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Università: la relazione introduttiva alla Consulta docenti della FLC Cgil

Allegato alla notizia pubblicata sul n. 26 di Conoscenzanews del 16 dicembre 2005

18/04/2006
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“Con l’approvazione del ddl Moratti sullo stato giuridico della docenza universitaria, lo straordinario movimento che vi si è opposto – e noi che ne siamo stati parte importante – entra in una fase nuova.

Non sto a descrivere le caratteristiche di questo movimento, sono a tutti note proprio perché ne abbiamo fatto parte integrante. Mi serve, però, richiamare un suo punto di forza e uno di debolezza: il punto di forza è che si è trattato di un movimento di straordinaria ampiezza che ha coinvolto l’intera Università italiana, dalle sue sedi istituzionale centrali e periferiche, alle associazioni, alle organizza; che ha visto nascere nuovi soggetti. Il suo limite è che è riuscito poco a parlare alla società in generale: anzi la coincidenza temporale con alcune polemiche in relazione ai concorsi universitari ha fatto sì che, nella percezione pubblica, l’Università sia vista come un luogo nel quale altro non si faccia che esercitare privilegi e nepotismo, molto più che il luogo dove, pur tra mille contraddizioni e difficoltà, si elabora un sapere critico e si trasmette questo sapere nella formazione, al servizio della società nel suo complesso.

Vi è oggi un grave rischio: l’obiettivo di quel movimento era quello di fermare il d.d.l., oggi il d.d.l. è stato approvato e la legge è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale; dunque, il movimento è stato sconfitto e può sciogliersi. La lotta per un’Università diversa da quella voluta dal governo Berlusconi, ammesso che debba riprendere, deve esserlo su basi completamente diverse e da soggetti diversi. Considerato che siamo ormai quasi nell’imminenza delle elezioni politiche, questi nuovi soggetti devono quelli dell’attuale opposizione politica, nella speranza o nella fiducia che le elezioni la investano di funzioni di governo.

Le cose non stanno così: se il movimento ha mancato il suo obiettivo massimo, ha profondamente condizionato i contenuti – pur sempre profondamente negativi – della legge. Basti un esempio: uno dei punti più squalificanti del d.d.l. era la messa ad esaurimento dei ricercatori ed era questo uno dei punti sui quali più si appuntava la critica nostra e dell’intero movimento; nel testo definitivamente approvato il ruolo dei ricercatori diventerà ad esaurimento solo nel 2013. Vi è, dunque, tutto il tempo per richiedere ed attuare una riforma radicale vera della docenza universitaria (mi riferisco alla nostra proposta del ruolo unico dei docenti articolato in una pluralità di livelli) che è la vera soluzione al problema dei ricercatori oggi in servizio, ma anche quelli di domani. E’ inoltre rimasta la distinzione tra tempo pieno e tempo definito.

Ma, soprattutto – e ben più dei parzialissimi successi conseguiti – quello che conta è che non vada disperso il patrimonio di idee che è emerso dal tumultuoso dibattito che si è svolto dentro il movimento, quella capacità di vedere lontano, di non frantumarsi nelle mille corporazioni che compongono l’Università, ma di avere della stessa una visione complessiva che serva a riaffermare il ruolo che le spetta nel modello di sviluppo della società italiana che vogliamo realizzare.

Forti di questo patrimonio dobbiamo andare al confronto con le forze politiche che compongono l’attuale opposizione, nella fiducia che saranno governo nella prossima legislatura.

Un altro punto voglio sottolineare, prima di entrare in qualche problema più specifico. Siamo andati allo scontro con la ministra Moratti non per difendere l’assetto tradizionale dell’Università, ma perché portatori di un nostro disegno di riforma, di profondissima riforma, per una Università che sia insieme di massa e di qualità abbiamo detto nella nostra Conferenza programmatica. E dovevamo constatare che il disegno (contro)riformatore del Governo era di segno opposto, che aggrava i mali dell’Università stessa, allontanandola dall’obiettivo, appunto, di un’Università che elabori un sapere critico diffuso e lo trasmetta ad un numero crescente di laureati.

