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25 aprile 2020: video lezione di Miguel Gotor

L’autore de “L’Italia nel Novecento. Dalla sconfitta di Adua alla vittoria di Amazon” legge per noi dei brani tratti dal suo libro.

25/04/2020
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Da Miguel Gotor, L’Italia nel Novecento. Dalla sconfitta di Adua alla vittoria di Amazon, Torino, Einaudi, 2019, pp. 146-148 e 153-155

italia-nel-novecento-2L’intrinseca moralità della Resistenza sul piano storico deriva dal fatto che quei giovani combatterono non soltanto per la propria libertà, ma anche per quella di chi era contro di loro e di quanti, la maggioranza, scelsero di non schierarsi. Lo ricordò l’azionista Vittorio Foa, che aveva trascorso otto anni in prigione sotto il regime, la volta che incontrò il fascista Giorgio Pisanò, divenuto nel dopoguerra senatore del Msi. Il reduce di Salò propose all’intellettuale e politico antifascista una pacificazione fondata sull’equiparazione delle ragioni delle parti in lotta sul piano politico, civile e morale perché «in fondo eravamo tutti patrioti e ognuno di noi aveva la patria nel suo cuore». Ma Foa lo interruppe e affermò: «Un momento. Se si parla di morti, va bene. I morti sono morti: rispettiamoli tutti. Ma se si parla di quando erano vivi, erano diversi. Se aveste vinto voi, io sarei ancora in prigione. Siccome abbiamo vinto noi, tu sei senatore e questa è una differenza capitale».

Per spiegare l’articolazione di un fenomeno complesso come la Resistenza bisogna considerare che molte bande partigiane si aggregarono in modo casuale in quanto i loro aderenti non avevano motivazioni ideologiche definite, bensì un carattere soprattutto generazionale, essendo giovani ribelli nati ed educati sotto la dittatura. Molti sbandati si unirono ai partigiani perché non sapevano dove andare e cosa fare della loro vita, mossi da un generico ideale di rigenerazione del Paese, un astratto furore che coincideva con la volontà di cambiare la propria esistenza. E soltanto nel fuoco della lotta, con l’ombra della morte affianco, avrebbero trasformato la loro personale resistenza esistenziale in una nuova coscienza politica.

Come scrisse, nel maggio 1944, Dionisotti «ora il gioco è finito [...] Così lo spazio si stringe e da una parte o dall’altra bisogna morire. Anche il diritto alla vita, una volta che sia stato messo in questione, o negato, non regge più che sulla forza».

Per vivere bisognava morire, per sopravvivere occorreva combattere. In tanti avrebbero lasciato la pianura per salire in montagna sospinti da un «vento urlante e ubriacante», come quello che soffiava alle spalle del «Partigiano Johnny», il protagonista del libro di Beppe Fenoglio, il più grande romanzo finora scritto sulla Resistenza italiana: «Partì verso le somme colline, la terra ancestrale che l’avrebbe aiutato nel suo immoto possibile, nel vortice del vento nero, sentendo com’è grande un uomo quando è nella sua normale dimensione umana. E nel momento in cui partì, si sentì investito – nor death itself would have been divestiture – in nome dell’autentico popolo d’Italia, ad opporsi in ogni modo al fascismo, a giudicare ed eseguire, a decidere militarmente e civilmente. Era inebriante tanta somma di potere, ma infinitamente più inebriante la coscienza dell’uso legittimo che ne avrebbe fatto. Ed anche fisicamente non era mai stato così uomo, piegava erculeo il vento e la terra» […].

Il 6 aprile 1945 gli Alleati cominciarono l’attacco decisivo che portò al crollo della Repubblica sociale italiana e alla liberazione di tutta l’Italia del nord dall’occupazione tedesca. La contemporanea mobilitazione degli operai e le insurrezioni delle diverse brigate partigiane nelle città accelerarono la disfatta nazifascista. Tra il 19 e il 29 aprile furono liberate Bologna, Torino, Genova e Milano e, il 25 aprile, il Clnai emanò l’ordine dell’insurrezione generale.

