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Unità-Ritrovare le anime morte della politica

.2003 Ritrovare le anime morte della politica di Furio Colombo È molto tempo che non si incontra un film esemplare, qualcosa che abbia a che fare con noi adesso, con i giorni in cui stiamo vive...

01/06/2003
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l'Unità

.2003
Ritrovare le anime morte della politica
di Furio Colombo

È molto tempo che non si incontra un film esemplare, qualcosa che abbia a che fare con noi adesso, con i giorni in cui stiamo vivendo, come è accaduto per "Rocco e i suoi fratelli" (Visconti) al tempo dell'immigrazione dal Sud al Nord italiano, o per "Mani sulla città" (Francesco Rosi) quando un'inchiesta si è fatta cinema e ha rivelato la corruzione mentre nasceva, dando profeticamente il nome a "Mani pulite".

Credo che questo dono raro del cinema, il preannuncio, si sia appena verificato con un film inglese. Intendo parlare di "Tutto o niente" di Mike Leigh. È ancora in giro, è ancora possibile andare a vederlo e suggerisco che vi si rechino tempestivamente alcuni di noi militanti della sinistra. Per esempio coloro che esitano ad alzare la voce perché pensano che siamo sempre alla presenza delle massime autorità dello Stato e che la buona educazione sia la madre di tutte le politiche. Coloro che credono che sia opportuno mantenere viva e fresca la conversazione con "loro" anche dietro le quinte, anche con partecipazioni dirette e indirette nei migliori talk show televisivi, perché quello che conta è il filo del buon vicinato. Non siamo tutti parte di un grande condominio? E coloro che negano senso e valore e peso politico al voto locale, come se scegliere la Beccalossi invece di Corsini per guidare la città di Brescia fosse un lieve ritocco di tipo amministrativo invece di una scelta di vita; come se la presenza dell'ex sindaco razzista di Treviso Gentilini, che adesso vuol tornare a governare con la finzione di fare il pro sindaco, fosse un normale "optional" nella vita morale e sociale di quella comunità.
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Perché ritengo che vi sia una rivelazione che ci interessa tutti nel film di Mike Leigh? Proverò a spiegarlo.

Siamo in Inghilterra, ai giorni nostri. Siamo in una Londra - o Manchester o Liverpool - relativamente moderna, dove il lavoro è precario, dove le case popolari sono state progettate con qualche piccola pretesa (la finzione di abitare su due piani come in una villetta, con l'espediente di dotare ciascun appartamento di una piccola scala interna, una stanza sotto e una sopra) dove i cortili erano stati progettati come giardini, poi, forse, sono venuti meno i fondi per la manutenzione, dove i graffiti che invadono ogni spazio agibile e ogni ascensore non rappresentano necessariamente le oggettive condizioni di vita (che non sono allegre ma neppure disperate), piuttosto il modo in cui gli abitanti vedono la loro vita: bloccata, inutile.

Ciò che genera angoscia in questo film, è che non fa differenza se sei "dentro" (in famiglia, in casa) o sei "fuori" (in strada, al lavoro). Ti senti comunque perduto, come abbandonato in mezzo ad un oceano. E persino la televisione è quello che è, sempre accesa per fare rumore, ma non è né bella né brutta, desiderata o respinta. È solo un dato di un paesaggio inerte.

Gli uomini delle famiglie che vediamo di mestiere guidano taxi. E qui si capisce che, in un mondo tutto flessibile, non c'è protezione di nessun tipo. Corri la stessa avventura di un imprenditore: se ti alzi alle cinque del mattino lavori di più che se resti due ore di più a letto. Ma è il risultato (qui si chiama salario) che, alla fine, non cambia e rimane irrisorio, perché è bloccato da costi (tipo l'affitto dell'auto, e l'assicurazione) che crescono in un altro mercato, e che su di te si riversano come una scure. E allora gli uomini sono tristi, le mogli deluse (con qualche crisi di nervi, più da panico che da clinica), i figli non ti rispettano, perché non rispettano niente. Ma soprattutto, questa è la rivelazione, non aspettano niente.

Sono inerti - a parte qualche breve slancio fisiologico, qualche povera trasgressione di droga - come gli adulti, come il paesaggio. Il problema non è tanto che non c'è niente per loro. Il problema è che non ci sarà mai niente, ed è questo che rende il film intollerabile. La vita è un muro. Tutto quello che puoi fare è ricoprilo di graffiti. Poi ti intristisci per come è brutto e sporco, e comunque devi viverci accanto.

In questo strano modo di esistere, neppure la malattia è un percorso di fuga. L'espressione "qui non si va da nessuna parte" , va presa alla lettera, ti dice il regista di "Tutto o niente".

Qui vivono le anime morte che la parte benestante del mondo sta accumulando ai piedi della crescita vertiginosa e incontrollata di nuove ricchezze prive di limiti, di scrupoli, di controlli.

Questo tetro giardino, però, non è, come ai tempi di Dickens, il frutto marcio e amaro della cattiveria dei ricchi. Questo è il pauroso vuoto della politica. Questa è gente che la politica ha abbandonato del tutto, come un mare prosciugato da cui sono stati ritirati progetti, programmi, ideali, militanza, partecipazione. Nessuno si alzerà per votare da quei divani sdruciti in cui si abbandonano, con lo stesso senso di inerzia, coloro che vanno a lavorare e coloro che non ci vanno.

Qualcuno ricorda la profezia del sociologo americano Oscar Lewis? I suoi studi riguardavano la povertà, e qui il problema non è la povertà, è il vuoto. Ma ciò che aveva detto funziona ancora: "Non appena l'impegno politico entra nella vita, un emarginato non è più un emarginato, è qualcuno che partecipa a un cambiamento".