Se questo è vero, dobbiamo trarne un corollario per la nostra azione prossima futura: non possiamo accontentarci di una semplice abrogazione della legge Moratti. Se ci limitassimo a chiedere questo, saremmo letti – ed a ragione, nonostante le migliori intenzioni – come difensori di un assetto dell’Università – quello attuale – che invece consideriamo del tutto inadeguato alle necessità di una società della conoscenza, che fondi le proprie capacità di reggere la concorrenza internazionale non sull’abbattimento dei costi del lavoro, ma sulla capacità del sistema di innovarsi continuamente.

So che è difficile, ma dobbiamo presentarci nella nuova fase che si apre come portatori di un nostro disegno dell’Università; solo così potremo tentare di rivolgere come un calzino il disegno della Moratti, ma neanche apparire meri difensori di uno status quo che certamente non ci soddisfa.

2.- Tutto ciò, naturalmente, nulla toglie al fatto che dobbiamo esaminare qualche punto della nuova legge per comprenderla davvero, fosse solo per svelare le bugie propagandistiche che la circondano.

2.1.- In primo luogo i concorsi: si dice che si ritorna – finalmente – ai concorsi nazionali perché il precedente regime aveva un peccato originale, quello del localismo. E’ una bugia: in realtà, all’esito della fase nazionale si consegue solo un’idoneità, è con la fase locale che si diventa docenti. Certo, se il numero degli idonei fosse pari al numero dei posti disponibili, il perno del sistema sarebbe la selezione nazionale, ma così non è. La regola, apparentemente è che il numero degli idonei sia il 140% del numero dei posti.

In realtà, nei concorsi per la prima fascia a quel 140%, va aggiunto un 25% riservato agli associati con anzianità superiore ai 15 anni, per un totale del 165%, e, per le prime quattro tornate di concorsi ad associato, va aggiunto un 15% riservato ai ricercatori (e figure affini) con tre anni di insegnamento e un 1% ai tecnici laureati (della serie: a volte ritornano), per un totale del 156%.

Non basta: per le prime quattro tornate dei concorsi di seconda fascia la maggiorazione del 40% diventa del 100%; di conseguenza, considerando le e quote riservate, si arriva al 216%. La stessa percentuale di incremento del 100% vale per le prime due tornate di concorsi di prima fascia: per essi dunque noi avremo un totale del 225%.

Il risultato è che, su ogni posto di professore di prima fascia effettivamente disponibile avremo una media 2.25 concorrenti che diventa di 2.16 per ciascun posto da associato. Ciò significa che più di metà degli idonei non riuscirà ad occupare uno dei posti disponibili e dovrà sperare su disponibilità aggiuntive di budget che un Ateneo (quello di appartenenza?) abbia la bontà di mettergli a disposizione.

Non è facile prevedere quale sarà il comportamento concreto degli Atenei e delle Facoltà in una simile situazione, ma mi sembra che, se una sede vuole favorire il proprio interno, debba non dichiarare la propria disponibilità di budget ed aspettare che il proprio docente abbia conseguito l’idoneità – diciamo così – in soprannumero e, poi, chiamarlo. Ma se tutti facessero così, il risultato sarebbe che il numero dei posti disponibili sarebbe pari a zero e, quindi, nessuno potrebbe conseguire l’idoneità. Se ciò non avverrà, avremo un numero elevato di idonei che già ricoprono un ruolo nell’Università ma non chiamati (ricercatori che hanno l’idoneità da associato; ricercatori e associati che abbiano l’idoneità ad ordinario), che eserciteranno una pressione peraltro legittima per vedere concretamente riconosciuta una professionalità che una commissione nazionale ha loro riconosciuto in astratto.

Si tratta di un meccanismo infernale, dagli esiti incerti che aggrava in misura esponenziale insicurezza nella quale si trova oggi chiunque non sia ai vertici della carriera. E’ quasi inutile che vi contrapponga la linearità della nostra antica proposta: idoneità nazionale a lista aperta e trasparente concorso in sede locale.

E, comunque, non può essere trascurato – anzi è un fatto di centrale rilevanza - che la nuova normativa non regola la fase della chiamata da parte degli Atenei: quindi, quello che sarà il vero concorso non è specificamente normato, ma interamente affidato alle scelte discrezionali di ciascun Ateneo.

