde così Gaetano Manfredi, ministro dell’Università e della Ricerca, all’appello lanciato sulle colonne di Repubblica da uno degli scienziati italiani di maggior prestigio. Ugo Amaldi, un passato al Cern e un grande impegno per mettere la fisica al servizio delle terapie oncologiche, chiede alla politica di raggiungere in pochi anni la Germania, che investe in ricerca più dell’1% del Pil (30 miliardi) mentre l’Italia si ferma allo 0,5% (9 miliardi). «Tanto per cominciare stiamo varando il Piano nazionale della ricerca (Pnr) 2021-2027», spiega Manfredi, «sul quale investiremo 15 miliardi di euro, risorse che arrivano sia dall’Europa che dal bilancio dello Stato».

Sono tanti o pochi? Difficile districarsi nello scioglilingua di sigle dei finanziamenti a università ed enti scientifici (Foe, Ffo, Fisrn, Prin,…), ma scorporando le varie voci il nuovo Piano nazionale dovrebbe ricevere nel primo triennio tra i 2,9 e i 3 miliardi di euro, più di quanto fatto nel passato recente sotto la gestione dei ministri Gelmini (2,4 miliardi) e Giannini (2,7 miliardi). «È una cifra soddisfacente, ma faccio molto affidamento sul Recovery Fund per incrementarla», confessa Manfredi. Che fino a qualche tempo era fa dall’altra parte della barricata: prima professore universitario, poi rettore, quindi presidente della Conferenza dei rettori.

Ministro, quali risposte dà al mondo accademico e agli enti di ricerca?

«Rispondo che ci stiamo appunto impegnando per aggiungere ai fondi del Pnr altri finanziamenti straordinari in arrivo dall’Europa.

D’altra parte, l’obiettivo è usare i fondi Ue è per portare gli standard italiani nella media europea, a cominciare dagli investimenti in ricerca. Dovremmo concentrare quelle risorse sulle grandi sfide globali del futuro: energia pulita, tecnologie verdi, digitale, biomedicina, cibo, agricoltura. E spenderli per dotare il Paese di infrastrutture di ricerca di livello internazionale, che attraggano gli studiosi stranieri».

Come è andata la consultazione del Pnr aperta a tutti: ricercatori, docenti, imprenditori?

«È un esperimento che è andato oltre le migliori aspettative: migliaia di suggerimenti di cui ora terranno conto i gruppi di lavoro del ministero che hanno scritto la prima versione del Pnr per inglobarli, se coerenti con l’impianto generale, nella versione finale. Dopodiché il Piano passerà alla valutazione economica del Cipe».

Amaldi sostiene che questo sia il momento giusto per investire di più nella scienza, viste le risorse mobilitate dall’emergenza Covid. È davvero una strada praticabile?

«Sì e lo abbiamo dimostrato già in occasione del Decreto rilancio di fine luglio, quando siamo riusciti a indirizzare 550 milioni verso la ricerca, 300 per la creazione di nuovi posti da ricercatore e altri 300 per il Fondo ordinario per le università».

Sedicimila ricercatori hanno scritto ai rappresentanti delle istituzioni europee per opporsi al taglio (da 94 a 86 miliardi) dei fondi allo European Research Council. Cosa sta succedendo?

«L’Italia si è opposta al taglio voluto dai "Paesi frugali". Più in generale la Ue si trova a dover fare i conti con un bilancio ridotto anche a causa della Brexit. Dunque, come Italia ci troviamo in una doppia congiuntura: l’esigenza nazionale di maggiori investimenti in ricerca e la necessità europea di avere le risorse per poter competere con Stati Uniti e Cina. Come ha dimostrato il Covid, avere una sovranità tecnologica significa avere anche una sovranità politica, non dover dipendere dagli altri. La scienza è uno strumento di libertà».