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Unità-Il riformismo che non chiude le porte-di Alberto Asor Rosa

Il riformismo che non chiude le porte di Alberto Asor Rosa Dopo gli intensi avvenimenti degli ultimi mesi, e prima di ripartire, conviene fermarsi un istante e riflettere. La manifestazione Cgil...

17/12/2002
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l'Unità

Il riformismo che non chiude le porte
di Alberto Asor Rosa

Dopo gli intensi avvenimenti degli ultimi mesi, e prima di ripartire, conviene fermarsi un istante e riflettere.
La manifestazione Cgil del 23 marzo, il raduno "girotondino" del 14 settembre e il Social Forum di Firenze, con la loro corposa, corposissima consistenza, rappresentano - soprattutto se, come io penso, siano considerati insieme - l'inizio di un nuovo processo (inedito per ora a livello europeo). Naturalmente, non sono da sottovalutare né le ricadute positive su di esso delle ossature organizzative preesistenti (Cgil e, più limitatamente, Ds) né la sovrapposizione, che s'è verificata, di certi settori dei manifestanti nelle tre occasioni richiamate.
Tuttavia, il dato significativo non è semplicemente numerico (anche se esso appare in sè imponente): è politico.
Un settore importante della società italiana si è "rivelato" - si è "manifestato", appunto - nell'unico modo in cui gli era consentito, uscendo cioè dagli schemi rigidamente prefissati dalla nomenclatura esistente del "sistema politico" attuale, sopravvissuto anche a sinistra senza mutamenti di rilievo (e ciò è davvero impressionante) alla disfatta elettorale del maggio 2001.
Una prima considerazione. In seguito il "sistema politico" non ha recepito che in limitatissima misura le suggestioni e le spinte provenienti da quei tre diversi movimenti, che se mai hanno in talune occasioni funzionato da utile argine alle vistose tendenze compromissorie tuttora presenti nel centrosinistra: ma, nelle strutture profonde della "mentalità" politica e nelle forme e pratiche attuali della rappresentanza, non è cambiato gran che. Di conseguenza possiamo tranquillamente affermare, senza nessuno spirito provocatorio e magari senza tirarne alcuna conclusione, che esiste uno spazio ampio della società italiana (alcuni milioni di persone), che sta a sinistra (ma forse, più ampiamente, nel centrosinistra), ed è sottostimato e sottorappresentato politicamente.
So benissimo che le scorciatorie sono pericolose e che passare dai movimenti all'organizzazione è sempre stato molto difficile. Però si sente continuamente ripetere che bisogna guardare al centro e rassicurare gli elettori moderati. Io vorrei suggerire di guardare a sinistra e di trovare al più presto gli strumenti per rassicurare quelli che esprimono esigenze più radicali. Non si vincono le prossime elezioni se non si affronta questo problema e non lo si risolve.
Ci sono due temi, in questo ambito, che mi sembrerebbero degni di considerazione. Lo spettro sociale, che quelle "manifestazioni" hanno evocato, è composito, ma singolarmente solidale. Al centro c'è il mondo del lavoro, rappresentato sindacalmente dalla Cgil, ma privo ormai di un definito riferimento politico: i Ds hanno scelto inequivocabilmente l'"unità sindacale", cioè hanno ricusato di "rappresentare" la Cgil, se non in quanto ciò non provoca rotture traumatiche con il quadro costituito dall'"unità sindacale" (che in questa visione è il vero valore). Ma i "ceti medi riflessivi", schierandosi a favore di certi autonomi valori politico-costituzionali (la libertà d'espressione, la separazione dei poteri, l'indipendenza della magistratura), hanno colto al tempo stesso la parentela stretta con la tematica dei "diritti" portata avanti dal mondo del lavoro e l'hanno più volte esplicitamente sottolineata. Il "quadro globale", dentro cui gli uni e gli altri si possono coerentemente collocare, evidenzia la possibilità di un nuovo "internazionalismo planetario", che del resto è l'unica prospettiva in cui si può far politica a sinistra al giorno d'oggi. Il rifiuto radicale della guerra come strumento d'approccio e di soluzione degli eventuali conflitti a livello internazionale rappresenta un ulteriore elemento di coesione all'interno dei movimenti. Lungo l'asse verticale, che corre tra le diverse anime di questo movimento e ancor più le unifica, si dispone la consistente, altrimenti impensabile partecipazione giovanile, che anch'essa fuoriesce dagli schemi della cosiddetta "politica possibile".
