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Repubblica-Quel vuoto della politica che crea partecipazione

QUESTA GUERRA annunciata, che ogni giorno appare più vicina; che ogni giorno è rinviata all'indomani, alla settimana dopo. Questa protesta contro la guerra, che si allarga, sempre più e ha espr...

16/02/2003
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la Repubblica

QUESTA GUERRA annunciata, che ogni giorno appare più vicina; che ogni giorno è rinviata all'indomani, alla settimana dopo. Questa protesta contro la guerra, che si allarga, sempre più e ha espresso, ieri, la manifestazione collettiva più ampia che si ricordi. Rivelano, insieme, alcuni paradossi della globalizzazione. Che riflettono i limiti posti alla democrazia e dalla democrazia. I limiti della politica che generano nuova partecipazione politica.

LE ECCEDENZE e le reticenze dei media.
1) L'attentato dell'11 settembre ha aperto l'epoca della guerra globale. Il terrorismo ha colpito luoghi visibili e simbolici. Perché le Torri gemelle stanno al centro del centro della globalizzazione: economica, finanziaria, politica. Culturale, in qualche misura. Il terrorismo è "guerra globale", perché non ha una patria definita, stabile. Non ha confini. Può essere e colpire dovunque. Può avere Stati amici. Ma non ha Stato né amici definitivi. La globalizzazione dei movimenti finanziari, ma anche "umani", peraltro, rende impossibile il controllo e ancor più la repressione. Perché non ci sono confini che possano arrestare il flusso di informazioni, merci, denaro. Persone. Tuttavia, per combattere il terrorismo globale occorre, questo è il paradosso, fissarne i luoghi, l'identità, il volto. Non solo per ragioni strategiche. Anche, ancor più per ragioni di consenso. Perché le democrazie che stanno al centro della globalizzazione, in primo luogo gli Usa, si reggono sul consenso. Il quale non sopporta un clima di paura e di incertezza. Per cui al "nemico", al terrorismo, occorre attribuire un'identità, un nome, un volto. Non si può combattere contro i fantasmi, contro un nemico che si insinua fra di noi usando le stesse nostre armi. I nostri stessi strumenti. Al Qaeda, Bin Laden, il mullah Omar, poi Saddam Hussein. Alcuni fra i molti artefici dell'instabilità e del terrore. Diventano bersagli. Reali e simbolici. E, quando scompaiono, si trasformano in simulacri. La cui voce, come nel caso di Bin Laden, riaffiora, di quando in quando, per parlare il suo linguaggio di guerra e di morte. Inoltre, la lotta al nemico globale ha bisogno di ricondurlo a contesti "locali". Stati o meglio "paesi". Che evochino la possibilità di confinare la minaccia, in un mondo senza confini. È ciò che rende difficile l'impresa degli Usa e di Bush, dopo quel tragico 11 settembre. Inseguire un nemico globale, identificarlo agli occhi dei cittadini, è pressoché impossibile. A meno di non cambiargli volto, nome, indirizzo, di volta in volta. Perché Saddam Hussein è "un" nemico. "Un" pericolo. Fra altri.
2) La guerra globale evidenzia altri paradossi. Perché l'Occidente, centro della globalizzazione, per decidere, in casi tanto gravi, deve rispettare le procedure e i riti della democrazia, che ne è il fondamento politico. Deve legittimare le sue scelte. Nell'ambito di ciascuno Stato: nelle istituzioni e nel rapporto con i cittadini. E negli organismi internazionali. Il che, evidentemente, contrasta con l'esigenza di "governare", decidere, intervenire, contro un nemico "invisibile", che non ha norme né procedure da rispettare. Infrangere queste regole, peraltro, come chiariva ieri Ezio Mauro, significa semplicemente perdere la guerra. Piegarsi alla logica del terrorismo globale, che, a fini simbolici, fa strage di persone vere, miete vittime reali. Usa il dolore come arma. Da ciò il paradosso: per combattere un nemico globale, per comunicare un "governo globale", gli Usa debbono definire obiettivi "locali" e misurarsi con il "vizio" costitutivo (e irrinunciabile) della democrazia. Interna e internazionale.
