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Unità-Il peggio è passato. Il peggio viene ora

Intervista a: Eric Hobsbawm (storico inglese) Intervista a cura di Siegmund Ginzberg 20.11.2002 Il peggio è passato. Il peggio viene ora Anni interessanti, si i...

20/11/2002
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l'Unità

Intervista a: Eric Hobsbawm (storico inglese)

Intervista
a cura di
Siegmund Ginzberg
20.11.2002
Il peggio è passato. Il peggio viene ora

Anni interessanti, si intitola l'affascinante autobiografia (la cui traduzione italiana, quasi 500 pagine, sta per uscire nelle librerie italiane per i tipi di Rizzoli) di un ragazzo ebreo nato nel 1917 ad Alessandria d'Egitto, vissuto a Vienna, orfano a Berlino, divenuto in Inghilterra uno dei più grandi storici del XX secolo.
Sono pagine la cui lettura fa venire la voglia di porgli centinaia di domande.
Ecco quelle a cui ci ha risposto.
Professor Eric Hobsbawm, lei sostiene che il "test della vita" di uno storico consiste nell'affrontare gli interrogativi del presente, non solo quelli del passato. Cosa ci aspettano, altri "tempi interessanti", o tempi da far paura?
"Possiamo certo attenderci altri 'tempi interessanti', nel senso ironico del titolo del mio libro. Dipende da come saranno vissuti. E da dove saranno vissuti. In alcune parti del mondo saranno anche tempi spaventosi. In altre forse no. Quello di cui sono convinto è che saranno comunque tempi di grandi incertezze, in cui non potremo contare su molte delle coordinate, dei punti di orientamento istituzionali, delle convenzioni morali a cui il mondo si era abituato nel secolo che ci siamo lasciati alle spalle. Tempi in cui verranno meno le regole, le aspettative, le convenzioni di una volta, che ci eravamo abituati ad accettare e a cui fare riferimento, su tutti i piani, nella famiglia come coi governi e tra i governi".
Lei ha affrontato spesso il tema del passato e del futuro della pace e della guerra. Stiamo per entrare in un'epoca di "guerre permanenti"? Lei ritiene che ci possano essere "guerre giuste"? (Mi ha colpito una delle osservazioni che concludono il libro: "Se mi si chiede di prendere in considerazione l'affermazione che la sconfitta del nazismo non era un fine tale da giustificare i cinquanta milioni di morti e gli innumerevoli orrori della Seconda guerra mondiale, devo semplicemente rispondere che non potrei farlo"). In che categoria rientra la "guerra contro il terrorismo"?
"Possiamo aspettarci un'epoca di conflitti armati endemici. Che di tanto in tanto potranno anche divenire epidemici. Non credo però che avremo guerre mondiali, a meno che non ci sia un giorno una guerra tra gli Stati uniti e la Cina, il che è possibile, forse anche probabile. Vedo all'orizzonte soprattutto guerre che nascono dall'indebolimento degli Stati territoriali, da conflitti interni. Non guerre tra Stati, a meno che non siano imposte dalle nuove politiche imperali americane. Che le guerre siano giuste o meno è un tema che mi asterrei dall'affrontare in questo contesto. Ma quanto alla 'guerra contro il terrorismo' sono del parere che non c'entri, non si tratta di una guerra nel senso tradizionale che attribuiamo a questo termine. Si tratta di una frase propagandistica. Che si riferisce alla realtà di movimenti terroristici che non hanno nulla a che fare con le guerre vere e proprie. Che ha a che fare col fatto che gli Stati hanno perso il monopolio alla lealtà incondizionata dei propri cittadini, poggia, per quanto terribile, su gruppi praticamente indistruttibili con i metodi delle vecchie guerre".
Lei ha studiato a fondo i ribelli, i banditi, i profeti visionari del passato. Dove collocherebbe Osama bin Laden e Al Qaida?
"Non ne so abbastanza. Non ho idee precise sulla struttura organizzativa della 'rete' di Al Qaida. Posso solo dire che mi pare abbia una forte impostazione ideologica. E che appaiono aver appreso la lezione della globalizzazione e del come operare transnazionalmente. Sanno benissimo come piccoli gruppi possano essere sproporzionatamente efficaci. La loro debolezza è che non hanno basi al di fuori delle radici islamiche. Del resto non mi pare puntino al consenso. Questo spiega che la loro logica sia quello del massacro indiscriminato. Non temono di perdere consensi. Dalla ferocia hanno solo da guadagnare. Non hanno la possibilità di conquistare alcuno Stato di una certa consistenza. Non si possono paragonare ad altre forme di terrorismo. Non sono l'Ira o l'Eta. Non si possono equiparare, mettiamo, al terrorismo palestinese".
