Didattica mista: perché no. Il documento approvato dall’assemblea dell’università dell’Emilia Romagna
Il documento, approvato da FLC CGIL Emilia Romagna, Docenti Preoccupati e Disintossichiamoci-Saperi per il futuro, è stato inviato a tutti i Rettori delle università emiliano romagnole.
A cura della FLC CGIL Emilia Romagna
L’assemblea dei docenti, personale TA, CEL delle università dell’Emilia-Romagna, convocata da FLC CGIL, Docenti Preoccupati e Disintossichiamoci-Saperi per il futuro, assume e approva il documento base allegato alla convocazione.
Richiede agli Organi Accademici delle Università dell’Emilia-Romagna di riconsiderare criticamente le deliberazioni già assunte, nel senso di una maggiore flessibilità e plasticità delle soluzioni didattico-organizzative, e che sia garantita ai docenti, ai Corsi di Studio, ai Dipartimenti, la possibilità di scegliere la formula didattica più efficace, ivi inclusa la didattica esclusivamente online, al fine di assicurare la migliore qualità della didattica nell’ovvio rispetto della libertà della docenza e delle misure di sicurezza che verranno emanate.
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DIDATTICA MISTA: PERCHÉ NO
Nelle ultime settimane, molti atenei italiani e stranieri stanno decidendo come affrontare il prossimo anno accademico, per fare fronte all’emergenza sanitaria e alle norme di distanziamento sociale che continueranno a essere necessarie se si verificherà una seconda ondata di contagi in autunno. Le linee di indirizzo del ministro Manfredi sull’attività nel prossimo semestre prevedono il ricorso alla didattica in forma “mista”. Ma cosa significa “mista”? Vi sono atenei che stanno interpretando questo concetto distinguendo tra attività da svolgere in presenza (in particolare i laboratori) e attività da svolgere in modalità telematica (in particolare le lezioni frontali). A Bologna, invece, per didattica mista si intende la formula secondo cui il docente lavora in aula con alcuni studenti ed è simultaneamente collegato online con altri studenti che seguono da remoto, una scelta sottoscritta anche dal ministro Manfredi in un’intervista del 7 giugno, facendone una linea guida per tutte le università italiane. Per attuare questa formula, già deliberata e pubblicizzata dagli organi dell’Ateneo di Bologna, sono stati investiti ben tre milioni di euro, allo scopo di dotare le aule della necessaria attrezzatura tecnologica.
Si dice che questo tipo di didattica sia inclusiva, efficace, sicura, innovativa… Non è così. Vediamo perché in cinque punti.
1) Non è inclusiva. In realtà, l’attività didattica mista declinata in questi termini genera automaticamente disparità, in termini di opportunità di apprendimento, tra chi potrà seguire in presenza e chi sarà costretto a restare a casa (perché non può permettersi di vivere fuori sede, perché lavora…). Si tratta quindi di una modalità fortemente discriminatoria, che rischierà di produrre danni ancora più gravi sul medio-lungo periodo se, da soluzione di emergenza, diventerà una cosiddetta “innovazione di sistema”, come tutto fa pensare. Noi chiediamo invece che a tutti gli studenti siano garantite le medesime condizioni di fruizione e di interazione. Invece di accentuare le disparità esistenti attraverso un’organizzazione che di fatto le istituzionalizza, pensiamo sia meglio continuare a svolgere tutte le lezioni frontali online fino a quando la situazione sanitaria non consentirà all’intera popolazione studentesca – almeno in linea di principio – di tornare in aula e di usufruire dei medesimi servizi. Se il problema che preoccupa sono le limitazioni derivanti dal digital divide, allora l’Ateneo si attrezzi fin da ora per garantire a tutti, studenti e docenti, connessioni stabili da remoto e dispositivi portatili adeguati. Quanto alla crisi economica provocata dal Covid-19, la risposta non è spendere tre milioni per trasformare le aule in studi di ripresa o di registrazione, ma cogliere l’occasione per risolvere problemi strutturali, potenziando il diritto allo studio, ampliando il numero delle aule, costruendo nuovi studentati, riducendo le tasse, calmierando gli affitti di concerto con le amministrazioni locali. Per gli studenti internazionali costretti a restare provvisoriamente nel loro paese d’origine a causa di una diversa velocità di risoluzione della pandemia, vanno immaginati specifici meccanismi di sostegno a distanza, potenziando attività di tutorato e di monitoraggio dell’apprendimento espressamente concepite per questa specifica situazione, fino al termine dell’emergenza sanitaria.
