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Unità: «Se chi governa sta tra la gente, sa cosa dire»

TULLIO DE MAURO

29/11/2006
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l'Unità

Il linguista: il gruppo dirigente del paese mantenga un rapporto costante con la gente, e troverà le parole giuste. Ma denuncia: solo il 30% è capace di leggere libri e giornali. I politici si facciano carico di sanare il semialfabetismo collettivo. Sostenendo la scuola ma anche l’istruzione permanente

La comunicazione politica, il linguaggio di questa sinistra. Un certo disincanto dell'elettorare che ha votato Prodi e che forse si aspettava delle risposte più rapide e incisive. Negli ultimi giorni, con il varo della Finanziaria, le uscite di Prodi, e la compattezza della maggioranza, le cose sono molto cambiate. Ma rimane il fatto che c'è ancora molto da fare, ma soprattutto c'è un linguaggio della sinistra di Governo, che va rifondato e ridiscusso. Lo facciamo con Tullio De Mauro, che è il più grande linguista italiano, uomo di sinistra, e ministro della Pubblica Istruzione,tra il 2000 e il 2001.
Il governo Prodi, nato tra molte difficoltà di coalizione, è stato quasi da subito accusato di non avere una comunicazione brillante ed efficace. È vero?
«Per la verità le accuse sono cominciate da prima, dalla lettura del programma elettorale dell'Unione. Un programma ampio e dettagliato pensato per vincolare le assai diverse componenti. Già in quella fase si è trascurato che non si trattava solo di formulare patteggiamenti tra i diversi gruppi dirigenti contraenti, ma di rivolgersi a un elettorato che desiderava capire, dati i patteggiamenti, gli obiettivi dell'Unione».
Questa fase è mancata?
«In larga misura il governo, una volta costituitosi, ha continuato su questa strada, con poche eccezioni».
Ad esempio?
«Bersani, a tratti, e Rosy Bindi».
Quanto ha pesato sul linguaggio della politica l'era Berlusconi? Dal populismo berlusconiano si può tornare indietro oppure i codici della comunicazione politica sono diventati quelli di Berlusconi?
«No, credo di no. La sicurezza e l'abilità che Berlusconi ha avuto, fin dalla sua prima "discesa in campo", nello scegliere in che modo proporsi agli elettori, i dirigenti di altri partiti, con più vincoli da fronteggiare, non le hanno avute e non riescono ad averle. Il problema è non è già raccontare favole allettanti, nascondendo i problemi, ma, senza ignorare l'analisi delle contraddizioni di un paese diviso e complicato, indicare con chiarezza vie d'uscita da percorrere. Non è facile, ma non è impossibile. Se un gruppo dirigente si alimenta di un continuo rapporto con la gente, se pratica più i tram, i treni e le strade, e meno le auto blu o le sale vip, trova anche le parole giuste. Posso dire una cosa?»
Dica pure...
«Ho guardato con affetto e simpatia a Walter Veltroni da quando era un "figicciotto". Ma la simpatia è diventata ammirazione quando lui, vicepresidente del consiglio , girava tranquillamente con la moglie e le figlie per le strade del suo quartiere di Roma. Attenzione: non sto predicando i "bagni di folla" programmati e ostentati, ma la capacità di non perdere i contatti con la gente. È la precondizione di un buon esercizio delle responsabilità pubbliche».
Va bene evitare i bagni di folla. Ma come può Prodi investire su una comunicazione a "bassa intensità"? Asciutta, "ecologica" persino, opposta a quella ridondante del centrodestra?
«Anche Prodi va a spasso con la moglie per le vie di Bologna. Sa che le persone amano i discorsi concreti. Credo che faccia bene a cercare una comunicazione dimessa, ma forse ha passato troppo tempo in mezzo a tecnocrati sospesi nel vuoto, a Bruxelles, e questo appesantisce il suo modo di parlare. Quando si libera di questa perversa influenza spesso ha uscite banali e infelici, usa troppo parole come pazzia e derivati».
Ecco il grande linguista. La comunicazione politica della sinistra ha sempre avuto un lato leaderistico, emotivo e persino carismatico. Da un certo momento in poi si è misurato il leaderismo di sinistra solo in questa chiave. Anche con Prodi si è fatto questo gioco. È giusto, o è una malattia infantile della sinistra?
«Mah. I dirigenti della Dc, del Pci, dei grandi sindacati non piovevano dall'alto. Tra parrocchie e circoli e scontri da una parte, tra contrasti anche assai aspri dall'altra, stavano con i piedi in terra, e in qualche caso, in Sicilia per esempio, nella fanga. Si selezionavano tra loro e in mezzo a queste realtà. Alcuni la conoscevano letteralmente palmo a palmo: un esempio per tutti Fernando Di Giulio, abilissimo nelle trattative parlamentari, ma che di ognuna delle borgate romane poteva dirti da che paesini dell'Abruzzo, del Lazio e del Sud venivano gli abitanti, e di ogni paesino svuotato sapeva dove erano migrati gli antichi».