Lei scrive di aver assistito alla fine di molti imperi, compreso "un Reich tedesco che si aspettava di durare mille anni", e di una potenza rivoluzionaria, l'Unione sovietica, che "sarebbe dovuta durare per sempre". Aggiunge: "Non vedrò, probabilmente, la fine del secolo americano, ma non rischierei di perdere se scommettessi che alcuni lettori di questo libro la vedranno". Cosa intende dire? Immagino che non si riferisca a quello che in passato fu sognato come "crollo del capitalismo".
"Il capitalismo non crollerà. Tranquilli. Ma sono convinto che gli Stati uniti potranno fare in tempo a rendersi conto che la supremazia militare e tecnologica non è il modo per governare il mondo. Intendo dire che la globalizzazione potrebbe costringere a cambiare il carattere degli imperi e della politica di potenza. La politica interventista di grande potenza ha già storicamente avuto anche un'altra faccia: l'isolazionismo. La globalizzazione già modifica il ruolo dei governi nazionali, cambia la natura degli 'imperi'. Può darsi benissimo che le politiche di potenza nella forma attuale continuino per molto tempo. Ma verrà un momento in cui sarà evidente che la superiorità militare non è sufficiente. Già adesso l'economia Usa dipende in larga misura dall'estero. E se si va oltre l'ovvia superiorità militare è evidente che l'Europa è una potenza economica pari a quella Usa. Come potrebbe esserlo in un non lontano futuro la Cina".
Avverte anche lei l'emergere di una sorta di nostalgia per gli "imperi" del XIX secolo? Per i vecchi metodi con cui gli imperi garantivano l'ordine, la "civiltà", il progresso economico, persino una certa dose di pacifica convivenza tra le etnie? In America e in Inghilterra c'è addirittura chi invoca l'imperialismo e Lord Kitchener. Lei come la vede?
"Forse la sorprenderà, ma anch'io sono per certi versi un nostalgico del XIX secolo. Dell'Ottocento, non del Novecento. Preferirei vivere in quell'epoca. Ne sono ancora affascinato. Ho studiato quell'era in cui era possibile a piccoli gruppi, come l'élite dell'impero britannico governare centinaia di milioni di persone, disposte ad accettare la logica del potere. Ma quel che so è che non si torna indietro".
Talvolta pare di cogliere, nella sua generazione formatasi all'insegna di un fortissimo impegno politico, e anche nella mia, una sorta di sgomento per il venire meno delle grandi passioni, la fuga dalla politica da parte dei giovani e non, il disimpegno crescente. Non sarà invece che i veri pericoli vengano, all'opposto da un eccesso di fedi, ideologie, entusiasmi, passioni, fanatismi, per cause "buone" o "cattive" che siano?
"Non penso che ci sia stata molta variazione nell'ammontare delle passioni. Quel che vedo invece è il fenomeno del venire meno delle ideologie e delle promesse delle grandi rivoluzioni degli ultimi due secolo: americana, francese, russa. E, al tempo stesso, vedo, al posto delle grandi fedi, della tradizione delle grandi religioni, un proliferare di sette e gruppi minori. Al posto degli universalismi, un rinsecchimento nei fondamentalismi. Noto peraltro che molti dei fondamentalismi di setta fioriscono a destra, mentre impostazioni universalistiche come quelle del Papa trovano udienza e congenialità con le tradizioni della vecchia sinistra".
Ritiene possibile amare l'America ed essere critici nei confronti delle politiche dell'America? Avverte il rischio di un antiamericanismo sbagliato o vecchio, anacronistico? Vorrei aggiungere: è possibile per un ebreo, come è lei, sostenere Israele e criticare le politiche di Israele? O avverte i pericoli di un anti-israelismo, di un possibile riflesso pavloviano di antisemitismo "da sinistra", o addirittura di collusione con coloro che predicano la distruzione di Israele?
