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Contro la violenza sulle donne: un filo rosso tra la piazza e la scuola

Educazione e condivisione per costruire una nuova prospettiva di genere. Tra assenza politica e oblio della legge, è urgente un cambio di rotta sostanziale.

25/11/2016
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Se la giornata mondiale contro la violenza sulle donne diventasse un obbligo di riflessione, come si fa con altre importanti ricorrenze civili e storiche, si sarebbe raggiunto un traguardo importante che, come sempre succede nelle celebrazioni, formalizzerebbe la costruzione di un pilastro nell’identità collettiva.

È di tutta evidenza che la solitudine dei tanti, vera o percepita che sia, sta trasformando il sistema su cui si regge la collettività in una moltitudine di esigenze, bisogni e aspettative, in cui l’assenza del confronto con gli altri amplifica la proiezione delle necessità individuali, mentre si perde di vista l’interesse collettivo e il senso della misura.

Il sindacato oppone continuamente a questa deriva la propria azione perché l’unità delle coscienze attorno ad un principio, è un motore fortissimo per cambiare le cose, dentro e fuori le piazze, non tanto nei numeri, ma nel potere continuo che porta con sé la trasmissione delle idee.

Una, dieci, cento manifestazioni contro il femminicidio per ricordare che ogni tre giorni in Italia viene uccisa una donna, quasi sempre dal suo compagno, dall’ex o da un familiare: e le migliaia di sopravvissute alle violenze fisiche e psicologiche hanno i volti e i corpi di tutte le età, come testimonianza che si colpisce la soggettività femminile, non la presunta colpa.

Un fenomeno di prevaricazione che è sempre presente in ogni ambiente, con punte nella disgregazione sociale, nelle difficoltà dell’integrazione multiculturale, nell’emarginazione, dove negare anche i diritti primari è la salvaguardia di se stessi sugli altri.

Formare i futuri cittadini a rifiutare ogni forma di discriminazione, nella “normale” accettazione di tutti i ruoli e di tutte le scelte private, pare secondario nei principi innovativi di cui si fregia la scuola italiana, orientata ad inseguire ogni cosa che abbia un riscontro “produttivo”, misurabile in obiettivi di risultato.

Nella moderna costruzione di un sistema che va in questa prospettiva, schiacciata tra l’ispirazione aziendalistica e la salvaguardia delle tradizioni nazionali, la scuola ha del tutto dimenticato che l’educazione di genere è, di fatto, introdotta nella normativa vigente, proprio dalla “epocale” legge 107 che la cita tra le aree nelle quali incrementare la formazione di studenti e studentesse.

La malafede di certi gruppi, di evidente influenza politica, ha però tradotto i possibili insegnamenti attinenti alle pari-opportunità, in aspetti di natura biologica e transgender, cancellando sotto la pressione fanatica qualsiasi tentativo di successiva applicazione.

Invece, sarebbe stato importante resistere a questa campagna integralista e riportare nelle classi, in capo al docente, la discussione sull’origine sociale e culturale dei ruoli sessisti, secondo quanto attiene alla sua professionalità, alle sue conoscenze, alle considerazioni di opportunità; non da solo, ma nella valutazione di un progetto di scuola, con il coinvolgimento di tutte le rappresentanze.

Nessuno, meglio di un insegnante sa restituire il valore alle differenze, rimuovendo pregiudizi e convenzioni, ma la scelta è andata nella direzione di indugiare ad oltranza, fino a dimenticarsene, per pacificare gli animi e non togliere la scena ad altre priorità.

Ancora un’occasione mancata: e si conteranno altre bambine offese, altre ragazze ricattate su web e altre donne uccise tra le mura di casa, perché le azioni concrete e rigorose su questo argomento non entrano nell’agenda politica e non vivono nella proiezione del domani.

Viva le piazze quindi, e viva quella società civile che sa inventarsi tutti i giorni, per conquistare diritti e dignità come presupposto fondamentale della cittadinanza democratica.