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Come mai se n'è andata la politica? Poiché stiamo parlando dell'Inghilterra contemporanea, e non della signora Thatcher (i film del suo tempo erano arrabbiati, non rassegnati), poiché stiamo parlando dell'Inghilterra di Blair, la ragione di allarme è particolarmente viva.

I protagonisti del film di Leigh sembrano dirci: "È tutto qui? È questa la vita?". La domanda diventa subito esistenziale perché non è intercettata da alcun altro argomento pratico, organizzativo, sindacale o politico. Chi ha smesso di portare qui la politica, quando, perché?

È accaduto un improvviso rovesciamento di vitalità e di motivazione, un fenomeno che - negli Stati Uniti - si è manifestato più chiaramente e clamorosamente che altrove, con l'irruzione sulla scena dei "neoconservatives".

I nuovi conservatori sono, a dispetto del nome, portatori di una rivoluzione. Si battono per la ricchezza infinita. Per averla bisogna togliere, togliere, togliere, bloccare accessi, eliminare resistenze, controllare le notizie, liberarsi da fastidiose interferenze e controlli. Come in tutte le rivoluzioni, molti si battono e pochi sono destinati alla nuova ricchezza. Ma quei pochi toccano livelli di distanza dalla media degli altri cittadini che, nel mondo, non erano mai stati raggiunti.

Frazioni minime di persone controllano ricchezze secondo percentuali in cui diminuisce costantemente il numero dei partecipanti e si impenna vorticosamente la distanza dal basso. In questa rivoluzione non serve lo Stato, e viene disprezzato ogni intervento che non sia guadagno o vantaggio o profitto delle posizioni personalmente e privatamente espugnate.

I nuovi conservatori vengono avanti con irruenza e senza scrupoli, portatori di robusti interessi, usano la politica come strumento, insieme con le comunicazioni, la pubblicità e ogni forma di compra-vendita di cose e persone. Li guida il motto: "Ho molto, voglio di più".

Ad essi si contrappongono coloro che cercano di salvare (conservare) brandelli di Stato, e il ricordo di tempi in cui non si poteva dire "negro" e ammazzare l'intruso con il plauso sociale. Difendono brandelli di diritti, ma con molti distinguo, per non essere scambiati per comunisti. Adottano un linguaggio cauto, per paura di non essere abbastanza moderni.
Che cosa sia la modernità lo hanno stabilito i nuovi conservatori, perché ne hanno la forza e l'apparato pubblicitario e una felice mancanza di pudore che favorisce l'esibizione, la prepotenza, il successo.

La modernità dei nuovi conservatori impone un uso nuovo del linguaggio. Si chiamano conservatori - e dunque dicono senza imbarazzo di essere moderati - coloro che sventrano lo Stato, gli interessi e i beni pubblici, svendono i beni culturali e i monumenti. Si chiamano conservatori e moderati coloro che smontano la sanità e chiudono le scuole e privatizzano ponti e strade allargando e imponendo sempre più lo spazio della iniziativa e del vantaggio di pochi.

È molto moderno che chi lavora guadagni poco, che il lavoro non abbia alcuna protezione e garanzia, che la continuità sia una illusione, che chi lavora debba tentare di ottenere la salvezza del posto attraverso la mitezza che sarà capace di dimostrare o la protezione che con il suo comportamento si potrà meritare, attraverso "patti" imposti che convengono a una parte sola.

Il capolavoro è il rovesciamento: una vertiginosa corsa all'indietro, verso una moralità e una concezione della vita pre-capitalistica. E, insieme, lo slancio sfacciato, coraggioso, rivoluzionario, con cui il rovesciamento viene realizzato.
Gli altri, che siano la sinistra o i progressisti, o i riformisti, sono colti di sorpresa. C'è chi si inchina ad ammirare tanta vitalità e pensa che sia bene imitarla. C'è chi vuole almeno essere accettato, a furia di rinunce e di abbandono di princìpi, nel cerchio della modernità. C'è chi non vuole essere escluso dalla luce dei media, che adesso è tutta nelle mani dei nuovi conservatori e del loro uso spregiudicato della notizia e cerca un linguaggio e un comportamento che lo renda accettabile.
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Ora torniamo sui divani sdruciti in cui si sono buttati, fra un programma Tv e l'altro, fra inutili ore di cattivo lavoro e inutili ore di squallido riposo, i protagonisti del film "Tutto o niente" di Mike Leigh. Forse è un film di fantascienza. Forse quell'Inghilterra dei nostri giorni e dei tempi di Blair, non esiste, forse è solo il cupo avvertimento di ciò che potrebbe accadere se si perdessero di vista il livello di vita, di garanzie, di diritti a cui siamo arrivati. Forse è ciò che accadrebbe se - in un momento di smarrimento - immaginassimo che si possa giocare un gioco così arbitrario della presunta modernità, definita secondo gli esclusivi interessi di altri. Oppure il film è un documento duro e realistico di un Paese europeo ai nostri giorni.

In quel caso saremo orgogliosi di dire: meno male, non siamo noi. Noi non avremmo mai abbandonato tutta quella gente sola, nel vuoto, su un divano. Meno male, qui le condizioni della lotta saranno difficili, ma la politica c'è ancora e c'è ancora il legame fra partiti e persone. Le persone, a volte, vengono chiamate movimenti. Succede quando, persino da sole, si organizzano e si fanno sentire. Se accadesse nel film di Mike Leigh tutto sarebbe diverso. Protagonisti e comparse smetterebbero di essere zombi, tornerebbero a sentirsi vivi e ad avere una ragione per alzarsi e parlare.

La politica comincia (o ricomincia) in quel punto. I nuovi conservatori non la vogliono. Vogliono ubbidienza e silenzio. Ecco una buona ragione per non tacere.