La sera del 25 aprile Mussolini abbandonò Milano per dirigersi verso Como. I partigiani lo catturarono due giorni dopo, mentre, travestito da ufficiale tedesco, provava a raggiungere la Svizzera e lo fucilarono il 28 aprile con Claretta Petacci. I resistenti, guidati dal socialista Sandro Pertini, continuarono ad affluire a Milano nei giorni tra il 25 e il 28 aprile, spegnendo le residue ostilità fasciste. Una grande manifestazione di celebrazione della Liberazione si tenne a Milano il 28 aprile e gli Alleati entrarono nella città tre giorni dopo. Il 25 aprile fu convenzionalmente individuato come il giorno della Liberazione e, dal 1949, divenne festa nazionale.

Il 29 aprile i partigiani portarono i corpi di Mussolini, della Petacci e di quindici gerarchi giustiziati a Dongo a piazzale Loreto, nello stesso luogo dove, l’anno precedente, come abbiamo visto, i nazisti avevano fucilato quindici partigiani. Alcune ore dopo morì anche Starace, l’ex segretario del Partito nazionale fascista, catturato mentre vagava per le strade di Milano in tuta da ginnastica.

Per salvare i corpi di Mussolini e della Petacci dal linciaggio della folla essi furono issati a testa in giù su un traliccio di un distributore di benzina, come bestie sospese al gancio di un macello. Il duce aveva cessato di sopravvivere a se stesso e il suo corpo che non aveva soltanto incarnato il potere, ma lo aveva anche recitato con un’inimitabile mimica e capacità di metamorfosi, ciondolava ora inerme come una marionetta disarticolata dalla troppa ambizione […].

Il partigiano Johnny, nelle pagine del libro di Fenoglio, interrogato da un ufficiale saloino che gli chiedeva «bene: che farete, ragazzi, dell’Italia?» aveva risposto: «Une petite affaire toute serieuse» e, incalzato dal suo interlocutore che insisteva: «ci sarà ancora un’Italia con voi?» aveva replicato: «Certamente. Per favore. Non se ne preoccupi». Fare dell’Italia «Una cosa alquanto piccola, ma del tutto seria» per seppellire la boria e la magniloquenza del fascismo, con la sua retorica e la sua violenza: un proposito facile a scriversi in un romanzo, ma difficile da realizzarsi nella realtà. Prova ne sia che l’Italia del quarantennio successivo, quella della democrazia dei partiti forgiata dalla Resistenza intorno al valore dell’antifascismo, sarebbe stata l’esatto contrario: un grande Paese, capace di raggiungere inaspettate vette di sviluppo economico, industriale, politico, culturale e civile, ma meno serio e responsabile di quanto quella vorticosa modernizzazione avrebbe richiesto.

A piazzale Loreto si era consumato – e a lungo avrebbe bruciato nella memoria di tanti italiani – un fatto storico di primaria grandezza, accompagnato da un rito di espiazione feroce nel suo simbolismo. Quella sera, rientrando a casa dopo avere assistito a un simile spettacolo, giusto nella sua empietà, empio nella sua giustizia, in molti dovettero avere la sensazione che l’Italia avesse finalmente voltato pagina. Di certo, ci sarebbe stata ancora, ma diversa, e si direbbe, nel bene come nel male, migliore.

Miguel Gotor insegna Storia moderna all’Università di Torino. È stato fellow presso «Villa I Tatti. The Harvard University Center for Italian Renaissance Studies» e senatore della Repubblica dal 2013 al 2018. Ha pubblicato, tra l’altro, I beati del papa. Santità, Inquisizione e obbedienza in età moderna (2002) e Santi stravaganti. Agiografia, ordini religiosi e censura ecclesiastica nella prima età moderna (2012). Per Einaudi ha curato le Lettere dalla prigionia di Aldo Moro (premio Viareggio per la saggistica 2008), la raccolta di scritti di Enrico Berlinguer La passione non è finita (2013) e ha pubblicato Il memoriale della Repubblica. Gli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l’anatomia del potere italiano (2011).

Del 2019 L’Italia nel Novecento. Dalla sconfitta di Adua alla vittoria di Amazon (Einaudi), dal quale è tratta la lezione di questo video.

Nonno, cos'è il sindacato?

Presentazione del libro il 5 novembre
al Centro Binaria di Torino, ore 18.

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