Dunque, qualcosa di molto più vasto, complesso e articolato di una semplice "rappresentanza del lavoro". Siamo invece di fronte ad una vasta fenomenologia di convergenze politico-culturali, non alla sommatoria di stati d'animo puramente negativi. Non vedo giacobinismi operanti al livello di massa. I "girotondi", ad esempio, sono più girondini che giacobini. Quanto agli operai vorrebbero intanto uscire dalla piatta e inerme subalternità, cui l'evoluzione capitalistica sempre più incontrollata e l'abbandono da parte della sinistra istituzionale li hanno costretti negli anni passati.
Culturalmente parlando, il tratto dominante è, se si vuole, fortemente antagonistico ma non eversivo, e neanche, classicamente, rivoluzionario. Chiarire questo punto sarebbe, a sinistra, probabilmente decisivo. Se la prospettiva non è rivoluzionaria (abbattimento e cambiamento di sistema, politico, sociale, economico), cosa resta se non una nuova forma di riformismo? Ma di riformismi che n'è di tutti i tipi: ce n'è persino uno così moderato che s'identifica col moderatismo. Dunque conviene riflettere su questo, perché su questo passa la linea di divisione anche all'interno della sinistra, e perché non si può dare rappresentanza politica a quella porzione di società italiana che non ne ha, senza rispondere a tale domanda.
La mia idea è che non si dia riformismo senza una ridistribuzione di potere - economico, sociale, politico: anzi, il riformismo è questa ridistribuzione del potere. Questa è la differenza tra riformismo moderato e riformismo radicale: il primo mette costantemente fra parentesi oppure rimanda alle calende greche questa elementare affermazione. La sinistra, quella autentica, è la parte politica organizzata che opera, per quanto è possibile, la ridistribuzione del potere a favore di chi non ne ha o ne ha meno. Nella globalizzazione la linea di tendenza del programma va spostata nel rapporto fra le diverse parti del mondo e in un diverso equilibrio di potere (appunto) a favore dei paesi e dei popoli che non ne hanno alcuno. Gli obiettivi cambiano, ma la logica resta la stessa.
Naturalmente, poiché questa sinistra, e nessun'altra sinistra, a dire il vero, possono pensare di diventare governo in questo tipo di società senza passare attraverso una serie di accordi (politici e di programma), si porrà anche il problema, non c'è dubbio, di un confronto e di un rapporto con le componenti democratiche più moderate (le quali sono anch'esse attualmente distribuite in maniera un po' disordinata sulla carta geografico-politica italiana, dai Ds alla Margherita e oltre). Anzi, voglio dirlo con chiarezza estrema, questo "passaggio di compromesso" è irrinunciabile in un processo di riorganizzazione dell'intera società democratico-capitalistica.
Ma, - e questo è un altro punto decisivo delle novità portate alla luce dalle "manifestazioni" dell'anno che sta per chiudersi, - la rappresentanza politica perduta, di cui ho cercato di ragionare, prevede e pretende una quota elevata di "consapevolezza identitaria", e cioè una restaurazione forte di valori perduti. Che è come dire che si può trattare con tutti e di qualsiasi cosa, se si sa quel che si è, quel che si vuole e chi si rappresenta. Insomma, esattamente quella parte di autocoscienza che la sinistra istituzionale ha perduto nel corso dell'ultimo decennio, immaginandosi dissennatamente di poter rappresentare il tutto, - cioè niente.
Dunque, smettiamola con questa insulsa storia di chi dice sì, e di chi dice no (ma è molto meglio dire solo sì che solo no?). Sono in campo diverse ipotesi strategiche, diverse attitudini politiche, diversi modi di far politica, diverse identità, diversi internazionalismi e, spero, diversi programmi e diversamente impostate alleanze elettorali (persino il rapporto con le forze cattoliche potrebbe, su diritti, stato sociale, legalità, neo-globalismo, essere completamente riformulato).
Nessuno sa come andrà a finire il prossimo confronto elettorale, qualora fosse affrontato con spirito e cultura diversi dal passato. Quel che invece tutti sanno è che le ultime elezioni sono state perse non dai riformisti radicali, contro i quali tanti strali si appuntano, ma dai moderati, che invece pontificano. Questo è un dato certo, storico, di cui hanno tenuto conto quei milioni di italiani che si sono messi in piazza, che si sono "manifestati", nel corso del 2002 proprio per rifiutarsi al destino di sconfitta cui li condannava quella politica.