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Repubblica-I costi economici della pax americana

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02/03/2003
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la Repubblica

Pagina 1 - Prima Pagina
I COSTI ECONOMICI DELLA PAX AMERICANA
EUGENIO SCALFARI


I PRIMI quattro missili iracheni Al Samoud 2 sono stati distrutti ieri mattina sotto gli occhi certificanti degli ispettori dell'Onu. Gli altri saranno distrutti nei prossimi giorni. La loro gittata consentita avrebbe dovuto essere di 150 chilometri (corto raggio), ma secondo alcuni test effettuati dagli ispettori era risultata una gittata di 33 chilometri in più del consentito. Di qui l'ordine di eliminarli tutti.
Tratteniamoci un momento su questa questione degli Al Samoud 2 che Bush considera dal suo punto di vista (confortato da quello di Blair e di Aznar) del tutto irrilevante. Tutte le informazioni in possesso dello Stato maggiore Usa concordano sulla inconsistente capacità militare dell'esercito iracheno; in tema di armi convenzionali esso è di fatto inesistente con la sola ma poco significante eccezione di pochi reparti di élite della Guardia repubblicana.
Gli Al Samoud 2 sono di fatto la sola arma convenzionale di qualche efficacia di cui disponga Saddam per tentare, sia pure con minime probabilità di riuscita, di rallentare l'attacco dell'armata americana e la sua avanzata verso Bagdad.
Saddam sa perfettamente che la distruzione di quei missili può avere l'effetto di rafforzare la linea franco-russa nel Consiglio di sicurezza dell'Onu ma non certo di impedire a Bush di dare l'ordine di attacco. Rinunciare nonostante questa certezza ad uno dei suoi pochissimi mezzi di difesa non è dunque un fatto irrilevante, al contrario è rilevantissimo.
Eppure l'eliminazione degli Al Samoud 2 è in atto anche se non sposterà di un millimetro la posizione del governo Usa e dei suoi sodali a cominciare dal metodista Tony Blair e dal cattolicissimo capo del governo spagnolo.
Ora la domanda è questa: la spaccatura che sembra ormai inevitabile nel Consiglio di sicurezza e poi, con un processo a cascata, nella Nato e nell'Unione europea, a chi dev'essere addebitata in queste condizioni? Chi sono i responsabili della delegittimazione di queste istituzioni internazionali? La risposta non dipende da valutazioni soggettive ma sta nei fatti: nel momento stesso in cui le ispezioni cominciano a dare risultati concreti il presidente degli Stati Uniti si accinge a dare l'ordine dell'offensiva scatenando la seconda guerra irachena. La ragione di questo apparente paradosso è stata da tempo fornita dallo stesso Bush e da tutto il team dei suoi collaboratori a cominciare dalla "colomba" Colin Powell: gli Stati Uniti sono assai poco interessati al disarmo di Saddam.
LORO principale e irrinunciabile obiettivo è l'eliminazione del raìs e la creazione d'un protettorato militare Usa su tutta la regione mesopotamica a partire dall'Iraq arrivando fino all'Iran, alla Siria, alla Penisola arabica, alla Giordania e congiungendosi con le propaggini petrolifere dei territori situati tra il mar Nero e il Caspio.
Questo è l'obiettivo: ridisegnare i regimi, i costumi, le risorse e le economie dell'area più sensibile del pianeta. Se questo è il disegno - e lo è stando ai documenti ed alle parole autentiche del governo degli Stati Uniti - ha ragione George W. a definire irrilevante la distruzione d'una cinquantina di missili che possono tutt'al più colpire a 180 chilometri di distanza.
Perciò George W. non si fermerà neanche di fronte ai consigli di prudenza che il padre George senior gli sta prodigando. George W., presidente per il rotto della cuffia, ha con sé il Dio degli Eserciti. Ne è convinto. Lo dimostrerà sul campo. Perciò nessuno lo fermerà.
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Quanto costerà questa guerra e ciò che verrà dopo di essa? Non dico in termini di vite umane perché chi ha con sé il Dio degli Eserciti delle vite umane sacrificate non gliene importa assolutamente niente visto che ha già ottenuto l'assoluzione in partenza, ma in termini di soldi, money, Giorgio Washington come cantava Buscaglione per indicare il biglietto verde.
Il calcolo dipende in parte dai diversi scenari sulla durata del conflitto militare, in altra e maggiore parte dalle necessità della ricostruzione e del costo del "protettorato" in quanto tale nonché dall'atteggiamento dei popoli della regione, se collaborativo o conflittuale, rassegnato al prevalere della forza liberatrice o attivamente interessato a partecipare ai benefici materiali dell'operazione.
Istituti scientifici americani, europei, arabi hanno cominciato a buttar giù ipotesi e cifre sulle quali vale la pena di riflettere perché interessano anche noi, nel nostro piccolo della cosiddetta politica berlusconiana della pacca sulle spalle. Perciò vediamoli cominciando dal presumibile costo della guerra vera e propria.
Un'analisi del Congressual Budget Office stima che una guerra di soli trenta giorni avrebbe un costo di 44 miliardi di dollari, ogni mese in più costerebbe altri 7.5 miliardi. Il gruppo democratico della Camera dei rappresentanti valuta una spesa di 60 miliardi per 45 giorni di campagna.
