Iscriviti alla FLC CGIL

Home » Rassegna stampa » Rassegna stampa nazionale » Unità: Una società immobile E il figlio dell’operaio non diventa dottore

Unità: Una società immobile E il figlio dell’operaio non diventa dottore

L'Italia in panne

15/01/2009
Decrease text size Increase text size
l'Unità

Gian Carlo Bruno
A una recente riunione dei giovani imprenditori di Confindustria un giornalista chiese a un partecipante un commento sulla quantità di auto di lusso nel parcheggio del centro congressi dove il convegno aveva luogo. Nell’immaginario del grande pubblico i simboli hanno un ruolo importante e ignorarne l’influenza sarebbe miope. L’intervistato rispose con disinvoltura e non senza una certa sensibilità politica dicendo che remunerare/premiare il capitale investito, il rischio assunto e il lavoro svolto è alla base del funzionamento dell’economia: togli l’incentivo e la motivazione a rischiare e lavorare nella speranza di un ritorno corrispondente e le attività economiche perdono vitalità e dinamismo. Quello che però questo imprenditore dimenticò di dire è che per essere efficaci questi incentivi non possono essere offerti soltanto agli incombenti (cioè a coloro che fanno parte delle élites con relazioni e capitali famigliari), altrimenti l’economia ne soffre e la ricchezza prodotta dal sistema si riduce. Lo scopo di questo articolo è dimostrare perché.
Secondo il Censis nel periodo 1998-2006 si è registrato un aumento dell’emigrazione di diplomati e laureati italiani verso gli Stati Uniti del 47,9% e di lavoratori con visto temporaneo (tipicamente i giovani «in cerca di fortuna») del 62,1%. Questo dato è sorprendente perché dimostra come la speranza di realizzare il proprio talento, di crescere personalmente e professionalmente, di «fare successo», è tanto in caduta libera nel Paese che i ragazzi più coraggiosi e più intraprendenti partono per la mecca del sogno realizzabile. È interessante notare come le parole «intraprendente» e «imprenditoriale» abbiano la stessa radice: chi è intraprendente, chi vuole diventare imprenditore, lascia l’Italia perché scoraggiato dalle difficoltà immense che il sistema economico italiano presenta quasi per definizione a quelli che non fanno parte delle classi privilegiate.
Purtroppo questi giovani, una volta partiti, non contribuiscono più al progresso del Paese – e sono proprio quelli che avevano il talento e la capacità di farlo. Questa selezione naturale al contrario sta rendendo la classe dirigente italiana sempre più anemica.
Perché i giovani in gamba non restano in Italia o comunque si rassegnano a posti di lavoro noiosi e poco rischiosi/remunerati? I giovani italiani non sono più stupidi degli altri. Prendono decisioni in base alle opportunità che trovano e al clima economico in cui operano. Può essere utile esaminare come la società italiana si è evoluta in termini di classi e ceti sociali nei decenni più recenti. Dopo la «cetomedizzazione» degli anni 50, 60 e 70 che ha visto le classi operaie (sia agricole che industriali) ridursi enormemente in favore delle classi borghesi urbane (piccola e media soprattutto), l’evoluzione della società italiana sembra essersi fermata, «congelata» in una foresta pietrificata di chi è dentro è dentro e chi è fuori è fuori. Il ritratto della società italiana oggi dice che il 31% aveva cambiato classe sociale da padre a figlio grazie alla vecchia cetomedizzazione, il 12% ha vissuto una mobilità a corto raggio (si è mosso per esempio da piccola a media borghesia), mentre il 40% è assolutamente immobile (di questo 40% la metà sono operai, come «condannati» a restare operai da una generazione all’altra per una sorta di asservimento feudale alle macchine). È interessante notare come, mentre la borghesia imprenditoriale non ha problemi a trovare lavoro ai propri figli (il 70% di loro trova lavoro immediatamente dopo gli studi), la borghesia intellettuale (professioni liberali, insegnanti etc) non vanta la stessa capacità di «piazzare» i propri figli. Se ne deduce che i figli degli imprenditori vanno a lavorare nell’azienda di famiglia o vengono collocati grazie alle relazioni dei genitori presso aziende partner, o clienti o fornitori – la rete di sicurezza che tiene fuori il merito a vantaggio della perpetuazione della stessa élite.
