Comitato Pan Europeo dell’Internazionale dell’Educazione - Ottobre 2006
Approvati due documenti sulla libertà d’insegnamento e contro la pratica delle classifiche degli istituti d’istruzione superiore.
Contro la pratica delle classifiche degli istituti d’istruzione superiore
I rappresentanti dei sindacati dell’istruzione superiore e della ricerca, riuniti ad Oslo il 27 settembre 2006, esprimono profonda preoccupazione per gli attuali sviluppi sulla pratica delle classifiche degli istituti d’istruzione superiore, sul loro uso e sulla discussione che si sta sviluppando.
Il monitoraggio degli istituti d’istruzione superiore non dovrebbe essere fatto in conformità a meccanismi basati su classifiche. I sindacati sentono la necessità di puntualizzare una serie di considerazioni, che occorre fare, in merito alle conseguenze della messa a punto dei sistemi di classifiche.
Il concetto di classifiche è di per sé inconciliabile con il principio dell’equità e della diversità delle missioni educative, che devono fare fronte alle differenti aspirazioni degli studenti. La discussione sull’equità è sempre stata all’attenzione dei documenti dell’UNESCO e ha recentemente guadagnato importanza nei dibattiti dell’OECD e dell’Unione Europea. Dati gli sforzi e l’impegno finanziario finalizzati ad assicurare pari opportunità all’istruzione superiore, è decisamente questionabile se di conseguenza si possa stabilire che un certo tipo d’istruzione ottenuto in un dato istituto d’istruzione superiore possa essere riconosciuto differente da un altro, in termini di peggiore o migliore.
L’idea della classifiche inoltre dà adito a numerosi giudizi erronei, come la svalutazione degli istituti precipitati al fondo delle graduatorie, additati come “ cattivi”, e la creazione di una conventicola d’istituti d’istruzione superiore d’èlite collocati nelle posizioni più alte. C’è il rischio reale che gli istituti che non si trovano in quest’ultima categoria tentino di emulare gli istituti “migliori”, al fine di risalire di posizioni. Noi siamo contro questo tipo di atteggiamento, in quanto i differenti istituti d’istruzione superiore operano in contesti culturali, storici e sociali differenti per cui i metodi utilizzati per la governance e la gestione di un istituto possono non essere adatti per altri.
Le pressioni connesse alla pubblicazione dei sistemi di classifiche, inoltre, distolgono l’attenzione dei dirigenti degli istituti dagli studenti e dagli scopi e dalla vera missione dell’istruzione superiore, rafforzando la competizione tra le istituzioni. In tale senso, c’è il rischio reale che gli istituti si focalizzino sugli sforzi per salire la classifica, investendo tempo e risorse umane e finanziarie, e ignorando la loro missione di sviluppare e disseminare conoscenza per il progresso di tutta la società. Inoltre, le graduatorie mettono troppa enfasi sugli istituti e ignorano i programmi di studio.
Fare classifiche è anche una pratica essenzialmente derivata dal mercato, in quanto mira a differenziare tra istituti. Tale differenziazione aumenta i casi in cui gli istituti d’istruzione superiore situati in cima alle classifiche si sentono liberi d’imporre o innalzare le tasse d’iscrizione, il che è di nuovo incompatibile con il principio di equità.
L’idea che i sistemi delle graduatorie rafforzino l’idea di commercializzazione dell’istruzione superiore è evidente dai “Principi di Berlino sulla classificazione degli istituti d’istruzione superiore” che sono il prodotto finale di un progetto intitolato “Sistemi di classificazione dell’istruzione superiore e progetti metodologici” elaborato dall’UNESCO-CEPES e dall’Istituto per le Politiche dell’Istruzione Superiore. Nonostante l’assenza di peso legale di tali documenti, ci preoccupa che essi facciano riferimento al concetto di classifiche basate sulla misurazione dei “risultati” (principio n.8), degli output, piuttosto che degli “input”, e facciano riferimento ai “consumatori” dell’istruzione superiore (principio n 15) piuttosto che agli studenti.
