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Repubblica-Falchi e colombe travolti dalla guerra-di E.Scalfari

EUGENIO SCALFARI ADESSO la data prevista per la grande bombardata di Bagdad si è spostata dai primi di marzo alla seconda metà del mese, tra il 15 e il 24. Scrivevo già domenica scorsa che ques...

23/02/2003
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la Repubblica

EUGENIO SCALFARI
ADESSO la data prevista per la grande bombardata di Bagdad si è spostata dai primi di marzo alla seconda metà del mese, tra il 15 e il 24. Scrivevo già domenica scorsa che queste dilazioni sono dovute più alle difficoltà strategiche e logistiche del dispiegamento delle forze Usa sul terreno che alla resistenza diplomatica dei "disobbedienti" nel Consiglio di sicurezza dell'Onu.
Questi ultimi sanno benissimo che la macchina militare Usa non è più arrestabile ma dal canto loro non accennano a rientrare nei ranghi. Il loro obiettivo è di bloccare la risoluzione anglo-americana che sarà presentata ai primi di marzo non tanto con il veto di cui dispongono Francia, Russia e Cina quanto mettendo insieme almeno 8 voti su 15: risultato difficile ma non impossibile, che ha già scatenato un "voto-mercato"; Chirac lo conduce sulla base di argomenti politico-strategici e Bush con rilanci di miliardi di dollari per ciascun ingaggio.
Dall'esito di questa partita non particolarmente esaltante dipende la legalità della guerra irachena; dipende cioè se l'armata degli Stati Uniti attaccherà con la benedizione dell'Onu oppure dovrà farne a meno. I falchi di Washington danno scarsissimo peso a questo "dettaglio", le colombe sono ormai praticamente introvabili o travestite. Ma per gli europei, perfino per Blair e Aznar, quel dettaglio è in realtà un macigno. La ragione è semplice: il popolo europeo non vuole partecipare alla guerra irachena soprattutto se non otterrà l'avallo dell'Onu. In paesi democratici andare in guerra senza il consenso popolare è un rischio non indifferente.
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Queste considerazioni tuttavia non fermeranno la guerra a meno che Saddam...
"Che cosa dovrebbe fare Saddam per soddisfare il Consiglio di sicurezza?", ha chiesto Ciampi a Blair nel breve incontro di venerdì mattina al Quirinale.
"Ci vorrebbe un miracolo", ha risposto Blair. "Secondo lei - ha insistito il nostro presidente - quale potrebbe essere quel miracolo?".
Pare che il premier inglese abbia sorriso e, stringendosi nelle spalle, abbia risposto: "Francamente non lo so".
Kofi Annan, che era passato da quelle stesse stanze qualche giorno prima, ad analoghe domande aveva dato analoghe risposte aggiungendo: "Ci dobbiamo pensare".
Sia il falco europeo sia la colomba dell'Onu navigano dunque a vista; il primo seguirà comunque Bush, il secondo si accinge a registrare che l'Onu ha chiuso una fase della sua agitata esistenza: quando l'unica iperpotenza mondiale decide di decidere da sola, le istituzioni internazionali declinano rapidamente al rango d'una bocciofila di quartiere. Con quel che costano le metteranno presto in liquidazione.
Ne deriverà un imbarbarimento generale dei rapporti internazionali e il restringimento ai minimi termini del diritto pubblico che finora in qualche modo e con grande fatica aveva creato un sistema di regole e di consuetudini ampiamente condivise.
Ho letto nei giorni scorsi numerosi interventi di eminenti scrittori e politologi a cominciare dal mio amico Ralf Dahrendorf e da Timothy Garton Ash: il ritornello dei loro interventi fa centro sul fallimento dell'Europa come entità politica e ideale. Ma questo è solo un aspetto della crisi attuale, rilevante ma non dominante.
La vera causa della crisi dipende dal fatto che gli Stati Uniti non hanno saputo conquistare l'egemonia culturale e politica sul resto del mondo: sull'Europa, sull'America Latina, sul Medio Oriente, sull'Africa, sull'Asia.
Detengono - e non è certo poca cosa - l'egemonia tecnologica e militare; ma quelle non bastano a rendere accettabile l'"imperium" di uno solo in un mondo globalizzato.
Aggiungo che l'idea dei falchi di Washington di procedere, dopo la vittoria su Saddam, al riassetto totale della regione produrrà inevitabilmente un'accelerazione del conflitto militare (terrorismo) e politico tra Usa e Islam; un rafforzamento del fondamentalismo in tutta l'area; una pax americana e una pax israeliana che avveleneranno ancora di più le tensioni e ne renderanno costosissima e improbabile la composizione.
Non è un caso che la Chiesa cattolica, quella ortodossa e quelle protestanti siano schierate contro la guerra irachena; non è marginale quella specie di scomunica morale che il primate cattolico d'Inghilterra e l'arcivescovo di Canterbury hanno inflitto quattro giorni fa a Tony Blair.
