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Repubblica-L'amico americano ora ci fa paura

L'amico americano ora ci fa paura ILVO DIAMANTI LA MOBILITAZIONE contro l'intervento in Iraq sembra avere allargato l'Atlantico. La distanza fra noi e l'America. Ma forse è vero anche l'in...

23/02/2003
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la Repubblica

L'amico americano ora ci fa paura
ILVO DIAMANTI
LA MOBILITAZIONE contro l'intervento in Iraq sembra avere allargato l'Atlantico. La distanza fra noi e l'America. Ma forse è vero anche l'inverso: l'Atlantico è diventato un fiume tanto stretto che quasi non si vede. Oggi l'America, in altri termini, appare più lontana perché è più vicina. Perché siamo la parte del mondo, di cui essa è capitale e modello. è la suggestione proposta dal sondaggio realizzato da Eurisko. Meno di tre italiani su dieci (fra quelli intervistati) esprimono fiducia nei confronti degli Usa. Se pensiamo che nelle settimane successive all'11 settembre 2001 il peso di coloro che si dicevano "più vicini" agli Usa era prossimo al 70%, mentre oggi è il 9%, si può affermare che l'orientamento geopolitico della nostra società risulta quasi rovesciato.
Peraltro, la maggior parte degli italiani considera gli Usa un riferimento e un modello, dal punto di vista degli stili di vita, della tecnologia, dell'economia. Ma, al tempo stesso, li ritengono lontani, gli Usa, dai nostri interessi nazionali, locali, personali. Responsabili del divario fra aree ricche e povere del pianeta. E ancora: piacciono meno perché la loro "potenza" fa pesare di più "l'impotenza" nostra e della Ue.
E per questo si tende a dimenticare: il sostegno che gli Usa hanno fornito, anche di recente (come in Kosovo), un occasione di emergenze drammatiche, che noi, l'Europa, eravamo (e siamo) incapaci di risolvere autonomamente.
La diffidenza verso gli Usa risulta elevata soprattutto nel "movimento". Fra coloro che hanno manifestato contro la guerra, sabato 15 febbraio; o in altre occasioni recenti. Ma questi atteggiamenti si ripropongono, stemperati, nel resto della società, perché le relazioni fra movimento e società, in questo caso, risultano particolarmente numerose e strette. Il "movimento" è costituito, infatti, da una quota del 10% di militanti attivi, cui va aggiunto il 35% di partecipanti "potenziali", disposti a partecipare ad altre manifestazioni future. Inoltre, il 15% degli intervistati - un italiano su sette - afferma di avere esposto la "bandiera della pace" alle finestre o sui balconi di casa. Segni di un orientamento esteso, determinato a dichiararsi. A entrare in rete con altre persone, in modo visibile.
Peraltro, il consenso che incontra nella popolazione questo movimento ha assunto proporzioni di massa. Ed è (per conseguenza) trasversale. Oltre il 55% degli italiani (e un terzo fra gli elettori di centrodestra) si dicono, infatti, completamente d'accordo con la manifestazione di Roma del 15 febbraio, mentre un altro 26% di persone, pur esprimendo dubbi e posizioni distinte, la considera "giusta" (il 30%, ancora, nella base del centrodestra). Otto italiani su dieci, quindi, una settimana fa erano a Roma oppure la concepivano come la loro piazza.
E se a mobilitarsi attivamente erano i giovani, gli studenti, i militanti di associazioni, le persone di sinistra, molte altre componenti manifestavano in modo meno visibile, restando a casa: le donne, i cattolici praticanti, molti elettori di centrodestra.
I cattolici. La loro presenza, il loro consenso ampio, riflettono il sostegno della Chiesa alla mobilitazione contro la guerra. E spiegano, parallelamente, il sostegno "alla" Chiesa, al suo ruolo, che in questa fase viene espresso dagli italiani e soprattutto dal movimento contrario alla guerra. La Chiesa e gli Usa. Quasi due poli di una bussola cognitiva, che ispira e orienta i cittadini. Tuttavia, occorre cautela nel riassumere i diversi atteggiamenti di distacco dagli Usa come si trattasse di elementi di un unico, indistinto "sentimento antiamericano", riflesso di avversione "ideologica" antica o di nuovi radicalismi ultrà. Certo, esiste una componente profondamente antiamericana. La possiamo stimare nel 20% di coloro che si oppongono alla guerra, i quali considerano la questione del terrorismo un problema Usa. Che non ci riguarda.
Ma la componente preponderante del dissenso verso gli Usa più che seguire un orientamento strategico, riflette ragioni diverse. In fondo, meno di metà degli intervistati, pur opponendosi alla guerra, pensa che queste manifestazioni possano davvero condizionare la posizione del governo; mentre una quota inferiore al 40% le ritiene in grado di allontanare e allentare la minaccia della guerra. Aspettative fin troppo ottimiste, sufficienti a confermare come i fini reali, non dichiarati e forse non consapevoli di questa mobilitazione, vadano oltre la guerra all'Iraq e l'opposizione alle scelte geopolitiche americane. Riflettono, altresì, il disagio verso un mondo senza confini, di cui l'America è il centro. Richiamano le tensioni prodotte dalla globalizzazione degli orizzonti della politica e delle persone; dalla crescente e diffusa percezione del "rischio" globale. I cittadini, per molto tempo, hanno cercato di spiegare l'inquietudine che pervade attraverso le minacce all'incolumità personale e ambientale, al loro piccolo mondo, alla loro casa, alla loro famiglia; oppure, a livello (un po') più ampio, attraverso l'inefficienza e la corruzione politica. Hanno indirizzato, così, l'insoddisfazione contro i gruppi "marginali" e microcriminali; oppure, al contrario, contro "chi comanda". Non si sono dissolte, queste paure. Ma è come se la guerra avesse allargato gli orizzonti; sfondato i pannelli che impedivano di vedere l'origine dell'insicurezza.
E' l'altra faccia dell'11 settembre. La minaccia senza volto del terrorismo, che produce la guerra senza confini. L'America ne è il crocevia. E per questo suscita ri-sentimenti diffusi e trasversali, che vanno oltre l'antagonismo radicale. Gli italiani, quindi, si mobilitano, espongono bandiere, sostengono le manifestazioni, per contrastare, insieme alla guerra, la solitudine (e l'impotenza) dell'uomo globale (secondo la suggestiva formula di Zygmunt Bauman). Considerano l'America lontana perché è fin troppo vicina a noi. E si rivolgono, per questo, ai soggetti che parlano un linguaggio metaforico, comunicano senso, valori. Il Papa, la Chiesa. Indipendentemente dalla fede professata. Delineano un orientamento nuovo, per molti versi "moderato". Oggi ampio. Che, peraltro, il tempo potrebbe erodere.
Le iniziative radicali, come il blocco dei convogli di armi Usa attuate dai "Disobbedienti" in questi giorni, invece di dargli rappresentanza, rischiano di inibirlo. Di cozzare contro la domanda di "normalità" che esso sottende.
Per altro verso, lo stesso passaggio della guerra incombente potrebbe, intrapreso, riassorbire il "pacifista che è in noi"; riducendo la sfiducia verso gli Usa.
Ma difficilmente potranno rinsecchire le radici di questo movimento, che affondano su un terreno fertile. L'insicurezza globale.