2.2. Quanto alla questione sollevata dal compagno Zilli sulla possibilità di affidare corsi ai ricercatori, devo dire che, sulla base di una lettura letterale, la preoccupazione mi sembra fondata. Infatti:

  • I ricercatori che già abbiano svolto tre anni di insegnamento, continuerebbero a poterlo svolgere, così come dispone il comma 11 dell’art. 1.

  • Lo stesso per i ricercatori che saranno assunti dopo l’entrata in vigore della nuova legge perché espressamente richiamati dallo stesso comma 11.

  • Rimarrebbero scoperti i ricercatori assunti prima dell’entrata in vigore della nuova legge, ma che non hanno ancora realizzato tre anni di insegnamento, in quanto l’art. 12 l . n. 341/1990 è stato abrogato a far tempo dall’entrata in vigore dei decreti legislativi e il co. 11 non è a loro applicabile perché parla di ricercatori che già abbiano maturato il triennio. Costoro, di conseguenza, rimarrebbero anche esclusi dalla possibilità di accedere alla quota riservata del 15% delle idoneità conseguibili a livello nazionale di cui al co. 5 lett. c.

E’ però possibile un’altra lettura della norma: il requisito dei tre anni di insegnamento già svolti richiesto dal comma 11 va riferito non a tutte e tre le figure ivi previste ricercatori, assistenti e tecnici laureati, ma solo a questi ultimi. E tale lettura è attendibile perché già l’art. 50 del dpr n. 382/1980 distingueva i tecnici laureati che avessero tre anni di insegnamento dagli altri e solo ai primi riconosceva un certo status sotto alcuni profili assimilabile a quello degli assistenti. Oggi viene riproposta quella antica distinzione.

In realtà siamo di fronte ad un ennesimo pasticcio derivante dall’insipienza, non solo politica, ma anche tecnico-giuridica di questo legislatore. Mi sembra chiaro, infatti, che non ci sia alcuna intenzione del legislatore di limitare la possibilità dei ricercatori di avere affidamenti e supplenze. Inoltre, la disparità di trattamento evidenziata non troverebbe giustificazione alcuna e sarebbe palesemente incostituzionale. Del resto, data la situazione concreta dei nostri Atenei, non credo proprio che ci sia alcuna intenzione di escludere i ricercatori dall’affidamento di corsi e moduli, non dovrebbe dunque essere difficile far passare l’interpretazione più favorevole.

2.3. Mi sembra ridicola la soluzione trovata per i ricercatori: o serve quella posizione di ruolo, e allora non si capisce perché porla ad esaurimento; se, invece, è inutile o dannosa, non si comprende perché posporre al 2013 la messa ad esaurimento. La soluzione trovata è chiaramente un compromesso al ribasso tra i sostenitori dell’una e dell’altra posizione, presenti anche all’interno della maggioranza.

Ancor più ridicolo, ma l’abbiamo già segnalato, è il contentino dato ai ricercatori stessi: possono fregiarsi del titolo di professore (aggregato) per il periodo di tempo in cui ricoprono un incarico. Forse il Ministro non sapeva che, per giurisprudenza costante del Consiglio di Stato era già così da lungo tempo.

2.4. Su altri aspetti posso andare avanti telegraficamente, rinviando a nostre precedenti riflessioni:

  • E’ scomparso ogni cenno alla riforma del sistema di valutazione e, soprattutto, alla costruzione di un soggetto valutatore caratterizzato – come è necessario – dalla terzietà.

  • E’ rimasto il decreto del Ministro che, autoritativamente e in violazione dell’autonomia universitaria, determina gli indirizzi di gestione delle Università.

  • E’ rimasto lo sconcio della possibilità di diventare professore di prima fascia senza selezione alcuna se si trova un soggetto pubblico o privato disponibile a pagare lo stipendio.

  • E’ rimasta, innanzi tutto, la accentuata precarizzazione del personale docente universitario: sia l’attività corsuale che l’attività di assistenza agli studenti sia l’attività di ricerca può essere svolta (e di fatto sarà svolta) in misura rilevante non da personale di ruolo, ma da personale raccogliticcio che non ha alcuna garanzia di futuro. Se questo si accompagnerà al mantenimento della politica di proliferazione delle sedi universitarie senza adeguati investimenti, il risultato – appunto – non può che essere la degradazione della qualità del sistema: l’Università diventerà pure di massa, ma abbassandone la qualità.

