Iscriviti alla FLC CGIL

Home » Rassegna stampa » Rassegna stampa nazionale » Manifesto: Così muore l'autonomia degli atenei

Manifesto: Così muore l'autonomia degli atenei

Crollo della democrazia e meno autonomia. Più precariato e più interessi privati. Riassumerei così il progetto di riforma dell'Università varato dal governo

13/11/2009
Decrease text size Increase text size
il manifesto

Leonardo Altieri*
Crollo della democrazia e meno autonomia. Più precariato e più interessi privati. Riassumerei così il progetto di riforma dell'Università varato dal governo, analizzandolo sia dal punto di vista politico, ma anche sulla base della mia esperienza negli organi accademici (due mandati nel Consiglio di Amministrazione dell'Ateneo di Bologna, componente della Giunta di Ateneo, due mandati nel Nucleo di Valutazione).
Stimolato anche dall'intervento di Alessandro Dal Lago pubblicato su Il manifesto del 6 novembre, non ho dubbi che questo provvedimento, se approvato nella sua attuale veste, prospetta alcuni scenari che è facile definire disastrosi.
Riduce nettamente la democrazia interna alle università. È un punto che potrebbe passare inosservato, tanto sono lunghi e farraginosi i meccanismi decisionali degli atenei. Ma essi avvengono con un largo consenso interno che dovrebbe essere reso più trasparente. Al contrario, il ministro Maria Stella Gelmini prevede che buona parte del Consiglio di Amministrazione (almeno il 40%) non sia composto da docenti interni. Dove si troveranno personalità all'altezza capaci di dirigere atenei con migliaia di dipendenti e decine di migliaia di studenti, che si occupano di didattica e di ricerca (e non di affari)? Già adesso nei consifli amministrazione possono esserci, in numero ridotto, personalità esterne: nella mia lunga esperienza quasi mai ho visto qualche esterno in grado di dare contributi rilevanti alla vita dell'ateneo. L'unico ruolo che potranno avere costoro è di rappresentare interessi privatistici o logiche manageriali di altri mondi che pretenderanno di trasferire forzosamente nelle università.
Il senato accademico sarà sfoltito (e questo potrebbe andar bene), ma sarà proibito inserirvi i presidi di facoltà e scuole o i direttori di Dipartimento: facile prevedere che ciò provocherà conflitti e scontri di potere a non finire fra senatori e detentori di queste cariche (alla faccia dell'efficienza!).
Il rettore sarà eletto fra professori ordinari. Qui forse Dal Lago interpreta male il testo, scritto in effetti in un ambiguo italiano. Il rettore non dovrebbe essere eletto solo da professori ordinari, ma «tra professori ordinari». Quale potrebbe essere l'elettorato attivo non è chiaro, ma poiché si parla di «voto ponderato», ciò dovrebbe poter permettere il voto anche di altre fasce di docenti ed anche di tecnici-amministrativi e forse addirittura di studenti (il cui voto però dovrà essere «pesato», cioè valere meno di quello degli ordinari: non «una testa un voto», ma un voto di tecnici-amministrativi che valga, ad esempio, un terzo di quello dei docenti).
Un ruolo enorme verrà attribuito alla nuova figura del direttore generale in omaggio alle ideologie dominanti liberistiche-aziendalistiche. L'illusione è che ciò porterà efficienza e logiche aziendali. In realtà, è facilmente prevedibile che sottrarrà ulteriore potere ai docenti e alla democrazia interna e produrrà ulteriori conflitti.
Altro punto fondamentale è la riduzione dell'autonomia degli atenei. Nei loro consigli di amministrazione potranno entrare rappresentanti di interessi privati. È ridicola, se non fosse gravissima, l'idea di istituire il fondo speciale per il merito e l'efficienza degli atenei presso il ministero dell'Economia, e non presso il Miur, come sostiene a ragione Dal Lago. Ma Dal Lago non si ferma su un punto ancor più grave: la gestione dell'operatività di tale fondo, nonché del «processo di erogazione delle modalità delle prove nazionali standard» per la carriera universitaria è affidato nientedimeno che a Consap SpA. E che cosa sarebbe? Si tratta di un'agenzia privata, come fa pensare quel «SpA»? Di certo è un colpo pesantissimo all'autonomia universitaria e non ha nulla a che fare con efficacia, trasparenza, meritocrazia.
Non si può però evitare di pensare al precariato dilagante che questa legge produrrebbe nel corpo docente e ricercatore. Il precariato esiste già in abbondanza (tutor, lettori di lingue, assegnisti, borsisti, contrattisti). L'abolizione del ruolo dei ricercatori produrrà un salto di qualità estremamente peggiorativo. Certo è giusto che i vincitori di concorso al primo livello abbiano un periodo di prova che non sia solo una formalità prima di entrare definitivamente. Ma pensare che si potrà essere ricercatori per un massimo di sei anni - dopo i quali o sei dentro o sei fuori - significa che il grosso di questi precari, per lo più attorno ai 40 anni, si vedranno ributtati nella disoccupazione dopo tanti anni dentro l'università. È impensabile che ci potranno essere posti di associato per tutti i meritevoli.
Non sappiamo bene quali siano le competenze della Gelmini su tutto questo. Una delle argomentazioni che ha per mesi addotto per giustificare i suoi provvedimenti è stata: «ci sono corsi di laurea con un solo studente». Chi è stato negli organi universitari, o nei nuclei di valutazione, sa che ciò è impossibile già con l'attuale normativa voluta da Fabio Mussi. Ci sono requisiti minimi di numeri di docenti e di studenti da rispettare. Un corso di laurea con un solo studente o è una bufala o è già ora illegittimo. Oppure si fa riferimento a cose che esistono solo sulla carta: qualche studente fuoricorso di lauree ad esaurimento, ma per cui non si tengono affatto insegnamenti specifici. Inutile dilungarsi. In questo quadro la Gelmini appare come un'esecutrice di interessi altrui.
* Dipartimento di Sociologia, Università di Bologna.