"Sono assolutamente convinto che si può amare l'America e non approvare la politica americana. Così come si può amare l'Italia e non approvare i governi italiani. Posta così la questione potrebbe anche far ridere. Ma c'è poco da ridere: si comincia ad avere paura. Credo che sia giustificato un certo nervosismo sulla inaffidabilità ed imprevedibilità di questa amministrazione americana. La mia è una generazione che aveva avuto più paura che fosse la politica di potenza americana a rischiare di portarci ad una guerra mondiale nucleare che la politica di potenza russa. Quelli che si erano mantenuti più razionali erano stati forse i francesi, che stavano con l'America e non con la Russia, ma non accettavano per questo di dare carta bianca all'America. Perché mai dovremmo accettare acriticamente tutto quello che fanno e dicono oggi?
"Quanto ad Israele, noto che tutti i vecchi sionisti sono critici della politica di Ariel Sharon, lo era anche il vecchio Abba Eban, appena deceduto, che per tanti anni aveva rappresentato l'immagine del suo paese nel mondo. Ovviamente non sono contro l'esistenza di Israele. È lì e continuerà ad esserci. Ma credo vada trattato, anche dagli ebrei, come tutti gli altri paesi. Non c'è motivo per sostenere una politica di nazionalismo territoriale e militarismo che definisco nel mio libro 'ideologicamente ispirata da Mussolini'. Quanto all'antisemitismo che lei chiama 'da sinistra', francamente non ritengo che ci siano, oggi, segni rilevanti di antisemitismo in Europa. Altra questione è una critica del comportamento del governo Sharon".
Credo che su questo dissentiamo. Un capitolo del suo libro ha per titolo "Da Franco a Berlusconi", un altro "Da Roosevelt a Bush". America e Italia hanno avuto un ruolo importantissimo nella sua formazione. Cosa la inquieta di più nell'America e nell'Italia di oggi?
"Sull'America credo di averle risposto. In Italia mi preoccupa l'emergere di una politica di destra con connotati molto diversi dal vecchio fascismo. Berlusconi ha inaugurato un modo di governare che fa leva sull'individualismo e su tecniche di organizzazione che richiamano insieme quelle della tifoseria calcistica e delle telenovelas. Sa come muoversi in questo campo. È l'assoluta novità a preoccuparmi".
Lei si definisce un "comunista a vita". Io mi definirei un uomo di sinistra. Ma cosa significa oggi essere di sinistra? Ha ancora un senso la divisione in politica tra destra e sinistra? O le cose sono diventate più complicate, se non confuse?
"Non sono più comunista. Perché l'esperienza storica cui si riferiva quella definizione non c'è più. Ma chiaramente c'è una differenza tra destra e sinistra. Non saprei citare molti paesi in cui questa divaricazione non si pone. Può porsi in maniere differenti, ma sarebbe ridicolo concludere che non ci sia più. Essere di sinistra ad esempio è rallegrarsi per la vittoria di Lula in Brasile, considerarla un trionfo per la democrazia. Essere di destra, considerarla un pericolo per la proprietà e la stabilità politica. Potrei ovviamente continuare, ma temo che sarebbe troppo lungo in questa sede...".
Cosa pensa, da storico di professione, delle cosiddette tendenze "revisionistiche"? Non mi riferisco ovviamente alle forme più disgustose, ai negazionisti dell'Olocausto. Non c'era anche qualcosa da "rivedere"?
"Quel che mi turba è la domanda crescente di 'storia' non per accertare quel che è successo ma per giustificare qualcosa d'altro, il revisionismo di interpretazione. Non è, guardi un fenomeno solo italiano. In India stanno riscrivendo tutti i libri di storia per cancellare l'idea dell'India come società laica e pluralista, e accentuarne le radici induiste. Non è revisionismo per correggere sviste o errori, sono tentativi di riscrivere la storia in base a convenienze politiche".
Da storico, e testimone di quasi un intero secolo, quali giudizi manterrebbe più fermamente e quali considera invece come i suoi più gravi errori?
"Ho prestato troppo poca attenzione agli Stati uniti. Dovessi ricominciare da capo gli attribuirei un ruolo più centrale nei miei studi. E ho prestato troppo poca attenzione all'Asia orientale, alla Cina e al Giappone. Sull'Unione sovietica, ho già scritto che è 'crollata in modo così completo, lasciandosi dietro un tale paesaggio di rovine morali e materiali, che dovrebbe oggi essere chiaro che il fallimento era insito in quell'impresa fin dall'inizio'".