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Manifesto-Ma perché in Italia non si finisce la scuola?

Ma perché in Italia non si finisce la scuola? Il confronto con gli altri paesi Ocse mostra che in Italia gli studenti hanno "meno successo" degli altri. E non perché da noi si selezionano i...

01/03/2003
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il manifesto

Ma perché in Italia non si finisce la scuola?
Il confronto con gli altri paesi Ocse mostra che in Italia gli studenti hanno "meno successo" degli altri. E non perché da noi si selezionano i più bravi (le competenze di base sono inferiori alla media) ma perché conta ancora troppo la famiglia di provenienza
DANIELE CHECCHI
L'uscita recente di alcune ricerche condotte nell'ambito dell'Ocse ha riportato alla ribalta la disastrata situazione della scuola italiana. Dall'edizione del 2002 di "Education at a glance", riprendiamo per esempio i dati sul conseguimento scolastico: a fronte di una media Ocse del 26% della popolazione in età compresa tra 25 e 64 anni con titolo di scuola universitario o parauniversitario, l'Italia registra un misero 12%. È facile obiettare che l'Italia è un paese di recente scolarizzazione: tuttavia anche se si prendono i risultati scolastici per fasce di età della popolazione, si riscontra un ritardo di analoga entità: il 57% della popolazione in età tra i 25 e i 34 anni raggiunge un diploma di scuola media secondaria, contro un 74% corrispondente all'area Ocse. Certo il divario va accorciandosi, ma il ritmo è tale che potrebbero occorrere almeno 80 anni per colmare questo divario.

Il problema dello scarso risultato scolastico non sembra risiedere nella mancanza di domanda di istruzione. Quando si osservano i passaggi da un ordine di scuola a quello successivo, i comportamenti degli italiani non differiscono da quelli dei loro cugini d'oltralpe. Tipico è il caso dell'accesso universitario, dove quasi la metà della popolazione giovanile in ogni paese si iscrive all'università; ciò nonostante, ancora oggi meno del 20% ne esce con un titolo universitario.

I dati che riportiamo a parte mostrano come sia la scuola secondaria superiore che l'università italiana abbiano dei bassi tassi di produttività, quando essa venga misurata dal rapporto tra ingressi ed uscite.

La famosa piramide che emergeva dalle pagine di "Lettera ad una professoressa" non sembra essere scomparsa. Viene allora da domandarsi quale sia la giustificazione per il mantenimento di un siffatto sistema scolastico, visto che il tema dell'efficienza nella fornitura dei servizi pubblici suggerirebbe una discussione approfondita al fine di una riforma radicale del suo funzionamento.

Si potrebbe però sostenere che l'assetto esistente è giustificabile dalla selettività come strumento per promuovere la meritocrazia. In questa prospettiva la scuola italiana opererebbe in modo molto selettivo al fine di individuare gli studenti migliori, da avviare ai ranghi delle classi dirigenti. Nessuna immagine può però essere più lontana dal reale.

Doppia smentita

La contraddicono almeno due ordini di considerazioni. Il primo si riferisce ai livelli di competenze acquisite dagli studenti nelle scuole italiane quando vengono confrontati con studenti di altri paesi. L'ultima indagine condotta in ambito Ocse nel 2000 e denominata Pisa (Programme for International Student Assessment) è passata quasi inosservata nel nostro paese, ma ha suscitato vasta eco in altri paesi, per via delle graduatorie che emergono nei livelli di preparazione offerti dai diversi sistemi scolastici.

Questa indagine ha sottoposto studenti di età equivalente (15 anni) in 27 paesi a dei test uniformi di comprensione di testi letterari, di capacità analitica e di conoscenze scientifiche generali. Posto pari a 500 la media dell'intero campione OCSE la capacità di comprensione dei testi (reading comprehension) degli italiani era pari a 487, la capacità di comprensione matematica (mathematical literacy) era pari a 457 e l'alfabetizzazione scientifica (scientific literacy) era pari a 487. L'Italia occupa quindi posizioni molto basse nella graduatoria tra paesi, seguita soltanto da Portogallo e Grecia. Non sembra quindi che la scarso numero di diplomati sia compensato da una maggior qualità della formazione ricevuta.

Il secondo ordine di considerazione ha invece a che fare con l'analisi statistica delle scelte di scolarizzazione della popolazione italiana. Se si utilizzano i dati di un campione rappresentativo della popolazione italiana (quali per esempio l'indagine biennale che la Banca d'Italia compie sui bilanci delle famiglie italiane), si può ottenere una fotografia della composizione sociale del nostro paese. In particolare è possibile analizzare le famiglie con figli in età scolare, ed è possibile studiare quali siano le caratteristiche delle famiglie con figli iscritti alla scuola secondaria o all'università rispetto alle famiglie i cui figli sono già entrati nel mercato del lavoro.

