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Repubblica-Se per combattere la crisi si aumentano i salari

Se per combattere la crisi si aumentano i salari LUCIANO GALLINO INTORNO al 1915 Henry Ford pagava i suoi operai il doppio rispetto alla media dell'industria americana: 5 dollari al giorno i...

15/08/2003
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la Repubblica

Se per combattere la crisi si aumentano i salari

LUCIANO GALLINO

INTORNO al 1915 Henry Ford pagava i suoi operai il doppio rispetto alla media dell'industria americana: 5 dollari al giorno invece di 2,50. Non intendeva far opera di beneficenza. Sapeva, e affermava esplicitamente, che con retribuzioni elevate quei lavoratori avrebbero potuto acquistare le merci che loro stessi producevano - in quel caso, automobili. Le imprese italiane non hanno mai amato molto l'equazione fordista - alti salari uguale alti consumi - e dai primi anni '90 ad oggi l'hanno decisamente ripudiata. Adesso scoprono che le famiglie comprano meno auto, meno mobili e meno cellulari, gridano alla crisi, e sollecitano il governo a fare presto qualcosa per superarla. A parte il dettaglio che come guida dell'economia il governo non ha finora dato prova di esistere, alle imprese converrebbe piuttosto riflettere sul contributo che esse stesse hanno dato per generare la crisi economica in atto. A cominciare appunto dalle loro politiche del lavoro e delle retribuzioni. L'esito di queste si compendia, negli ultimi due o tre lustri, in una diminuzione di parecchi punti percentuali del peso dei redditi da lavoro dipendente sul Pil; in una sostanziale stagnazione delle retribuzioni lorde reali; in un forte aumento del numero delle persone in povertà facenti parte di famiglie il cui capofamiglia è occupato come operaio. Quale mezzo per ridurre la domanda interna, e preparare così la crisi attuale, non si poteva concepire nulla di più efficace. Senza voler ignorare, con tale sottolineatura, il peso che hanno avuto e hanno altri fattori interni e internazionali.
I metodi utilizzati da centri di ricerca universitari, uffici studi sindacali e istituzioni quali la Banca d'Italia e il Cnel per valutare l'incidenza dei redditi da lavoro dipendente sul Pil sono assai differenti, e producono cifre diverse. Peraltro essi convergono nel valutare intorno al 6-7% la diminuzione di tale incidenza a partire dagli anni Novanta. Se si va più indietro nel tempo il dato peggiora. A esempio, secondo il rapporto Cnel 2002 sulla distribuzione del reddito in Europa, la quota dei redditi da lavoro dipendente sul Pil è scesa in Italia, dal 1972 al 2000, di 10 punti esatti, scendendo dal 50,6 al 40,6%. Ciò che indica pure come il processo di riduzione di tale quota si sia accelerato nella seconda parte del periodo. Esso si potrebbe giustificare solo se nello stesso periodo si fosse verificata una forte espansione della quota di lavoratori autonomi sul totale degli occupati. In realtà tale quota è rimasta la stessa, un po' meno del 30% sul totale degli occupati. Perciò il minor peso dei redditi da lavoro dipendente sul Pil può essere ricondotto solamente alla stagnazione di questi, a fronte di un aumento dei profitti, delle rendite e dei redditi da lavoro autonomo.
Che i redditi da lavoro dipendente abbiano seguito nell'ultimo decennio una linea quasi piatta, mentre i redditi di altro genere si impennavano, è confermato dai dati sulle retribuzioni lorde reali (cioè depurate dal tasso di inflazione). Tra il 1991 e il 2001 esse sono cresciute, in totale, solo del 2%. Tale cifra corrisponde ad appena un quarto dell'aumento fatto registrare in media in altri paesi Ue quali Francia, Germania e Regno Unito. In altre parole, se un nostro operaio o un'impiegata percepivano dieci anni fa 1000 euro lordi al mese, calcolati in moneta attuale, al presente sono arrivati a guadagnarne - a parte gli aumenti di merito o di anzianità, i premi di produzione e simili - ben 1020. Con tale cifra, al netto dei prelievi obbligatori, potrebbero andare al cinema un paio di volte in più al mese. In realtà non possono concedersi nemmeno questo lusso, poiché gli enti locali, ai quali il governo in carica ha bloccato i trasferimenti, hanno aumentato in misura assai maggiore il costo di servizi essenziali quali gli asili nido e le scuole materne.
Oltre che dal livello delle retribuzioni, la compressione dei redditi da lavoro dipendente deriva anche dalla quantità di ore lavorate. Se il salario è basso, e le ore lavorate su base annua sono meno dell'orario pieno, come avviene per le tante occupazioni investite dalla flessibilità, il risultato può essere per il lavoratore o la lavoratrice l'ingresso nello strato sociale dei lavoratori poveri. Così definisce l'Ocse coloro che, pur lavorando in modo continuativo, percepiscono salari al di sotto dei due terzi del valore mediano dei redditi da lavoro dipendente. Essi costituivano il 7-8% dei lavoratori dipendenti alla fine degli anni '80, ma nel decennio successivo sono saliti sino a sfiorare il 15% (dati Banca d'Italia). In parallelo aumentava la quota di persone che, facendo parte di famiglie dove il capofamiglia è un operaio, si collocano sotto la linea della povertà. Esse costituivano l'11,6% delle persone povere all'inizio degli anni '80, mentre risultano superare il 19% alla fine degli anni '90.
L'insieme di questi dati porta a concludere che nella battaglia per ridurre il peso sul Pil e sui bilanci aziendali (quelli veri) dei redditi da lavoro dipendente, le imprese italiane hanno conseguito buoni risultati, assai migliori delle loro consorelle dei maggiori paesi Ue. Però così facendo hanno contemporaneamente strozzato una quota rilevante del mercato interno, dal quale dipende la loro stessa esistenza. Ora che buon numero di esse sono davvero ridotte male, forse sarebbe intempestivo suggerire loro di scegliere la strada più semplice per rilanciare la domanda: procedere ad un aumento immediato delle retribuzioni medio-basse. Ma per intanto potrebbero provare a chiedere al governo di invertire il segno degli interventi finora compiuti o promessi in tema di mercato del lavoro, di stato sociale e d'imposizione fiscale. Infatti codesti interventi vanno tutti nel senso d'un ulteriore peggioramento della posizione dei redditi da lavoro dipendente nel sistema economico e sociale, e con essi del reddito effettivamente disponibile a due terzi delle famiglie italiane. Che poi simili interventi siano stati pretesi negli ultimi anni dalle stesse imprese non ha particolare importanza. La necessità di trovare al più presto vie d'uscita dalla crisi che attanaglia gran numero di imprese, e tanti cittadini con esse, val bene una contraddizione.