Altre valutazioni (per esempio dell'ufficio studi della Deutsche Bank) portano a 140 miliardi di dollari il costo dell'azione militare americana; ma molto dipende ovviamente dalla sua durata. In teoria queste "spese vive" hanno un duplice effetto: sul bilancio federale aumentandone il passivo e sulla domanda interna aumentandone il volume e cioè la crescita del Pil. In pratica questo secondo e positivo effetto si rivela estremamente improbabile poiché i maggiori aggravi sul bilancio produrrebbero o maggiori prelievi fiscali dalle tasche dei cittadini e/o più elevato tasso d'inflazione e maggior costo del danaro. Così infatti accadde nella prima guerra del Golfo del 1991 che innescò infatti una lunga e pesante fase recessiva.
Mettendo insieme le varie e più attendibili analisi e ponderandole con i possibili andamenti del prezzo del petrolio e con l'eventuale durata del conflitto, si hanno i seguenti risultati.
Una durata di sei settimane non avrebbe alcuna influenza sul tasso di crescita del Pil nell'anno in corso né in Usa né in Europa; il prezzo del petrolio discenderebbe tra i 25 e i 20 dollari al barile, il 2004 registrerebbe una modesta crescita del Pil su entrambe le sponde dell'Atlantico.
Se il conflitto durasse tre mesi il prezzo del petrolio si assesterebbe tra i 35 e i 30 dollari, il Pil in Usa vedrebbe drasticamente ridotto il suo tasso da più 2.5 a più 1.4 e quello europeo da più 1.4 a più 0.3. Se poi la guerra si protraesse fino a sei mesi il Pil americano crollerebbe a meno 0.4 e quello europeo a meno 0.7 con il prezzo del barile di greggio a 60 dollari. Nel 2004 il greggio si assesterebbe sui 40 dollari al barile e il Pil riprenderebbe una sua lenta marcia di recupero al di sotto però della situazione esistente prima dell'inizio del conflitto.
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Gli scenari del dopoguerra parlano di 3 miliardi di dollari al mese per il mantenimento di truppe Usa nell'area, il che significa 70 miliardi nel biennio del previsto protettorato militare. Altri 40 miliardi sono previsti per la ricostruzione dei danni inflitti all'Iraq e altrettanti per finanziarne lo sviluppo in dimensioni accettabili, mentre il ricavo dalla vendita del greggio iracheno dovrebbe fruttare 12 miliardi di dollari annui dopo un periodo tecnico di adeguamento degli impianti della durata minima di un anno e mezzo.
Tirando le somme il costo netto del dopoguerra viene valutato per il solo Iraq a 140 miliardi di dollari, ma questa cifra non contempla i danni e i pedaggi da pagare al Kuwait e alla Turchia nonché alle minoranze curde e sciite per il contributo politico e militare che sono chiamati a dare; né soprattutto contempla il costo della "pax israeliana" e la ricostruzione nei territori palestinesi devastati dall'intifada e dalla risposta militare di Israele.
Il tutto porta la cifra globale ad almeno 200 miliardi di dollari su un Pil americano in fase di stagflation. Per l'Europa è possibile un calo drastico delle esportazioni (del resto già in atto), un aumento della bolletta petrolifera e, anche da noi, una crescita del Pil al rallentatore e tassi di occupazione calanti.
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Naturalmente si tratta di previsioni e di scenari comunque dominati dall'incertezza e perciò da considerare con cautela. Ma su un punto tutti gli analisti sulle due sponde dell'Atlantico sembrano concordi: l'ipotesi che, anche nel più favorevole degli scenari, il ciclo economico dopo la guerra registri un'impennata verso il "bello stabile" sembra del tutto irrealistica.
Si osserva che l'attuale disavanzo federale Usa ha già oltrepassato i trecento miliardi di dollari venendo da un surplus di pari importo nel 2001. Al ritmo attuale, tra l'anno in corso e il 2004 si arriverebbe a un livello assai prossimo ai mille miliardi di dollari, sorpassato se si conteggiano gli aggravi provenienti dalla guerra irachena: cifre insostenibili anche per un'economia della forza di quella americana.
Finora il finanziamento dei fabbisogni del Tesoro Usa è stato in gran parte sostenuto dall'afflusso di capitali esteri, in particolare giapponesi e arabi.
Quest'afflusso registra da mesi un sostanziale rallentamento e più ancora rallenterebbe in una situazione di stagflation e con l'acuirsi presumibile delle tensioni tra mondo islamico e Occidente.
Queste preoccupazioni spiegano perché nel recente convegno di Davos che ha visto riunito il gotha del capitalismo occidentale, il rifiuto della guerra irachena è stato generale ed espresso con accenti anti-Bush non certo meno aspri del lessico adottato in proposito da Gino Strada e dai no global più ferventi.
Tuttavia la guerra Bush la farà. Naturalmente la vincerà. Il mondo sarà migliore? Nessuna persona ragionevole è disposta a scommettere neanche un dollaro su questa domanda. I poveri saranno più aiutati di ora? Da chi? Il terrorismo sarà stato debellato? I regimi dittatoriali sostituiti da liberi parlamenti? I fondamentalismi religiosi scoraggiati dalla luminosa vittoria del fondamentalismo americano?
Porre le domande significa dare già le risposte, dice il filosofo. Infatti è esattamente così.