Una considerazione finale da fare sulla questione delle classifiche è chi debba essere competente a decidere sugli indicatori utilizzati. Per esempio, preoccupa che la discussione che ha portato alla decisione del sopra menzionato documento non sia stata inclusiva, in quanto non ha coinvolto un ampio numero di stakeholder. Anche i rappresentanti dello staff accademico sono stati esclusi dalla discussione.
La libertà accademica
La Raccomandazione dell’Unesco del 1997 concernente lo Status del personale docente dell’istruzione superiore garantisce la libertà accademica in quanto diritto, affermando che “i docenti dell’istruzione superiore hanno il diritto a conservare la libertà accademica”. La Dichiarazione di Sinaia del 1992 sulla Libertà accademica e l’Autonomia Universitaria afferma che “i governi e il pubblico devono rispettare i diritti delle università a funzionare come centri di ricerca completamente libera e di critica sociale”.
A giustificazione della libertà accademica, il suo essere vitale per la crescita della conoscenza e la sua disseminazione e per lo sviluppo scientifico. Perché ciò avvenga, è necessario che lo stato e la società assicurino che il personale docente dell’istruzione superiore lavori in un ambiente in cui possa svolgere il proprio lavoro senza alcun timore o restrizione o repressione, e senza lacuna minaccia alla propria indipendenza, alle carriere, e perfino, in certi casi alla libertà personale e alla vita. Queste libertà sono differenti dai diritti civili, politici, sociali e culturali, che sono applicabili a tutti i cittadini. La libertà accademica costituisce anche un punto chiave in democrazia.
La libertà accademica non costituisce, dunque, un privilegio datato o una protezione garantita alla comunità accademica. Invece, la libertà accademica si basa su chiare logiche che collegano il mondo accademico alla società. Inoltre, non costituisce solamente un diritto, ma anche una responsabilità degli istituti d’istruzione superiore e del corpo accademico. Nel quadro di perseguire la diversità culturale, la Dichiarazione di Sinaia fa riferimento all’”obbligo” delle università di opporsi a qualsiasi forma di comportamento intollerante” e “all’impegno a ricerche aperte e indipendenti ” come a una “caratteristica che definisce l’università”.
Nel 1992, quando la Dichiarazione di Sinaia fu adottata sotto gli auspici dell’Unesco, si disse che “la storia ha dimostrato che le violazioni della libertà accademica e dell’autonomia istituzionale hanno alti costi nella regressione intellettuale, nell’alienazione sociale e nella stagnazione economica.” Da allora, piuttosto che un miglioramento, si è verificato un visibile deterioramento di questo principio in tutto il mondo, in una situazione attuale talmente brutta da essere giunti ad un punto di crisi. Ciò è reso evidente dal rapporto che l’Internazionale dell’educazione ha preparato per la CEART, l’agosto scorso, sull’attuazione della raccomandazione dell’Unesco sullo Status degli insegnanti, del 1996, e su quella dei docenti dell’istruzione superiore, del 1997.
I rappresentanti dei sindacati dell’università e della ricerca, riuniti a Oslo il 27 settembre, esprimono profonda preoccupazione sullo stato attuale della libertà accademica.
In molti paesi europei, la pressione esterna nasce dalla sempre crescente spinta verso la globalizzazione, la competitività, la mercificazione e il crescente uso dei meccanismi del mercato nell’istruzione superiore. Pressioni interne nascono anche dai nuovi sistemi di governance, dall’assenza di collegialità, e dalle richieste avanzate allo staff accademico di produrre un flusso regolare di ricerche pubblicate per andare incontro ad obiettivi arbitrari. I fondi per la ricerca stanno sempre più diventando motivo di preoccupazione, in quanto gli organi di finanziamento spesso ne vincolano l’uso ad un numero crescente di condizioni (per esempio, riguardo le pubblicazioni e l’uso dei risultati della ricerca). C’è, quindi, grande preoccupazione per quanto riguarda segni evidenti di aumento della burocrazia e del controllo, del controllo politico nell’utilizzo delle risorse della ricerca e nella riduzione del diritto del ricercatore alla libertà delle pubblicazione.
