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Unità-Tagliano soldi e libertà

Tagliano soldi e libertà di Nicola Tranfaglia Le crisi dell'università e della ricerca scientifica in Italia sono così gravi che bisognerebbe parlare con minore superficialità di quanto sta av...

09/12/2002
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l'Unità

Tagliano soldi e libertà
di Nicola Tranfaglia

Le crisi dell'università e della ricerca scientifica in Italia sono così gravi che bisognerebbe parlare con minore superficialità di quanto sta avvenendo. Il ministro Moratti, partecipando qualche giorno fa a Roma a un seminario indetto dalla Confindustria, è riuscita in mezzora a non dire nulla di concreto. Il presidente del Consiglio Berlusconi ha disertato il seminario e i leader di governo e di opposizione hanno lasciato la sala subito dopo aver ascoltato le parole generiche e beneauguranti della signora Bricchetto Moratti. Eppure le cose vanno davvero male per ragioni complesse, vicine e meno vicine. Le cifre parlano da sole.
Il fondo di funzionamento ordinario delle 76 università in gran parte pubbliche del Paese era già sceso lo scorso anno a 6200 milioni di euro, i rettori hanno chiesto per il prossimo anno accademico 6600 euro dovendo sborsare 490 milioni di euro per aumenti stipendiali, ma la Finanziaria del 2003 già approvata dalla Camera prevede 6000 milioni. Le risorse per il diritto allo studio, che nel 2001 erano di duecento milioni di euro, sono previste per il prossimo anno intorno a cento milioni, come già l'anno scorso. Le risorse per l'edilizia universitaria che nel 2001 erano di oltre quattrocento milioni, sono scese quest'anno a duecento e poco più di duecento saranno anche quelle per il prossimo anno. Il fondo ordinario per gli enti di ricerca - che era di 1590 milioni nel 2001 e che era di 1570 quest'anno - sarà di 1550 il prossimo anno.
La spesa complessiva per la ricerca passa dai 2320 milioni del 2001 ai 2280 del 2002 e ai 2210 dell'anno prossimo: una percentuale dello 0,8 per cento sul Pil che ci colloca agli ultimi posti del continente accanto a Paesi europei lontani da noi per condizioni economiche e culturali.
Accanto a queste cifre, che indicano come il governo Berlusconi non abbia mantenuto le promesse fatte ai suoi elettori e agli italiani ma, al contrario, abbia attuato una politica tesa a strangolare la ricerca e il funzionamento delle università, si sta realizzando il progetto berlusconiano, seguito scrupolosamente dal ministro dell'Università, di privatizzazione dell'istruzione superiore e di annullamento del diritto costituzionale che all'articolo 33 prevede la possibilità per gli studenti capaci e meritevoli di proseguire gli studi giacché, bloccate le assunzioni e i concorsi per ricercatori, si prosegue a trasformare le università in fondazioni di diritto privato o alla loro soppressione se questo non sarà possibile, non si é dato corso a fissare l'accesso alle professioni con i nuovi titoli di studio, infine si é trasformata in università la Scuola superiore dell'Economia e della Finanza alle dirette dipendenze del ministro Tremonti, creando un canale governativo di reclutamento dei professori.
A questo si aggiunge una campagna, lanciata dal Governo, di denigrazione costante e volgare di attacco all'università pubblica, nulla facendo per correggere la legge 210 del 1998, votata insieme dal centro-sinistra e dal centro-destra, sui concorsi universitari che ha sostituito ai criteri meritocratici quelli del più spinto localismo e della promozione per anzianità.
Dimenticavo che é stata introdotta una deroga all'aumento delle tasse e dei contributi degli studenti e che gli atenei, di fronte alla diminuzione massiccia dei fondi per il funzionamento, dovranno scegliere tra l'aumento delle tasse e il relativo conflitto con gli studenti e il proprio fallimento.
Mentre il panorama complessivo appare, su tutti i piani, sempre più oscuro, il gruppo di lavoro ministeriale coordinato dal rettore della "Luiss" Adriano De Maio, sta preparando un disegno di legge sullo stato giuridico dei docenti che prevede la precarizzazione dei futuri ricercatori per quindici-vent'anni prima di raggiungere all'ultimo gradino della ricerca il contratto a tempo indeterminato.
Una traduzione letterale, a quanto pare, del modello americano che avrebbe certo il vantaggio di selezionare di continuo i docenti universitari, ma che non sembra tener conto delle condizioni assai differenti del mercato del lavoro italiano ed europeo rispetto a quello americano e che lascia agli organi accademici, opportunamente integrati e influenzati da esperti del Governo, la decisione finale tra la prosecuzione del cammino e il licenziamento.
In questa situazione é in atto nelle università un forte ripensamento della riforma degli ordinamenti didattici battezzata come tre più due. Né c'é da stupirsene, visto che quella riforma, nata nel quinquennio del centro-sinistra, con l'esigenza di raggiungere un numero più alto di laureati e di adeguare un'università che restava a tutti gli effetti un'istituzione di élite alla nuova realtà dell'università di massa, creata nel 1969 con la liberalizzione degli accessi, ha trovato l'opposizione di una parte non piccola dei professori, abituati a coniugare il proprio ruolo con molti altri mestieri, ignari (?) dell'impegno didattico richiesto ai loro colleghi in Europa e negli Stati Uniti, e lo sconcerto per l'assenza di altre riforme indispensabili.
Ma quel che conta di più è l'aggravarsi della crisi provocato dalla mancanza di riforme efficaci dell'istituzione universitaria e dalla diminuzione generalizzata delle risorse per la ricerca. Si tratta di una tendenza che non ha eguali nel nostro continente e che aggrava con progressione geometrica il relativo disinteresse di tutta la classe politica italiana, con poche eccezioni, per il nesso ormai indiscusso tra l'istruzione superiore e la ricerca e lo sviluppo economico del Paese. È un errore centrale nella politica populista e classista (parola che sembrava desueta ma che occorre rispolverare di fronte al probabile aumento delle tasse e alla diminuzione dei fondi per il diritto allo studio) del governo di centro-destra e che fa giustizia di fronte a tutte le dichiarazioni del presidente del consiglio e dei suoi ministri sull'elogio dell'Europa e della competizione internazionale. Siamo di fronte a un deficit di cultura istituzionale e del pubblico interesse che assomigliano più a Pêron che alla Thatcher