Da questo confronto emerge come il fattore determinante nella scelta di iscrizione negli ordini di scuola non obbligatori (sia scuola secondaria superiore sia università) non sia il reddito familiare, ma il livello di istruzione dei genitori. Avere una madre laureata pressoché raddoppia la probabilità di iscriversi all'università rispetto a chi è figlio di una madre che ha soltanto completato l'obbligo scolastico; questo vantaggio si accresce ulteriormente qualora ci si trovi in presenza anche di un padre laureato. Questo tipo di risultati è frequente in molti paesi, ma quello che caratterizza l'Italia è la maggior intensità del fenomeno.

Se si confrontano i diversi paesi europei in termini di persistenza nell'istruzione conseguita tra le diverse generazioni, emerge come l'Italia sia il paese più immobile, secondo soltanto al Portogallo. Detto in altri termini, data l'istruzione conseguita dei genitori diventa facile prevedere l'istruzione che verrà conseguita dai figli: "Dimmi di chi sei figlio e ti dirò quale sarà il titolo di studio che raggiungerai". Esattamente l'opposto di un sistema che assicura l'uguaglianza delle opportunità di accesso.

Un sistema scolastico che operi in questo modo è solo formalmente meritocratico, in quanto sembra basato sulla performance scolastica, ma in realtà giudica e seleziona gli studenti sulla base dell'ambiente di provenienza. La valutazione non mette in luce le potenzialità innate degli studenti (che dovrebbero essere indipendenti dall'ambiente familiari), ma si limita a prendere atto delle differenze preesistenti, e a non contrastarle.

Scriveva già Gramsci nei Quaderni dal carcere: "In una serie di famiglie, specialmente dei ceti intellettuali, i ragazzi trovano nella vita familiare una preparazione, un prolungamento e un'integrazione della vita scolastica, assorbono, come si dice, `dall'aria' tutta una quantità di nozioni e di attitudini che facilitano la carriera scolastica propriamente detta: essi conoscono già e sviluppano una conoscenza della lingua letteraria, cioè il mezzo di espressione e di conoscenza tecnicamente superiore ai mezzi posseduti dalla media della popolazione scolastica dai sei ai dodici anni. Così gli allievi della città, per il solo fatto di vivere in città, hanno assorbito già prima dei sei anni una quantità di nozioni e di attitudini che rendono più facile, più proficua e più rapida la carriera scolastica". (Gramsci 1975, pg.131). Lo stesso potrebbe dirsi oggi dell'utilizzo del computer, dell'accesso ad internet, della visita ai musei, ecc.

Ma perché la scuola italiana opera in questo modo? Non certo per sadismo o classismo degli insegnanti, quanto piuttosto per logica operativa interna. Basti pensare al famigerato orientamento scolastico. Se si osservano i dati della tabella che riporta la votazione scolastica conseguita all'uscita della terza media per un campione di maturati delle scuole superiori italiane nel 1995, si nota come il voto scolastico sia (troppo) fortemente collegato all'istruzione dei genitori. Quasi metà dei figli di genitori analfabeti consegue un giudizio di "sufficienza" all'uscita della scuola media; all'estremo opposto il 40% dei figli di coppie dove almeno un genitore è laureato consegue un risultato di "ottimo".

Destino segnato

Su questa diversa performance, cui la scuola media non sembra introdurre alcun elemento correttivo in senso compensativo, si innesta poi l'orientamento scolastico. Una volta assegnato un risultato scolastico, il destino successivo è già segnato: chi ha ottenuto "sufficiente" viene orientato verso le scuole professionali o gli istituti tecnici, chi ha ottenuto "ottimo" si indirizza ai licei. Il quadro si completa considerando che chi esce da un liceo nel 91% dei casi si iscrive all'università, mentre chi esce da un istituto tecnico lo fa solo nel 36% dei casi.

Ciascun insegnante nel suo piccolo contribuisce così alla riproduzione della stratificazione scolastica (e per suo mezzo alla stratificazione sociale) ogni qualvolta premia o punisce risultati scolastici che dipendono significativamente dall'ambiente familiare: basti pensare ai compiti a casa, alle ricerche basate sull'accesso ai libri familiari, fino ad arrivare ai resoconti di viaggi e vacanze. E poiché la carriera scolastica dipende dai risultati precedenti, ecco che il voto conseguito oggi orienta le possibilità di domani.

È possibile immaginare una scuola che sviluppi le potenzialità innate degli alunni, senza premiare necessariamente l'ambiente di provenienza (per il quale, tra l'altro, gli alunni non portano alcun merito)? Questa è la sfida che una reale riforma della scuola italiana dovrebbe prefiggersi come obiettivo prioritario, per assicurare contemporaneamente maggior volume di istruzione complessiva nella popolazione e maggior equità nella sua distribuzione all'interno della popolazione.

Purtroppo è sotto gli occhi di tutti come la riforma del ministro Moratti vada nella direzione diametralmente opposta: riducendo l'obbligo scolastico, anticipando di un anno l'orientamento scolastico, rafforzando le differenze tra gli indirizzi, reintroducendo l'uscita precoce dal sistema scolastico sotto il cappello "alternanza scuola-lavoro", si prefigura una società dove i meriti individuali conteranno sempre meno, mentre le credenziali familiari diventeranno il vero determinante delle prospettive scolastiche e lavorative. Non c'è di che stare allegri...