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Repubblica-Caro Silvio, dimettiti non sei uomo di Stato -di Piero Ottone

Caro Silvio, dimettiti non sei uomo di Stato PIERO OTTONE Caro Silvio, ci conosciamo da tanto tempo; per essere precisi, ci conosciamo da quando sei venuto nel mio ufficio in via Solferi...

13/12/2002
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la Repubblica

Caro Silvio, dimettiti non sei uomo di Stato

PIERO OTTONE

Caro Silvio,
ci conosciamo da tanto tempo; per essere precisi, ci conosciamo da quando sei venuto nel mio ufficio in via Solferino, al Corriere della Sera, episodio che si perde nella notte del tempo, per prospettarmi il problema degli aerei che, decollando da Linate, sorvolavano Milano Due, disturbando gli inquilini, e per chiedere l'intervento del giornale. Allora, e solo per un breve periodo, fra noi due ero più importante io. A malapena sapevo chi tu fossi, e non ricordo se il Corriere si occupò del problema. Comunque il problema, in un modo o nell'altro, fu risolto, come tutti i problemi che ti stanno a cuore. Adesso, anche nel nome dell'antica amicizia, ti scrivo questa lettera. Non sarà tutta di tuo gradimento; ma è scritta, ti prego di credermi, a fin di bene.
Ci siamo incontrati tante volte, dopo di allora, in tante diverse occasioni, e se ora ti do del tu, sebbene tu sia ormai infinitamente più importante di me, lo devo al fatto che una sera, a pranzo in una casa di Milano, eravamo seduti uno accanto all'altro, e sei stato tu a propormi fra una portata e l'altra, con la buona grazia che ti è propria, di passare nei nostri rapporti alla seconda persona singolare. Poi ci sono state, a farci incontrare spesso, le vicende televisive, tu in procinto di creare il grande impero Mediaset, io nella compagine (perdente) della Mondadori. Una volta o due mi hai offerto, gentilmente, di entrare nel tuo gruppo: "Non sei stanco - mi hai chiesto un giorno - di stare sempre con chi perde?". Con te avrei vinto, d'accordo.
Ho così assistito da vicino, non senza ammirazione anche se con disappunto, alla tua irresistibile ascesa. Ci incontravamo talvolta al ministero delle Poste, responsabile in materia di frequenze, essendo sottosegretario un'ottima persona, Giorgio Bogi. Noi della Mondadori spingevamo perché venisse presto una legge in materia televisiva. Tu mi dicevi: "Errore. Qualsiasi legge, per buona che sia, ci imporrà dei vincoli. Meglio nessuna legge". Ai tuoi fini avevi ragione, e infatti hai vinto anche quella battaglia, come le precedenti e le successive. Non sono stato attraverso il tempo fra i testimoni benevoli delle tue imprese, tutt'altro. Però riconosco la tua bravura. Hai fatto le case quando gli italiani avevano bisogno di case, senza inciampare nelle insidie in cui sono incappati tanti altri costruttori. Hai fatto la televisione quando nasceva la televisione commerciale, addirittura impedendo al Parlamento di legiferare sebbene ci fosse (per esempio con De Mita) una maggioranza mal disposta verso di te. E infine sei riuscito a vincere la scommessa politica. Straordinario: ti ho riconosciuto, anche per scritto, una dose di genialità.
È anche per questi nostri trascorsi, dunque, che ti scrivo ora questa lettera aperta. Per darti, se me lo consenti, un consiglio: Silvio, vattene a casa,
E te lo dico, credimi, senza malanimo. Al contrario: te lo dico in primo luogo nel tuo interesse, per una ragione che mi sembra fin troppo ovvia. Sei diventato uno degli uomini più ricchi, non dico d'Italia (hai battuto perfino Agnelli, quell'Agnelli che ti sembrava, quando eri giovane, una vetta irraggiungibile), ma del mondo. Possiedi case e ville nei luoghi più belli della Terra. D'altra parte, lasciatelo dire da uno più vecchio di te, non vivrai in eterno neanche tu. Ti auguro lunga vita, ma non hai, come non ha nessuno che abbia raggiunto un certa età, un numero infinito di anni davanti a te. Ebbene: non credo che la necessità di fare i conti, tutti i giorni, con Bossi e Buttiglione, l'usanza che è un obbligo di invitarli ogni lunedì ad Arcore, la frequentazione di Maroni, siano proprio, come si suol dire, il massimo della vita. Ci sono, credimi, tanti modi migliori per passare il proprio tempo.