Beh, ma non era sempre così. Non era Pajetta a dire che Enrico Berlinguer "si iscrisse giovanissimo alla Segreteria nazionale del Pci"?
«Sì, ma era un'eccezione. Ed era quasi vero, per 20 anni e più Berlinguer dovette fare i conti con dirigenti che venivano dalle sezioni e dalle Case del Popolo. Imparò da loro non solo a parlare. Così nascevano i leader carismatici. Da Di Vittorio a "Enrichetto" il carisma se l'erano guadagnato sul campo. Non paia blasfemo. ma anche Berlusconi cerca di presentarsi come uno che questa lezione l'ha ben appresa, uno che viene dal basso. Attaccarlo per questo mi pare sbagliato: è un suo grande punto di forza».
Tu pensi il governo Prodi non è riuscito a trovare un linguaggio alternativo a quello di Berlusconi però ugualmente attraente?
«Sì, con le eccezioni che ho detto, cui aggiungerei volentieri altre donne capaci di comunicare con efficacia anche su terreni impervii: Livia Turco, Anna Finocchiaro, Giovanna Melandri. Sono in grado di centrare i problemi e spiegare sobriamente, senza arzigogoli o trombe, come ritengono che siano risolvibili e, poi, di agire con coerenza e di conseguenza».
Un tempo si diceva che la sinistra aveva delle parole d'ordine. La prima, forse. è “cultura”. Pensi che sia all'ordine del giorno?
«I temi della cultura sono in questo momento nel cono d'ombra».
E l'istruzione? Tra le priorità dovrebbe essere la prima...
«Effettivamente fu dichiarata tale da Prodi e da Veltroni nella campagna elettorale del 1996 e poi all'inizio del primo governo Prodi. Per motivi non chiari sembra dimenticata, nonostante le prove positive del ministro dell'istruzione, Fioroni. Il fatto è che cultura e scuola, nel nostro paese, non sono fatti settoriali, di competenza di un ministro, magari bravo».
In che senso?
«Non soffro, credo, di deformazione professionale. Non solo linguisti o "scuolologi", ma molti economisti - cominciare da Nicola Rossi e dalla sua remota raccolta di studi L'istruzione: solo un pezzo di carta? (Il Mulino, 1993), fino ai più recenti studi di Tito Boeri, Luigi Spaventa, Daniele Cherchi, Attilio Stajano, ricercatori dell'Ufficio Studi della Banca d'Italia - hanno spiegato e spiegano bene che la stagnazione italiana, economica e produttiva, è "di lungo periodo". Risale agli anni 90 e peggiora perché i deficit di istruzione rendono impari il nostro paese alle esigenze dello sviluppo e, si può temere, della sopravvivenza come paese con un buon livello di benessere. Linguisti e sociologi seri possono aggiungere alla aspra diagnosi ancora qualcosa. Vedi, da un anno sono pubblici i risultati di una terza indagine comparativa internazionale, sul campo, promossa dall'ufficio canadese delle statistiche educative».
E cosa dicono questi dati?
«In molti paesi è stato studiato il livello di "literacy" della popolazione tra i 14 e i 65 anni. L'editore Armando ha pubblicato i dati italiani in Letteratismo e abilità per la vita, curato da Vittoria Gallina. Mi piacerebbe che giornalisti, intellettuali e "decisori" politici e sociali leggessero questi dati».
Anticipiamoli ai nostri lettori.
«Il 5% degli italiani non sanno decifrare lettere e cifre. Un terzo decifra brevi frasi e semplici numeri, ma a fatica. Un altro terzo fatica tanto, nel leggere, che con pio eufemismo viene definita "a rischio di illetteratismo", cioè di analfabetismo. In larga misura ssono persone che hanno non solo la licenza elementare o media, ma anche titoli superiori, e che dallo stile di vita dominante sono stati spinti a non saper più leggere una pagina, un grafico, una tabella».
Ma è un disastro...
«Tra tutti i paesi sviluppati, l'Italia è l'unico ad avere una percentuale così miserevole, circa il 30%, di persone capaci di utilizzare l'informazione scritta, di leggere senza fatiche improbe giornali o libri. La massa enorme di non leggenti pesa negativamente sul destino scolastico dei figli e sul lavoro che la scuola fa in solitudine. L'intera classe dirigente, non solo i politici, dovrebbe vedere nell'uscita dal semianalfabetismo collettivo una condizione preliminare di sviluppo. La scuola ordinaria dovrebbe essere integrata da una decente istruzione permanente degli adulti. Su 8000 comuni e passa abbiamo solo 2000 biblioteche comunali e di pubblica lettura».

roberto@robertocotroneo.it
di Roberto Cotroneo