3. Cosa contrapponiamo a tutto questo? Su alcuni punti c’è già una nostra elaborazione, che dobbiamo verificare ed aggiornare; su altri, invece, è ancora da compiere una nuova elaborazione collettiva.

3.1. Sullo stato giuridico della docenza, la nostra elaborazione è chiara ed è già acquisito il consenso delle altre organizzazioni.

Provo a riassumerla così: uno dei difetti strutturali dell’attuale sistema è la confusione tra reclutamento e carriera. Altro, invece, deve essere il momento in cui si seleziona tra tutti gli aspiranti coloro che devono svolgere il mestiere di docente universitario, altro il momento del passaggio da un livello all’altro della carriera. Il passaggio del ricercatore ad associato o dell’associato ad ordinario non è reclutamento, è riconoscimento del lavoro svolto e della professionalità acquisita.

Quindi occorre introdurre il ruolo unico con pluralità di livelli. I passaggi da un livello all’altro non devono essere automatici, ma sottoposti ad una rigorosa valutazione del lavoro svolto, sotto tutti gli aspetti, non solo quello della produzione scientifica.

In favore di questa soluzione milita anche una ragione ancora più importante di quella esposta, cioè di porre rimedio ad una delle più profonde contraddizioni dell’attuale sistema. Quest’altro ragionamento muove dalla osservazione che tra le diverse figure docenti (ricercatore con incarico o supplenza, associato ed ordinario) non vi è una differenza di mansioni, funzioni o come altro le si voglia chiamare. Il lavoro di ricerca e didattico non sopporta gerarchie di figure professionali; la figura professionale è unica: è quella di chi ha il compito di (contribuire a) elaborare un sapere critico e di trasmetterlo attraverso la didattica. Non si può elaborare sapere critico e neanche aprire un fecondo rapporto didattico con gli allievi se non si compie il proprio lavoro con un’autonomia libera da rapporti gerarchici.Le differenze, che pure ci sono, non attengono al che cosa si fa, ma al grado di maturità professionale effettivamente realizzato.

E’ per questo che la rivendicazione del docente unico non è una rivendicazione corporativa, ma è nell’interesse generale.

3.2. Se riusciamo a creare consenso su questa proposta, la soluzione di altri problemi ne discende come corollario:

- Il problema dei concorsi viene sdrammattizzato, limitandolo al momento del primo reclutamento (salva l’ipotesi di chi voglia accelerare la carriera);

- Non potrà più essere bypassato il problema della valutazione, perché è sulle valutazioni che dovranno fondarsi i passaggi di carriera;

- L’autonomia di ciascun docente ne esce rafforzata, contro i poteri autoreferenziali sui quali oggi è fondata tanta parte della vita universitaria;

- Ma questa autonomia non rischia di diventare, a sua volta, nuova autoreferenzialità se accompagnata dai momenti della programmazione e della valutazione.

4. Un altro punto sul quale mi limiterei a richiamare la nostra elaborazione, salve le sempre indispensabili messe a punto, è la necessità che l’autonomia non sia limitata alla singola Università, ma sia attributo del sistema. E’ il sistema nel suo insieme che deve essere autonomo dal potere politico. Ciò significa porsi il problema del governo del sistema: occorre un Cun più ‘politico’ e rafforzato, come organo che interloquisce con il potere politico nazionale, ma occorre anche costruire organismi di rappresentanza della comunità scientifica anche agli altri livelli del sistema: mi riferisco all’Unione europea ed alle Regioni.

5. Su altri punti, invece, dobbiamo approfondire la nostra elaborazione o crearla ex novo. Mi sembra di poterli individuare:

- Negli strumenti di governo politico del sistema universitario e nel connesso problema del finanziamento (in primo luogo nazionale, ma anche comunitario e regionale). Su questo punto abbiamo più volte detto che lo strumento deve essere quello della programmazione e penso che questo punto vada ribadito; rimane, però, il problema della implementazione della programmazione: sono dell’opinione che questa non debba avvenire attraverso strumenti coercitivi, ma attraverso quegli strumenti che i giuristi chiamano di soft law: incentivi e disincentivi, accordi di programma, convenzioni ecc.

