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Repubblica-L'enigma di Andreotti i tribunali e la storia

EUGENIO SCALFARI IL MONDO politico è sottosopra ma anche l'indifferente e agnostica società italiana lo è. Domenica scorsa, appena pochi minuti dopo che l'Ansa aveva battuto la notizia da Perug...

19/11/2002
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la Repubblica

EUGENIO SCALFARI
IL MONDO politico è sottosopra ma anche l'indifferente e agnostica società italiana lo è. Domenica scorsa, appena pochi minuti dopo che l'Ansa aveva battuto la notizia da Perugia della condanna di Andreotti a ventiquattr'anni di reclusione, la grande maggioranza degli italiani già ne erano a conoscenza, sbalorditi e increduli.
Molti sono per lui, molti contro. Piace la sua ironia sottile, le sue orecchie a sventola, la sua testa ingobbita tra le spalle, il suo aspetto da salamandra, le sue battute proverbiali, la sua furbizia, il suo linguaggio piano, comune. Dispiace invece l'ipocrisia, l'impenetrabilità, il cinismo che traspare dai suoi comportamenti, il trasformismo politico, le frequentazioni spesso equivoche, i misteri, i doppi e tripli fondi della sua mente.
"Ma chi è veramente Andreotti? Tu sei riuscito a capirlo?", mi chiese tanti anni fa De Mita al termine di un'intervista che gli avevo fatto a piazza del Gesù nel suo ufficio di segretario della Dc. La domanda mi lasciò di stucco: De Mita era stato eletto alla massima carica della Dc da una variegata alleanza che aveva proprio in Andreotti il suo perno ed era da molti anni uno dei dirigenti del partito, ma chi fosse veramente quell'uomo non lo sapeva neppure lui.
È stato, insieme a Fanfani e a Moro, uno dei cavalli di razza della Democrazia cristiana ma con alcune differenze sostanziali. Fanfani fu il capo d'una corrente che per alcuni anni ebbe la maggioranza del partito; Moro si impose per la sottigliezza della tattica e l'intelligenza della strategia. Il primo rappresentò la sinistra sociale della Dc, il secondo la sinistra politica.
Andreotti fu il leader d'una minoranza legata a lui da vincoli personali, una sorta di caravella senza legami e ancoraggi ideologici, capace di spostarsi dall'uno all'altro capo dello schieramento politico in meno di ventiquattr'ore seguendo le istruzioni del suo capitano.
Con questo armamento leggero transitò dal centro alla destra, poi alla sinistra, civettò con Bufalini, sedusse perfino il vecchio maresciallo d'Italia Graziani, reduce dai nefasti di Salò, governò di volta in volta con Malagodi, coi repubblicani di La Malfa, con Saragat, con Nenni, con Berlinguer. Simpatizzò con Gheddafi ma anche con Israele, con l'America di Little Italy ma molto meno con quella di Washington. Si circondò di mediocrità dialettali e di professionisti dell'intrallazzo politico, giudiziario, imprenditoriale: Evangelisti, Sbardella, Cirino Pomicino, Vitalone, Caltagirone. Incontrò nella sua lunga strada anche Sindona, anche Calvi. Eppoi Lima e i cugini Salvo.
Ai loro tempi Moro e Fanfani furono molto potenti. Ma Andreotti rappresentò il potere. No fu intrinseco di nessun papa, ma di molti cardinali e vescovi.
Craxi, quand'era presidente del Consiglio, lo paragonò pubblicamente a Belzebù.
"Chi è Andreotti? Io non lo so" . Non lo sa nessuno.

* * *
La sua assoluzione in primo grado nei processi di Palermo (concorso esterno in associazione mafiosa) e di Perugia (mandante in omicidio) non ha stupito nessuno: nonostante la foga dei pubblici ministeri il verdetto dei giudici era atteso e scontato, quasi dovuto. Lui ebbe in entrambi i casi un comportamento processuale impeccabile, non parlò mai di complotto ai suoi danni, non accusò gli inquirenti né di lesa maestà né di faziosità politica. Fu presente a quasi tutte le udienze, ascoltando con le labbra strette e prendendo appunti. Era sempre più ingobbito, gli occhi erano due fessure. Salutava con deferenza i magistrati all'inizio e alla fine di ogni udienza. Dichiarò più volte di avere piena fiducia nella giustizia. L'ha ripetuto anche l'altro ieri, dopo aver saputo della condanna che pure deve averlo colpito come una mazzata.
Quel verdetto ha turbato tutti, anche Ciampi che finora non aveva mai esternato in occasione di sentenze. L'esternazione del Capo dello Stato è sembrata ad alcuni irrituale. Forse lo è, ma forse è invece correttiva: dopo le parole smoderate di Berlusconi, che ha immediatamente utilizzato la sentenza di Perugia in favore della sua causa personale e della sua politica di coercizione giudiziaria; dopo la solidarietà manifestata al condannato dai presidenti della Camera e del Senato, l'intervento di Ciampi riporta le istituzioni nel corretto binario che ad esse è proprio: turbamento personale, fiducia nella giurisdizione, richiamo alla presunzione d'innocenza che perdura fino alla sentenza finale secondo il dettato della Costituzione. Niente di meno niente di più. Ancora una volta questo è l'officio del presidente della Repubblica in occasione di questo peso. Non vedo che vi sia nulla da ridire.