2) Non è ragionevole. La soluzione prospettata, vista l’incertezza delle previsioni sull’evoluzione epidemiologica, rischia di mancare doppiamente l’obiettivo: inutilmente farraginosa e dispendiosa nel caso di una scomparsa sostanziale del virus; insufficiente a garantire la sicurezza in caso di ripresa dell’epidemia. A questo si aggiungono le complicazioni tecniche e logistiche di un ateneo come quello bolognese, con percorsi didattici eterogenei, flussi di studenti molteplici, oltre mille aule dalla capienza molto diversificata, poli didattici disseminati su varie province. Di fronte a un quadro così incerto c’è solo una risposta: se a settembre ci sarà di nuovo una situazione di pandemia, l’unica soluzione che tutela davvero la sicurezza è la didattica a distanza; se, viceversa, la situazione sarà risolta, non ci sarà bisogno di alcuna misura eccezionale e quindi sarà possibile tornare in aula normalmente, senza turnazioni, protocolli farraginosi e discriminazioni. Nel caso invece di una eventuale endemizzazione del virus, che ci obbligherebbe alla convivenza, dovranno essere messe in atto azioni strutturali (aule, impianti ecc.) e organizzative (orari che rendano possibili i recuperi di ore perse per malattia) che minimizzino sia il rischio sanitario sia il rischio di esclusione delle parti più deboli coinvolte, con modalità di ripresa in presenza che permettano la salvaguardia della salute di tutti.
3) Non è giuridicamente solida. La soluzione deliberata da Unibo, che potrebbe “fare scuola” nella regione e nel paese, solleva anche varie questioni di ordine giuridico. Tra queste, due sono particolarmente urgenti. La prima riguarda ancora il diritto alla salute e il problema della responsabilità rispetto ai temi della sicurezza. Durante le lezioni in presenza, i docenti saranno come sempre anche responsabili della sicurezza in aula. Ma come potrebbero essere considerati responsabili dal momento che non hanno alcun controllo sui processi di sanificazione, sulla capienza delle aule o sui ritmi di accesso e di deflusso? La seconda questione riguarda l’eventualità, ventilata spesso in questi giorni, che le lezioni vengano riprese, diffuse in streaming e anche registrate. Sono procedure che, oltre a richiedere un consenso esplicito del docente, dunque giuridicamente impossibili da imporre come obbligo con una delibera degli organi accademici, che ovviamente non può scavalcare le leggi dello Stato, sollevano anche grossi problemi di privacy, diritto d’autore, diffusione e circolazione dell’immagine. Ad aggravare il quadro giuridico si aggiunge la scelta altamente discutibile di un’università pubblica come Bologna (e purtroppo di tanti altri atenei italiani) di affidarsi a una piattaforma proprietaria come Microsoft Teams, mentre la piattaforma pubblica del Garr è stata oggetto di puntuale disinteresse e disinvestimento da parte delle istituzioni (si veda questa attenta ricostruzione di Maria Chiara Pievatolo). Perché accettiamo che dati sensibili come quelli relativi alla funzione docente siano gestiti e archiviati da datacenter esteri? Perché lasciamo che il nostro ambiente di lavoro venga modellato da aziende private che nulla hanno a che fare con la missione di un’università pubblica? Sono domande che in nome dell’emergenza abbiamo solo sospeso, ma che si fanno ogni giorno più urgenti.
