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Repubblica/Napoli: Un tassametro per l´università

A proposito delle norme contenute nell´ultima legge. Si introduce l´onere di produttività, ma la statura culturale non si può valutare con criteri quantitativi Bisogna scartare il bilancino del farmacista e la stupida clessidra

29/01/2009
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la Repubblica

VINCENZO SPAGNUOLO VIGORITA
Il legislatore è intervenuto per l´ennesima volta nelle cose universitarie (legge 1 del 9 gennaio 2009) e in particolare sugli aspetti finanziari, sul sistema di reclutamento dei docenti e sulla valutazione dell´attività di ricerca. Dunque, in un rinnovato tentativo di sventare i complotti dei "baroni", su cui non desidero per ora parlare.
Più nuovo è l´articolo 3, dove si dispone che per i docenti universitari gli scatti biennali di stipendio (già spettanti per anzianità) sono subordinati all´accertamento «della effettuazione nel biennio precedente di pubblicazioni scientifiche», i cui criteri identificativi saranno stabiliti con decreto ministeriale; e che dopo un triennio «vuoto» i docenti saranno esclusi dalle commissioni di concorso. Si introduce dunque così - con quali scelte linguistiche - l´onere di produttività, che va ad aggiungersi ai precedenti castighi rappresentati dagli stipendi di fame e dal pieno tempo, cioè dagli arresti domiciliari entro le squallide mura degli atenei.
Questo ulteriore castigo era ignoto al mondo universitario, e non è stato inflitto a nessun´altra categoria di dipendenti pubblici. Si chiede forse ai magistrati come fanno a impiegare dieci anni per una sentenza, o quante sentenze pubblicano al mese? Per altre categorie, il ministro Brunetta, sta ora coniando medaglie da stacanovisti. Il tassametro dunque finora non lo ha accettato nessuno.
Non sarà quindi irragionevole vedervi una ulteriore manifestazione, maldestramente mascherata, dell´astio verso i "baroni", trasparente del resto nelle precedenti cennate norme della legge, rivolte contro le presunte congiure concorsuali.
Per la verità, l´odio contro i baroni data da tempo immemorabile. Da quando sono state istituite le cattedre statali, accessibili per concorso e non per placitum regale, la voce pubblica è concorde: chiunque le ricopra è senza misericordia un farabutto. Per "magnanimi lombi" o per "compri onori" (diceva Parini), per congregazione politica, per complotto di potere. E si comporta da farabutto, rinnovando e perpetuando lo scellerato sistema da cui è nato.
Secondo la vox populi quindi è giusto imporre la produttività: e obbligatoria la ricerca che ne è il presupposto. Nessuno si preoccupa di definire almeno il tipo di università che si vuol costruire: se un istituto tecnico, riverniciato di nozionismo istituzionale; o un centro di alta dottrina, che combini scienza e prassi elevata. Nessuno trae il corollario per cui il primo e il secondo livello - utili entrambi se distinti - devono possedere strutture e apparati docenti diversi. Nessuno, ancora, si cura di riconoscere che i settori disciplinari differiscono profondamente l´uno dagli altri. In relazione a simili indici l´identikit del docente sarà mutevole.
Se vogliamo cervelli, deve essere di casa la ricerca. Ma se questa è un tratto fondante del mestiere universitario, vogliamo capire di che si tratta? L´attributo «scientifica» può avere solo un senso: che porti a risultati innovativi. Se è così, bisogna comprendere bene che alla valutazione può esser chiamata solo la comunità scientifica, non il regolamento ministeriale; e che non si può pretendere che il docente inventi qualcosa di nuovo ogni due anni, pena la gogna del fermo stipendiale. La costrizione a cadenze biennali obbligate può attingere solo ai vertici delle Pagine Gialle o dello Stradario Municipale.
Cervello e prestigio e statura culturale non si possono valutare a spanne, con criteri quantitativi, come il solco del contadino, il peso del granoturco, le pagine dell´elenco telefonico. Diceva de Gaulle, a proposito dei risultati delle campagne napoleoniche: la grandeur non si misura con i centimetri. Certo, a guardarsi indietro, si trovano esempi variopinti. Cesare Lombroso desumeva i caratteri e le attitudini dall´osservazione delle fisionomie e dalla circonferenza del cranio. E Pasquale Galluppi, filosofo calabrese di Tropea, a chi gli offriva una cattedra all´Università di Napoli, rispondeva rifiutando: e chi c´è a Napoli che possa esaminare Pasquale Galluppi? A sua volta, il dittatore cinese Mao, nell´empito antiborghese, risolveva il problema degli universitari mandandoli al lavoro agricolo nelle ridenti risaie del suo Paese.
Con criteri quantitativi o punitivi si può arrivare a cacciare dall´università un genio come il matematico napoletano Renato Caccioppoli. La valutazione, certo, non è facile. Ma sicuramente bisogna scartare il bilancino del farmacista e peggio ancora la stupida clessidra. E andare piuttosto alla sostanza, alla figura, alla statura, al quadro insomma generale. Valgano appartenenza e accettazione nella comunità scientifica, prestigio, risonanza nel circuito culturale, organizzazione di strutture, formazione di allievi, mixage di particolare competenza professionale. Ma probabilmente la società oggi respinge ogni modulo elevato.
Personalmente, non ho grandi titoli per giudicare, se non la mia lunghissima presenza nell´accademia come "barone": perché ebbi la follia di tentarvi l´ingresso prima dei trent´anni e la sventura di riuscirvi. E ho imparato che il vulcano può essere attivo per stenta colata o per memoranda eruzione. E che Mao nel suo delirio in fondo non aveva tutti i torti. Ricordo infatti che molti colleghi mi sembravano reduci dalle sue proscrizioni (o li aveva agguantati, luciferino, a migliaia di chilometri?): niente sapevano o producevano di scientifico; niente contavano o costruivano, ma avevano imparato a spigolare il riso e balbettavano qualcosa di cinese.