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Non sono state notate le analogie tra il verdetto di Perugia e le varie sentenze che hanno colpito Adriano Sofri per l'uccisione del commissario Calabresi. In entrambi i casi il reato ascritto agli imputati è quello di mandante in omicidio, reato gravissimo.
Sofri ha percorso due volte i vari gradi di giurisdizione e la condanna è ora definitiva. Prove? Indiziarie. Il pentito Marino che l'ha chiamato in causa autodenunciandosi come esecutore materiale del crimine, si è guadagnato con questa denuncia la quasi impunibilità riservata ai collaboratori di giustizia.
La condanna di Sofri - che egli sta scontando in maniera esemplare - ha suscitato molte riserve "trasversali" ma nulla che somigli al turbamento che si è diffuso nell'opinione pubblica nelle ultime quarantott'ore. Il motivo è evidente: Sofri, all'epoca dei fatti, era il capo di un gruppo di estrema sinistra combattente; Andreotti è stato uno dei grandi mandarini della Repubblica, sette volte presidente del Consiglio, infinite volte ministro dell'Interno, degli Esteri, della Difesa, del Bilancio, delle Finanze.
Ma la loro posizione giudiziaria è eguale salvo il fatto che Andreotti ha ancora da esperire un altro grado di giudizio, il che non è piccola differenza.
Il turbamento - non suscitato da Sofri ma verificatosi l'altro ieri per Andreotti - deriva da molti fattori il primo dei quali si può ravvisare nel fatto che la sentenza della Corte d'assise di Perugia appare in controtendenza rispetto al rapido modellarsi della magistratura giudicante sulla nuova atmosfera determinata dall'Esecutivo e dalla maggioranza parlamentare nonché da gran parte dei mezzi di comunicazione.
Sarà utile ricordare che la Corte di Perugia era composta in maggioranza da giudici popolari, non togati, mentre il tribunale che aveva assolto Andreotti in primo grado era formato interamente da uomini di toga. Di solito i giudici popolari sono più sensibili al merito dei fatti e all'immagine che hanno degli imputati e meno attenti perché profani alle questioni di legalità formale.
Riflettono in qualche modo il comune sentire. Sarà un bene sarà un male, non lo so, ma è comunque un dato di fatto.

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Ci sono diversi modi di essere mandanti in omicidio. Una delle espressioni gergali più diffuse nel romanesco che sta diventando lingua nazionale è il famoso "te possino ammazzà!" ma se il destinatario di quell'insulto muore effettivamente ammazzato, difficilmente l'autore della parolaccia sarà inquisito come mandante.
Un'altra fattispecie si verifica quando qualcuno, parlando di un terzo fastidioso in un gruppo di amici, pone la domanda: "Non è possibile farlo tacere?" oppure: "Se qualcuno ce ne liberasse..." e qui siamo già un passo più avanti ma certo non ancora a un comportamento giudiziariamente rilevante.
Molto dipende dal potere d'influenza di cui dispone colui che pone la questione, dal tipo di persone alle quali arriva il messaggio, dal livello di fastidio e di pericolosità del soggetto terzo del quale si parla.
Quando Napoleone disse a Fouché che il duca d'Enghien era diventato insopportabilmente pericoloso, comandò il suo rapimento o si limitò a esternare un rancore politico? Fouché obbedì a un ordine o andò oltre? E Mussolini versus Matteotti? E Galeazzo Ciano versus i fratelli Rosselli? Certo è che agli uomini di mafia basta molto meno di questo se vogliono "fare cosa gradita" a un potente di cui desiderano accattivarsi la benevolenza. Per loro la vita di un uomo non vale nulla; possono presumere di agire nell'interesse di Caio eliminando Tizio anche se Caio non aveva affatto quell'intenzione, a meno che Caio non abbia fatto arrivare direttamente alle loro orecchie il messaggio, sia pure nella sua estrema genericità.
Qui entrano in discussione le specifiche circostanze e gli eventuali moventi; qui siamo in presenza di momenti di effettiva giurisdizione e di ricerca delle prove.