- Nelle regole per l’istituzione di nuovi insediamenti universitari e nei connessi requisiti minimi, una cui corretta ed equilibrata individuazione può consentire – a garanzia degli studenti – l’introduzione del principio dell’accreditamento.

- Nell’articolazione interna delle Università, sia per ciò che riguarda l’Amministrazione centrale che per quanto riguarda la sua struttura periferica (Dipartimenti, Facoltà, Corsi di studio); nella composizione dei diversi organi collegiali e nell’elettorato attivo e passivo; nel processo decisionale (la cd. governance). E’ materia sulla quale occorre riflettere tenendo fermi due principi: uno è certamente quello dell’efficacia e dell’efficienza dei processi decisionali, ma anche che ogni imitazione di altre organizzazioni come quelle di impresa è fuori luogo. Ed infatti, se è vero, come è vero, che l’autonomia è condizione di efficacia e di efficienza di attività come quelle di ricerca e didattica, occorre aver ben presente che – all’interno di strutture organizzative complesse come anche il più piccolo Ateneo – autonomia significa partecipazione. Un ampia partecipazione alle strutture di governo non è, dunque, solo un omaggio a principi astratti, ma una condizione primaria di efficacia e di efficienza dei processi decisionali. Un’altra indicazione di lavoro può essere la distinzione tra funzioni di indirizzo e controllo e funzioni di gestione, le prime affidate ad organi collegiali ampiamente partecipate, le seconde a ben individuati uffici ed ai loro responsabili.

6. Per quanto riguarda la didattica, vorrei, in primo luogo, sgomberare il campo da quello che mi sembra un falso problema: il valore legale del titolo di studio. Tale ‘valore’, infatti, il titolo di studio lo ha solo per l’accesso ai concorsi pubblici e, se non ci fosse, l’ingovernabilità degli stessi crescerebbe. Del resto, non si và verso una certificazione delle competenze acquisite? E cos’è il valore legale se non una forma – forse un po’ grezza – di certificazione? E’ mia opinione che, anzi, occorrerebbe introdurre una forma di accreditamento di ciascun Ateneo al rilascio di un tipo di titoli di studio sulla base dei risultati formativi ottenuti ed ottenibili.

Ben più serio è il problema della riforma didattica, dal mitico 3+2 al nuovo modello ad Y della Moratti. E’ questo – come è noto – un fronte caldo che presenta un’ampia varietà di posizioni.

Il nostro no alla Y della Moratti deriva dal fatto che nega l’intreccio tra formazione professionalizzante e formazione culturale ad ampio spettro e mi sento di ribadire questo giudizio: una professionalizzazione senza cultura di base è subalterna e diventa rapidamente obsoleta.

Ma polemiche sono sorte anche sul 3+2 dell’originario disegno di Luigi Berlinguer e sono polemiche che ritengo in parte fondate se riferite all’assetto normativo e molto di più se riferite alla sua attuazione. Nell’attuale gravissima situazione di confusione, per trovare una via di uscita che non sia un semplice ritorno all’indietro, come se quello fosse l’assetto didattico migliore, proporrei un’esercitazione. Immaginiamo, solo virtualmente, di azzerare la situazione.

Riteniamo che siano dei problemi l’elevato tasso di abbandoni, l’eccessiva lunghezza degli studi universitari in relazione a quella prevista? Riteniamo che sia un contributo alla soluzione l’introduzione dei crediti come misura dell’attività richiesta allo studente? Un altro contributo alla soluzione può venire da un’articolazione dei corsi di studio in una pluralità di livelli collocati in serie e non in parallelo? Riteniamo che sia un problema intessere un rapporto con il mondo produttivo in modo non subalterno? A mio avviso, è questa una sorta di griglia dei problemi sui quali occorre riflettere se si vuole assumere una posizione politica che non sia né da laudator temporis acti né acritica accettazione delle riforme degli ultimi anni.”