3) Il terzo paradosso della lotta al nemico globale, della guerra al terrorismo, è che, in poco tempo ha favorito l'affermarsi di un movimento contro la guerra, sempre più esteso, in tutti i paesi dell'Occidente. È un movimento "globale". Perché i suoi leader e militanti sono educati alla comunicazione sul Web, perché sono una rete di gruppi che si collega attraverso la "rete elettronica", perché usa con competenza e professionalità uno dei principali meccanismi di globalizzazione: la comunicazione. Perché ha una biografia parallela a quella del processo di "globalizzazione" del potere. Nasce e si riproduce attorno ai "luoghi" dove si riuniscono gli organismi di controllo dell'economia e della politica globale: il Wto, il G8. Nei vertici di Seattle, Davos, Praga, Genova. Ogni incontro fra i sedicenti "grandi del mondo" offre agli oppositori un capitale simbolico e comunicativo da sfruttare. Che essi sfruttano. Così il governo globale evoca, promuove l'opposizione globale. Le dà evidenza globale.
Dopo l'11 settembre, però, la lotta al terrorismo globale ha reso globale e soprattutto autonomo anche il movimento contro la guerra; nel senso che questo ha smesso di vivere solo in funzione, di riflesso, di iniziative esterne, localizzate. Ieri, non a caso, ha esibito dimensioni immense, impensabili nel passato. E ha costellato il mondo. Anche perché non è più, come solo un anno addietro, arena di specialisti e appassionati della politica. Attinge, invece, da versanti, culture, sentimenti diversi. Gli stessi social forum, oggi, raccolgono gruppi eterogenei: sindacato, cattolici, gruppi di volontariato, ecologisti. Inoltre, a mobilitarsi, altra novità, non sono più soggetti militanti e ideologizzati. Ma molte persone comuni, molti giovani e ancor più giovanissimi, nati alla vita pubblica quando il Muro era già caduto da un pezzo. Ma soprattutto, questo movimento, a differenza del passato anche recente, riflette l'opinione di quella grande maggioranza di popolazione che in Italia, Spagna, Francia e Germania, soprattutto, ma anche nel resto d'Europa e, in misura crescente, negli stessi Usa, manifesta opposizione all'intervento in Iraq. Un'opposizione trasversale, per età e orientamento politico. Gente comune. Che, nella quasi totalità, è immune dal risentimento antiamericano.
4) I movimenti sono "media", messaggi, segnali, scriveva il compianto Alberto Melucci, studioso fra i più capaci di coglierne e decifrarne il linguaggio. Questa mobilitazione collettiva, questi movimenti traggono alimento non solo e forse non tanto dallo specifico, drammatico tema della guerra globale. Rivelano invece "domanda" di politica e di partecipazione. In tempi nei quali, altro paradosso, la politica e la partecipazione sembravano eclissati. Svaniti. È che il linguaggio della politica prevalente, inaridito, povero, chiuso, genera claustrofobia politica; e suscita una diffusa domanda di partecipazione e di condivisione, fuori e oltre i modelli tradizionali. Per cui marciano in milioni, mentre a decine di migliaia ostentano bandiere con i simboli della pace sui balconi. Non per parlare "contro". Non solo e forse non tanto. Ma per dichiararsi, per dire chi sono. Per uscire dalla folla silenziosa, che assiste impassibile e passiva ai riti della democrazia globale.
5) Infine, resta da render conto di un ultimo paradosso. Tutto racchiuso nel cortile di casa nostra. Un paradosso piccolino. Un "paradossino". I media, i nostri media, le nostre televisioni, complici e artefici della globalizzazione, oggi pensano di silenziarla e oscurarla. La guerra globale e il movimento che la sfida: non ci sono. Così, mentre i capi degli ispettori Onu presentavano le loro relazioni di fronte al Consiglio di sicurezza, in una seduta drammatica e storica, le reti Rai e Mediaset ignoravano l'evento. E mentre milioni di persone sfilavano nelle principali città europee, le reti Rai, di nuovo, non c'erano. Il "nostro" villaggio globale, vittima delle logiche interne e della dipendenza dai piccoli interessi della nostra piccola politica, chiude porte e finestre in faccia alla realtà. Il villaggio globale che si finge villaggio locale. Senza offesa per i villaggi. E per i contesti locali. Che da noi appaiono particolarmente aperti al mondo.