È ormai chiaro che le società che perpetuano la loro classe dirigente a discapito di chi ha le capacità di assumere posizioni di responsabilità ma non le relazioni per farlo si auto-condannano al declino. Società più lungimiranti di quella italiana capiscono che è nel loro interesse coltivare i talenti e che dare opportunità di crescita a chi ha le carte in regola per usarle al meglio è nell’interesse della società stessa. La risposta che si dà nel mondo anglosassone alla mancanza di meritocrazia è l’istruzione, che viene vista come volano di creazione di opportunità. Investire nell’istruzione è il modo più efficace per garantire a chi ha talento e sa impegnarsi di arrivare a posizioni di responsabilità. In Italia l’accesso alle università è largamente riservato ai figli delle classi più alte, e spesso diventa più una camera di decompressione dalla disoccupazione che uno strumento di accesso alle opportunità. Mentre è vero che in generale chi ha titoli di studio più alti sembra avanzare più facilmente, è confermato che è anche vero il contrario: chi ha studiato ha successo, ma ha studiato e ha successo perché appartiene a una classe privilegiata. Diventa quindi difficile capire se il successo dipende dall’istruzione o dall’appartenenza alla classe sociale più alta. In un sistema economico basato sulle relazioni come quello italiano la tentazione di vedere la seconda ipotesi come più probabile è molto forte. Nemmeno le università eccellenti sembrano essere in grado di superare le relazioni famigliari in termini di creazione di opportunità e di accesso a posizioni di responsabilità in un Paese dove il 44% degli architetti ha un figlio architetto, il 42% degli avvocati passa lo studio e i clienti ai figli, lasciando gli altri laureati in legge a sgobbare su pratiche e fotocopie, il 41% dei farmacisti passa il negozio e la licenza ai figli mentre gli altri laureati in farmacia fanno i commessi, e così via. E paradossalmente questo non è una buona notizia nemmeno per i privilegiati rampolli dalla vita facile: sanno che per «stare bene» devono fare il lavoro del padre, che gli piaccia o no. E dovranno per sempre essere grati al padre e stare attenti a non farlo arrabbiare cercando di fare qualcosa che gli interessa lasciano perdere la miniera d’oro di famiglia. Il prezzo da pagare per non piangere è morire di noia.
L’elemento curioso della mancanza di mobilità della società italiana infatti non è nemmeno tanto il fatto che i figli delle classi inferiori non possono avanzare verso classi più alte e quindi rinunciano a provarci, ma, molto più grave, è che i figli delle classi privilegiate non hanno incentivi a impegnarsi. Indipendentemente dalle loro capacità, istruzione e qualità personali, la rete di relazioni, di appartenenze a corporazioni, di accessi a oligopoli e privilegi assicurano il loro successo economico e sociale. L’impoverimento di vigore e di motivazione della classe dirigente sono ancora più pericolosi per la società della mancanza di opportunità per i non privilegiati. L’Italia ha uno dei più bassi tassi di mobilità verso il basso d’Europa – nel Paese dei figli d’arte i ricchi non piangono mai. Questo, se da un lato è semplicemente ingiusto da un punto di vista morale, come ha sottolineato anche il Presidente Napolitano nel discorso di fine anno, ha conseguenze pesanti per la produzione di ricchezza e quindi per la prosperità del Paese.
Mentre questi fenomeni sono ben noti a tutti, e altrettanto note sono le conseguenze per la società italiana, non sembra che ci sia ancora la volontà politica di «fare leva sulle più vive energie». Una riforma sostanziale dell’università (meno gratuità per i ricchi pigri e più borse di studio per i meno abbienti meritevoli, con numeri chiusi ed eccellenza), del mercato del lavoro (più flessibilità all’uscita e quindi più flessibilità all’entrata per carriere più dinamiche e meno determinate dal lavoro del padre), delle professioni liberali (abolizione o riforma radicale degli ordini professionali) sono solo l’indispensabile e urgentissimo inizio per scardinare ingiusti privilegi e permettere a quelli che hanno la stoffa per farlo di condurre il Paese verso un futuro meno ingiusto e mediocre. Alla società italiana serve un buon pianto e la voglia di guardare avanti con fiducia.