Come presidente del Consiglio hai, è vero, qualche contropartita: non incontri solo Casini e Pera, Schifani e magari Previti (neanche lui, sospetto, ti procura ormai grandi soddisfazioni). Un lato affascinante della tua posizione è che ti muovi, con familiarità, fra i grandi della Terra. Dai del tu a Bush e a Putin (altro che dare del tu a Ottone). Sei diventato, per così dire, un grande anche tu. Ma ormai ti sarai accorto che sono uomini anche loro, come tutti noi; che si lasciano dare la pacca sulla spalla e ridono alle tue barzellette; sei riuscito a portarli al tuo livello: quando siete insieme, quando vi fate fotografare, non si capisce bene se tu sei diventato uno come loro, o se loro sono diventati persone come te. È questo un altro tuo successo, se vuoi: che però toglie a quei rapporti il loro fascino. Non credo che un colloquio con Blair, ormai, ti emozioni.
I tuoi problemi personali, li hai risolti. So bene anch'io come tutti, e l'ho scritto, che sei entrato in politica per scongiurare due scadenze, quella finanziaria, perché le banche ti stavano alle calcagna a causa dei tuoi debiti, e ti avevano messo al fianco quel signor Tatò, di cui avresti fatto volentieri a meno; e quella giudiziaria, perché la tua irresistibile ascesa aveva preso, diciamo così, qualche scorciatoia. Ma ormai le finanze del tuo gruppo sembrano a posto, e le varie leggi, recentemente varate grazie alla sollecitudine dei tuoi seguaci, ti proteggono sull'altro fronte. D'accordo: non è solo per salvarti che sei entrato in politica. Credo che ti sia cullato nell'illusione di migliorare l'Italia, e di passare alla storia come un uomo di Stato: ho scritto anche questo. Ma l'illusione è svanita, devi ammetterlo. Per due ragioni. La prima è che migliorare l'Italia, te ne sei accorto, è un'impresa quasi sovrumana, che richiede non anni, ma decenni (donde la tua battuta, infelice dal punto di vista storico ma vera, su Carlo V). La seconda è che tu, caro Silvio, non ci sei tagliato. Abbi pazienza e lasciatelo dire: non sei un uomo di Stato.
Quando ti consiglio di andartene a casa, dunque, non lo dico solo nel tuo interesse: lo dico anche nell'interesse di tutti noi. Al punto in cui siamo, la tua presenza al vertice del potere esecutivo diventa un'anomalia, una stranezza che rischia di declassare l'Italia. Ti rendi conto che c'è un solo paese al mondo in cui un tycoon della televisione è capo del governo, e quel paese è la Tailandia? Gli stranieri ti osservano increduli, ti seguono con una certa dose di divertimento, e c'è il rischio che presto ti considerino, lasciatelo dire, come una macchietta. Certe battute, certi atteggiamenti... Lì dove sei, non giovi al Paese; che intanto rotola verso il basso, come tutti vediamo.
Ma infine, caro Silvio, voglio dirti la ragione principale, quella essenziale, per te oltre che per tutti noi, per cui ti consiglio di andartene a casa. Sta' bene a sentire. Tutti gli uomini che partendo da zero hanno compiuto imprese notevoli, dacché mondo è mondo, sono arrivati inevitabilmente al momento in cui, sventurati, si sono creduti imbattibili, invincibili, onnipotenti, e hanno compiuto una mossa, hanno preso una decisione che li ha portati alla rovina. Vuoi esempi illustri (ma non montarti la testa)? Napoleone e la Russia; Mussolini nel giugno 1940... Tu, finora, lo hai evitato, e questa è una ragione di più per congratularsi con te. Pareva che la politica fosse quel tuo passo di troppo, che ti avrebbe fatto cadere nell'abisso: e invece ce l'hai fatta, anche in politica. Ma adesso comincio a vedere brutti segni. Certe tue dichiarazioni, certi tuoi atteggiamenti impensieriscono. La storia della Fiat: "Se avessi tempo andrei io a salvarla..." (vendendo le Fiat come Ferrari? Attento, sarebbe un imbroglio). Oppure: "Se penso a quel che sarebbe successo in Italia se non ci fossi stato io, mi vengono i brividi...". A me i brividi vengono al pensiero che tu voglia andare al Quirinale. Attento, caro Silvio: la lunga mano della Nemesi si protende verso di te, sta per ghermirti. Salvati, finché sei in tempo.