L'Occidente anglo-americano non ha saputo conquistare o mantenere l'egemonia sul resto del mondo e sta restaurando una sorta di neo-colonialismo che non si confà al secolo globale. Siamo tornati da questo punto di vista al XX secolo se non addirittura al XIX e questo è l'aspetto storicamente tragico dell'errore.
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Il caso Turchia merita qualche riflessione: sembrava un dramma e in realtà era una farsa. Guardiamolo da vicino.
Dopo aver premuto in tutti i modi sull'Unione europea affinché accettasse a scadenze ravvicinate la Turchia come socio a pieno titolo, il governo Usa ha chiesto agli altri membri della Nato di garantire l'appoggio militare dell'Alleanza ai turchi, minacciati dalla guerra irachena. Il trattato prevede che la Nato intervenga automaticamente a difesa di uno dei suoi membri se attaccato dall'esterno. Ma nessuno sta attaccando la Turchia; quando la guerra irachena divamperà, sarà semmai la Turchia a parteciparvi come attaccante; quindi l'intervento Nato non è dovuto, stando ai termini del trattato.
Le pressioni americane erano tuttavia talmente costrittive che per allentare la tensione alla fine i membri europei "disobbedienti" hanno ritenuto saggio garantire la difesa richiesta. Tutto sembrava risolto ma non lo era affatto perché la Turchia non aveva ancora deciso se schierarsi con gli Usa nella guerra imminente oppure no. Voleva compensi in danaro (30 miliardi di dollari contro i 6 promessi) i diritti di sfruttamento dei pozzi petroliferi esistenti nella regione curda nonché la garanzia che non sarebbe mai stato creato uno Stato curdo che riunisse insieme quell'etnia disseminata in territorio turco, iraniano e iracheno.
Il negoziato è durato qualche settimana e ora sembra concluso positivamente anche se non se ne conoscono in dettaglio i contenuti. Resta il fatto che l'alleato turco si è comportato come una compagnia di ventura medievale al soldo della potenza committente ed è a questa compagnia di ventura che la Nato ha dovuto dare il proprio appoggio mentre ancora tra Ankara e Washington si stava discutendo sul premio d'ingaggio.
Va bene la realpolitik, ma qui siamo ben oltre. Va bene che Saddam è un sanguinario tiranno, ma ciò che accade nelle carceri turche nonché i massacri nel Kurdistan non sono da meno. In Turchia ci sono libere elezioni una volta ogni cinque anni. Questo basta? La democrazia è solo questa? A me non pare. Mi piacerebbe conoscere che cosa ne pensano Garton Ash e Ralf Dahrendorf. Sarebbe illuminante conoscere la loro opinione in proposito.
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Non è stato mai chiarito un punto non secondario della questione irachena: il disarmo di Saddam implica anche un mutamento di regime e la cattura del tiranno vivo o morto oppure, se ci fosse il disarmo, il problema del regime resterebbe un fatto che inerisce soltanto al popolo iracheno? Nelle varie risoluzioni dell'Onu il tema dell'abbattimento di Saddam non si è mai posto per la semplice ragione che l'Onu non può intervenire su questioni interne dei paesi membri. Per lo stesso motivo l'Onu non è mai intervenuta sul tema della Cecenia e su altri analoghi. Per l'Onu dunque se Saddam disarmasse la questione irachena sarebbe chiusa.
Ma per Washington le cose non stanno affatto così. Bush "vuole" Saddam, vuole l'eliminazione politica e/o corporale del raìs che è condizione sine qua non di tutta la vicenda. Da questo punto di vista il tema dell'esilio di Saddam è rivelatore e la proposta Pannella-Bonino che ha ricevuto voti "bipartisan" alla Camera dei deputati è una singolare cartina di tornasole. Se Saddam scegliesse l'esilio, l'Iraq potrebbe restare armato? Se l'Iraq disarma Saddam può restarne a capo?
Non è una questione di lana caprina. Prendiamo un caso concreto: gli ispettori dell'Onu hanno chiesto al governo di Bagdad la distruzione dei missili che hanno una gittata di 183 chilometri invece che di 150 come previsto. Se nei prossimi giorni quei missili venissero distrutti e se risultasse che i depositi e le fabbriche di armi chimiche sono stati eliminati o ne venga offerta l'eliminazione, il miracolo auspicato da Blair sarebbe compiuto anche con la presenza del raìs alla testa del suo paese? Oppure l'armata americana attaccherebbe lo stesso? Non è lana caprina. Ma pongo un altro problema. La guerra ci sarà, Saddam sarà catturato, l'Iraq disarmato e un proconsole americano si installerà a Bagdad. Durerà un anno, due, quattro, non si sa. Alla fine però passerà le consegne a un governo iracheno, democratico e amante della pace. Auguri.
Questo governo - disarmato - dovrà convivere con alcuni vicini tutti armati fino ai denti: Israele, Turchia, Russia, Iran e perché no Egitto, Siria, Arabia Saudita. Dovrà anche convivere con forti minoranze tutt'altro che remissive come quella curda e quella sciita. Un agnello sacrificale al centro della Mesopotamia? Oppure gli sarà concesso di riarmarsi? Oppure infine tutti gli altri saranno anch'essi disarmati? Anche Israele? No, non è lana caprina, credetemi.