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Leggeremo, quando sarà disponibile, la motivazione della sentenza di Perugia.
Per quel che se ne sa uno dei suoi fondamenti sta nella testimonianza di Masino Buscetta il quale riferì, nel corso di un interrogatorio di fronte al magistrato, che il boss Badalamenti gli raccontò che Pecorelli era stato eliminato dai suoi uomini "nell'interesse di Andreotti". Badalamenti ha recisamente smentito questa circostanza, rifiutando di confrontarsi con Buscetta; nello stesso tempo ha parlato di Andreotti con incondizionata ammirazione.
Nel frattempo don Masino è morto. Sono morti quasi tutti, i protagonisti di questa stagione, alcuni per cause naturali, altri per cause di violenza. È morto Calvi, è morto Sindona, è morto Dalla Chiesa, è morto Falcone, è morto Moro.
Moro era forse uno dei pochissimi che avrebbe potuto rispondere alla domanda di De Mita, chissà. Certo qualche cosa deve aver detto su Andreotti nel suo memoriale. C'è ancora qualche parte inedita di quel documento? Esso fu sequestrato dai carabinieri di Dalla Chiesa in un covo delle Br. Si dice che Dalla Chiesa ne fece avere copia a Pecorelli. È stato accertato questo passaggio? Si dice anche che le carte che Pecorelli stava per pubblicare riguardassero invece storie di colossali tangenti connesse con lo scandalo Italcasse che la Banca d'Italia aveva messo sotto inchiesta.
Partì da quell'inchiesta la contro-inchiesta diretta contro Paolo Baffi e Sarcinelli, che portò all'arresto del secondo e al ritiro del passaporto del primo, allora governatore della Banca d'Italia. Fu il magistrato Alibrandi a condurre l'inchiesta e il magistrato Vitalone ad attivarla.
Ricordo che in quella circostanza, avendo "Repubblica" intrapreso una vibrata campagna di stampa in difesa di Baffi e Sarcinelli, andai a trovare a Palazzo Chigi Franco Evangelisti, sottosegretario alla presidenza nel ministero Andreotti. Alle mie proteste per quanto accadeva ebbi da lui esplicita e vivacissima ammissione che "chi voleva toccare Giulio e i suoi amici l'avrebbe pagata cara".

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Tutto ciò significa ben poco rispetto alle risultanze processuali ed alla inconfutabilità delle prove che si richiedono per una sentenza di questa gravità. Perciò bisogna aspettare le motivazioni della condanna e studiarle col massimo scrupolo e obiettività. Ma consentono, questi rapidi tocchi, impressioni, dati di fatto e conoscenze ambientali, di rispondere fin d'ora a tre questioni che sono state ampiamente sollevate ieri da gran parte della stampa italiana.
La prima questione è questa: se fosse fondata la sentenza di Perugia vorrebbe dire che l'Italia è stata diretta per quarant'anni da un criminale, il che è manifestamente impossibile. Risposta: i crimini eventuali avevano presuntivamente di mira, per l'appunto, la conquista e il consolidamento del potere. Del resto l'Italia non era una dittatura ma una democrazia, nella quale non esisteva un uomo solo a comandare. L'ipotesi che tra i "mandarini" ce ne potesse essere uno bacato non basta a trasformare un paese libero in una fogna. Comunque non può e non deve arrestare un'indagine giudiziaria su un fatto assolutamente certo e cioè che Pecorelli è stato ucciso.
La seconda questione è questa: la storia d'Italia non si scrive con le sentenze. Risposta: le sentenze non scrivono la storia ma sono preziose fonti per scriverla. Le sentenze risolvono casi criminali previsti dal codice penale. A volte quei casi riguardano i rapporti tra uomini politici e organizzazioni criminali, oppure tra uomini politici e imprenditori e affaristi. Se emergono in questi rapporti indizi di comportamenti delittuosi, la magistratura ha non solo il diritto ma lo stretto dovere di intervenire.
Diranno poi gli storici fino a che punto quegli eventuali crimini possono aver parte nella loro storia.
La terza questione è questa: come si può andare avanti con una magistratura continuamente difforme nelle proprie pronunce? Che giudica in un modo a Palermo, in un altro a Roma, in un altro ancora a Milano in un altro ancora a Brescia o a Perugia? Risposta: come molti hanno sostenuto - e come è pura verità - la magistratura non è un potere gerarchizzato e paragonabile all'Esecutivo. È viceversa un potere diffuso, nel senso che ne è titolare ciascun magistrato nell'esercizio delle sue specifiche funzioni giurisdizionali. Essendo un potere diffuso esso non può avere una rigida coerenza ma gli esiti variano secondo il libero convincimento di quel magistrato. La giurisprudenza della Cassazione può servire come punto di riferimento non obbligatorio e del resto la Cassazione stessa molte volte cambia la propria già consolidata giurisprudenza. In questo sta la peculiarità della magistratura in questo stanno alcuni suoi inevitabili difetti in questo sta anche il pregio e la articolazione che essa assicura con le sue pronunce.

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Tutto ciò detto e in attesa di poter leggere le motivazioni della sentenza, auguro anch'io sinceramente al senatore Andreotti di poter uscire indenne da questa terribile vicenda che ha finora affrontato con dignità di cui gli va dato atto. Lo auguro a lui e lo auguro al nostro paese.
Al quale tuttavia non auguro affatto una magistratura cieca, sorda, addormentata, succube. Neppure auguro una magistratura in cerca di pubblicità o di esibizioni muscolari in qualunque direzione rivolte.
Deploro infine coloro che strumentalizzano i processi a beneficio delle loro tesi politiche o dei loro interessi personali e di gruppo. Quando poi chi strumentalizza esercita anche alte mansioni istituzionali, il fatto diventa grave e merita pubblica e severa censura.