Sempre più ci troviamo di fronte a motivazioni – soprattutto da parte del mondo dell’impresa – per cui la libertà accademica possa essere usata per proteggere accademici che chiaramente non fanno quanto dovuto. Noi rifiutiamo la visione che i principi della libertà accademica possano essere utilizzati in tale contesto, in quanto libertà accademica non significa libertà di non soddisfare gli obblighi del proprio lavoro in quanto accademico. In molti casi, argomenti come questo sono utilizzati ai fini di ridurre il numero degli accademici di ruolo. Tali argomentazioni sono a detrimento degli interessi collettivi dei nostri iscritti. Occorre, quindi, opporsi fortemente a qualsiasi tentativo di usare la libertà accademica per la protezione di personale che non svolge i propri compiti.
Inoltre, l’esercizio della libertà accademica è strettamente connesso al principio dell’autonomia istituzionale, e allo stesso status dei docenti. Così, gli attuali trend di indebolimento del godimento dei diritti hanno un effetto devastante sulla libertà accademica. Si può affermare con sicurezza che attualmente il godimento di tali diritti continua a diminuire, con sempre meno accademici di ruolo in grado di praticare il loro diritto alla libertà accademica senza timore di essere licenziati. Ci preoccupa molto l’aumento nell’utilizzo di contratti precari, arrivati ormai ad una situazione fuori di controllo.
Diamo il benvenuto alla Raccomandazione dell’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa sulla libertà accademica e sull’autonomia universitaria, adottata nel giugno 2006, come segnale positivo. Tale Raccomandazione contiene numerosi aspetti positivi, fra cui la dichiarazione che questi due principi gemelli costituiscono insieme “un’esigenza fondamentale di qualsiasi società democratica” e che “dovrebbero essere garantiti a livello legislativo, preferibilmente costituzionale”. La codificazione in legge è importante e necessaria, sebbene non costituisca uno strumento sufficiente ad assicurare la libertà accademica ai ricercatori e al personale docente. La codificazione da sola non è sufficiente, in quanto in molti paesi, dove esistono le protezioni legislative, ci sono casi in cui la libertà accademica è ancora minacciata e sono ancora presenti pressioni da parte dei governi, dei partiti politici e di altre forze. Perciò e necessario che siano messe in pratica misure per assicurare il rispetto della libertà accademica, in modo che i cittadini possano essere sicuri delle competenze e dell’imparzialità dei ricercatori e dei lavoratori delle università, e della loro indipendenza da ogni tipo di costrizione politica o di pressione finanziaria o altro.
In tale contesto, diamo il benvenuto e ogni appoggio allo sforzo del Consilio d’Europa nel portare avanti azioni al fine di “.. riaffermare l’importanza vitale della libertà accademica e dell’autonomia universitaria e contribuire ad un dialogo politico aperto per la comprensione di tali concetti nella realtà, complessa e in mutamento, delle nostre società moderne”.
Dal momento che la libertà accademica è così basilare per i docenti e i ricercatori, la necessità di tale libertà dovrebbe essere resa esplicita nel processo di Bologna.
Capiamo, infine, che i nostri colleghi di altre regioni del mondo stanno affrontando gli stessi problemi nostri in termini di deterioramento dei principi della libertà accademica. Ribadiamo che è importante affrontare l’attuale crisi che la libertà accademica sta fronteggiando a livello mondiale, al fine di ridare rispetto a tale principio, in quanto fondamentale requisito dei sistemi universitari di tutto il mondo per soddisfare il loro pubblico mandato.
Roma, 8 novembre 2006