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Unità-La ricerca non abita piu qui - di N.Tranfaglia

ricerca non abita più qui di Nicola Tranfaglia Se il mondo della ricerca è in agitazione non certo per la razionalizzazione delle istituzioni ma soprattutto per il controllo politico che il gove...

08/02/2003
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l'Unità

ricerca non abita più qui
di Nicola Tranfaglia

Se il mondo della ricerca è in agitazione non certo per la razionalizzazione delle istituzioni ma soprattutto per il controllo politico che il governo Berlusconi vuole esercitare anche su di esso, l'università vive in uno stato di crisi e disagio che dura da troppi anni. Sulla riforma degli ordinamenti didattici, secondo il modello 3+2, i pareri dei docenti e degli studenti sono ancora oggi diversi ma da un anno, in molti casi da due o tre a questa parte, negli atenei italiani si cerca di attuare quella riforma non soltanto dal punto di vista formale e nominale ma anche da quello del necessario mutamento didattico.
Perché questo possa realizzarsi è necessario che lo schema si attui al primo livello (laurea triennale) e al secondo (laurea specialistica).
Ma proprio su questo aspetto il Ministero retto dalla signora Letizia Brichetto Moratti ha esercitato un'azione instancabile di freno e blocco per evitare che le università attivino il secondo livello: le lungaggini non si risparmiano e le pastoie burocratiche esercitate in nome dell'autonomia vengono usate per evitare che la riforma incominci davvero ad attuarsi.
Soltanto in queste settimane il piano del ministro si sta rivelando per quello che è: una forte volontà di smantellare in corso d'opera il tentativo di riforma e disegnare un'università sul modello della scuola così come uscirà tra non molto dalla legge delega che sta per essere approvata in via definitiva dalla Camera dei deputati.
Intendiamoci: chi vive nell'università e ci lavora sa che quella riforma iniziata da Luigi Berlinguer nella seconda metà degli anni Novanta era stata già sottoposta a revisioni, deformazioni, contraddizioni che ne avevano depotenziato fortemente la capacità di innovazione.
Il centro-sinistra non era riuscito né ad approvare una riforma adeguata dello stato giuridico dei docenti e a varare la terza fascia dei professori, aveva approvato una legge sui concorsi universitari, d'accordo con il centro-destra, destinata a produrre effetti nefasti e ad abbassare il livello della docenza, non aveva completato una serie di punti del programma che si stanno rivelando problematici (come la riforma degli organi di governo dell'università e la mobilità dei crediti da un ateneo all'altro). Inoltre aveva fatto una serie di aperture a un modello aziendale proprio della destra e inadatto all'università pubblica.
Detto tutto questo si può aggiungere peraltro che la riforma degli ordinamenti incominciava a produrre alcuni effetti positivi e avrebbe bisogno di tempo, alcuni anni almeno, per entrare nella testa degli studenti, dei docenti e del personale amministrativo.
Ma nei giorni scorsi il ministro ha annunciato un decreto ministeriale per sostituire un nuovo schema al 3+2 che possiamo sintetizzare in questo modo: almeno sessanta crediti comuni ad ogni corso di laurea e poi una biforcazione tra due binari diversi. Il primo, professionalizzante, che porta soltanto alla laurea triennale e muore lì, magari con l'aggiunta di un master di primo livello. Un secondo più metodologico che porta invece al secondo biennio della laurea specialistica a cui si accede con un concorso a numero chiuso.
L'ossessione, l'avete capito, è sempre la stessa. Come nella scuola a dodici anni ci si divide tra chi va alla formazione professionale e chi prosegue gli studi superiori, così all'università, dopo un anno o poco più, bisogna scegliere tra il binario morto professionalizzante e quello che porta al conseguimento della laurea specialistica se si riesce ad entrare nella piccola èlite che vince il concorso a numero chiuso.
Un simile progetto si presta ad alcune obiezioni di fondo.
La prima è che intervenire con un cambiamento radicale mentre una riforma si sta faticosamente precisando e realizzando significa in una grande macchina determinare il caos: ed è quello che sanno tutti quelli che in questi anni lavorano nelle università, studenti, docenti e personale amministrativo.
La seconda è che chiudere le lauree specialistiche fissando un numero chiuso in astratto (giacché non esiste una programmazione in molti settori che possa determinare un numero concreto) è contrario ai princìpi costituzionali e contribuisce ad abbassare il livello di quelli che escono dallo studio universitario.
Per quale ragione le università che sono in grado per le proprie strutture didattiche e per la presenza di docenti qualificati dovrebbero restringere la propria offerta formativa?
La terza obiezione riguarda il rapporto tra le università pubbliche e quelle più o meno private: si vuole inserire il numero chiuso nelle pubbliche e aprire quello delle private in modo da permettere a chi ha soldi di conseguirle in queste ultime? Il sospetto viene necessariamente di fronte a un progetto con queste caratteristiche.
Un ultimo aspetto: il secondo progetto legislativo presentato dal ministro che riguarda lo stato giuridico di docenti e ricercatori di cui già alcuni giornali hanno parlato.
La lista nazionale di idonei tra i quali le università potrebbero chiamare, ci trova d'accordo anche perché riproduce una proposta che venne proprio dal mondo universitario nei primi anni Novanta che venne fatta propria dal ministro Berlinguer.
Il problema riguarda il modello tedesco che si vuol introdurre per i ricercatori futuri che dovrebbe essere di tre anni più tre al termine del quale ci sarebbe un'abilitazione decisiva per restare o per andarsene. Osserviamo intanto che il periodo è breve e che converrebbe adottare quello tedesco che è di nove anni.
E aggiungiamo un'osservazione che ci pare decisiva: le commissioni, sarebbero formate da professori italiani e dell'Unione Europea. Ma chi li nomina? A vedere quello che questo governo ha fatto nel campo della ricerca viene da pensare che le nomine siano ministeriali. Se così fosse, il controllo della docenza si realizzerebbe con poca spesa almeno per i nuovi professori.
Ma questo sarebbe un altro tratto del costruendo regime che troppi si ostinano a non vedere: ci auguriamo, dunque, che le commissioni siano elette dagli altri professori e che il governo se ne tenga rigorosamente al di fuori.