Iscriviti alla FLC CGIL

Home » Rassegna stampa » Rassegna stampa nazionale » Unità: Il glorioso partito dei Beatles, Pravo e Berlinguer

Unità: Il glorioso partito dei Beatles, Pravo e Berlinguer

Toni Jop

02/12/2006
Decrease text size Increase text size
l'Unità

Il glorioso partito dei Beatles, Pravo e Berlinguer

Get back. Torna indietro, cantavano i Beatles. Fatto, lo stiamo facendo, a caccia di odori, di stati d’animo, forse di convinzioni perdute. Di tutto quello che abbiamo perduto. Cosa lega la decisione di Mediaset di ricostruire l’epoca d’oro del Piper e quella tenera tentazione cinematografica di andare a vedere cosa resta, tra l’Emilia e la Toscana, di quel fondale politico che fece da corona all’era Berlinguer? Alle spalle di entrambi i percorsi di memoria, c’è di sicuro la voglia di fissare la storia, di marcarla ad opera di chi l’ha attraversata senza pensare al domani.
Lasciare tracce: è un pensiero nuovo, magari allarmato dalla senescenza ma con questo stiamo con ogni probabilità facendo i conti. Generazioni di «sbadati» possono ora legittimanente pensare che la mitologia che hanno inconsapevolmente contribuito a creare non è una diafana sequenza di oasi in un deserto di fatti anonimi. C’era dell’altro oltre i Beatles, ad esempio, oltre Berlinguer, oltre e attorno ai totem; e chiedersi che cosa esattamente ci fosse in quelle immense aree dense di sogni collettivi è un modo, probabilmente l’unico, per ritrovarsi, per recuperare un senso adesso che i sensi - quelli non clonati dal mercato e dal consumo - appaiono il bene più prezioso e raro. Può far sorridere questo tuffo nel sé che si affida alla seta dei capelli biondi di Patty Pravo; può provocare dispetto, anche nella politica di sinistra, questo grattar la terra del passato attorno ai piedi del piccolo e immenso Enrico Berlinguer. E che sarà mai se ci viene nostalgia? La parola è non da ieri inserita d’autorità nel recinto dei termini impronunciabili senza sfracellarsi nel ghetto di chi, preferendo frignare, oramai sta fuori da tutti i giochi che contano. Infatti, è tenuta a bada come la peste nel dizionario della politica. Eppure, questa storia del «ritorno» in aree mitologiche non sembra avere l’impolitico colore della nostalgia. Semmai, ha il gusto di quel soprapensiero un po’ angosciato che ci governa ogni volta che, uscendo di casa, ci chiediamo all’improvviso: dove cavolo ho messo le chiavi? Moltissimi di noi le avevano date a un sardo alto niente che senza arroganza, senza stizze, senza cinismo, senza complessi, fendeva con l’autorevolezza più che con i gorilla, folle immense tenute assieme da ragioni e affetti condivisi. Il problema di Berlinguer è che, provando a parlar di lui, se dici la verità tendi a farne un santino. Converrebbe mentire, per tratteggiarne un ritratto più laico e molti ci hanno provato, infatti. Soprattutto chi, se avesse avuto avuto forza e potere, allora avrebbe spinto il Pci tra le braccia di Craxi e dei suoi affaristi senza scrupoli tenuti a galla dalla coca mentre ingabbiavano gli studenti che si facevano le canne. Avessero vinto loro, qualcuno oggi verserebbe lacrime su un Pci franato non assieme al muro di Berlino, com’è avvenuto, ma con l’emersione del marcio globale chiamato con indebita tenerezza disneyana «tangentopoli». È stato Berlinguer a decidere che il Pci non doveva trattare con Craxi, facendo schiattare di rabbia qualche alto dirigente comunista.
D’accordo: ma noi che c’entriamo? C’entriamo eccome, perché, grattando nella storia, riportiamo a galla il nostro vocabolario, il nostro senso condiviso di allora. «Questione morale», «alternativa», «compromesso storico», «decentramento», «terza via», «partecipazione». Badate bene: tutte «indicazioni» relative non al «cosa» ma al «come» della politica su cui si fondava quella «diversità» che aveva fatto innamorare milioni di italiani ben distanti dal fascismo bolscevico che aveva insanguinato l’Est europeo. E scavando, capisci che sapevi ciò che stavi cercando, esattamente ciò che ti manca oggi. L’esuberanza giovanile? La capacità di credere nel presente senza preoccuparsi del futuro? Palliativi buoni per un sociologismo ebefrenico che pure oggi fa molto «fine». Non andrebbero bene neppure per i Beatles, nemmeno per il Piper e il suo gran pubblico che si svezzava all’ombra di una veneziana bionda che cantava «Ragazzo triste come me».
A proposito di «Ragazzo triste», nel testo si programma una risposta fantasticamente «politica» a una questione «psicologica» molto intima come la depressione, la solitudine: «Nessuno può star solo, non deve stare solo quando si è giovani così. Dobbiamo stare insieme, amare tra di noi scoprire insieme il mondo che ci ospiterà». Curioso, ma è la stessa ricetta dei Beatles, curioso ancor di più ma è la stessa logica dell’era Belinguer. È ciò che ci manca oggi, le chiavi che credevamo perdute sono tutte nella politica, nalla sua capacità di accogliere e tradurre anche il disagio mentale degli individui, di rendere trasparente il potere e le sue declinazioni, di accendere la lotta non elitaria perché qualcosa cambi davvero, nella sostanza del nostro presente. A patto che questo guardarsi indietro non sia sufficiente a se stesso e non si limiti a regalarci un angolo di struggimento, come un sofferto episodio onanistico celebrato sotto le coperte.
Se la politica accettasse, ad esempio, che la si possa costruire anche nelle piazze - come un tempo, del resto - e che il professionismo dei politici non è la sola via, come un tempo, del resto. E che gli affari sono un’altra cosa. Ma chi glielo spiega?