4) Non è didatticamente efficace. L’idea di didattica mista nella versione Unibo è inefficace, oltre che tecnicamente farraginosa, perché vuole tenere insieme metodi di trasmissione dei contenuti del tutto diversi. La modalità mista impone al docente di adottare contemporaneamente due sistemi di regole, metodi, azioni (da un lato quelli che servono per insegnare in aula, e dall’altro quelli imposti dall’uso del dispositivo elettronico) che sono di fatto incompatibili tra loro. Se si insegna online, i programmi stessi, la retorica, il ritmo e gli strumenti cambiano rispetto all’insegnamento in presenza. Mettere insieme le due cose significa introdurre una schizofrenia ingestibile, che rischia di produrre effetti devastanti sulla qualità della didattica, sia per chi segue da remoto sia per chi segue in classe, nonché effetti altrettanto devastanti sulla qualità del nostro lavoro come docenti. Sarebbe davvero un paradosso peggiorare la qualità dell’insegnamento in nome di una tanto sbandierata “didattica innovativa”, che molti oggi identificano ingenuamente con il semplice uso degli strumenti digitali. Nulla di innovativo nel fatto di riprendere con una telecamera qualcuno che parla. Se davvero si vuole innovare attraverso le tecnologie digitali bisogna percorrere strade completamente diverse, promuovendo un approccio critico, informato e non passivo alle tecnologie, per esempio attraverso l’analisi, l’uso creativo e consapevole dell’immensa mole di dati oggi disponibile in rete e degli strumenti digitali con cui organizzarli e analizzarli, o la riflessione sulle nuove frontiere del diritto d’autore tracciate dal web nei diversi ambiti culturali e disciplinari. Quanto all’ipotesi di replicare (o, peggio ancora, far replicare da non meglio identificati “tutor”) le stesse lezioni per vari turni di studenti, presuppone una concezione formattata del sapere, come “pacchetto” prestabilito di informazioni sempre uguale a sé stesso, che viene “trasferito” in maniera unidirezionale dal docente agli studenti. Un’idea vecchissima, che oggi si vuole invece contrabbandare come mirabolante innovazione solo perché passa attraverso strumenti e media digitali.
5) Non è lavorativamente accettabile. Del maggior carico di lavoro implicato dalla didattica online, che tutti abbiamo sperimentato, siamo pronti a farci nuovamente carico per un altro semestre, persino per un altro anno se le previsioni sanitarie peggiori dovessero realizzarsi, per senso di responsabilità nei confronti della funzione sociale, politica e civile dell’istituzione per cui lavoriamo. Ma tutto ciò vale come prassi eccezionale, non come norma. E se è vero che i docenti universitari sono certamente una categoria che gode di maggiori diritti e tutele rispetto ad altre, in una società giusta diritti e tutele dovrebbero essere estesi, non ridotti. Per questi motivi, anche l’assetto emergenziale andrebbe regolamentato. In ogni caso, richieste come quelle che sono state avanzate in nome della didattica mista – estensione dell’orario di lavoro potenziale dalle 8 alle 20, sabati inclusi – sono assolutamente inaccettabili, così come è inaccettabile che si estenda ulteriormente il ricorso al precariato per far fronte all’aumento del carico didattico e istituzionale. Serve invece una politica di assunzioni che rimedi ai tagli orizzontali degli ultimi decenni, che hanno portato l’università a operare strutturalmente in condizioni di sotto organico. Che ci siano lezioni con trecento studenti ammassati in un’aula non va bene in assoluto, anche in assenza del Covid-19.
Vogliamo tornare in aula, ma non siamo disposti a farlo alle condizioni che ci vengono imposte. Ribadiamo che solo due strade sono percorribili in questa congiuntura. Se il virus scompare e la situazione si normalizza, chiediamo di tornare a fare lezione in presenza, senza telecamere. Se viceversa l’emergenza dovesse ripartire, allora vogliamo svolgere tutte le lezioni frontali online, almeno per il primo semestre, alla fine del quale si potrà valutare come proseguire. La terza via è solo un pasticcio molto complicato in termini tecnici, con zone oscure e risvolti che è un eufemismo definire discutibili. Il termine blended learning, del resto, nasce molto prima dell’attuale crisi sanitaria, Designa all’origine un tipo di didattica in cui l’impiego della tecnologia è integrativo rispetto alla didattica in presenza, e implica un totale ripensamento di metodi, obiettivi e contenuti alla luce del mutato contesto culturale e tecnologico: qualcosa di molto diverso, insomma, da ciò che intendono organi di ateneo e ministro.
Vogliamo discuterne insieme. Inoltre, proporre un cambiamento di questa portata, che inciderebbe profondamente sul lavoro e sulla vita di tutti noi, ancora nel mezzo di un’emergenza, con tutte le incertezze del caso, è un atto autoritario e inammissibile. L’impressione è quella di trovarsi di fronte a una fuga in avanti che sfrutta l’emergenza sanitaria per trasformare le università pubbliche in atenei (parzialmente) telematici, e per di più al grido di: “si torna in aula!”. Una scelta del genere non può essere compiuta con deliberazioni irrevocabili degli organi accademici. Bisogna coinvolgere l’intera comunità universitaria e aprire una vera discussione sull’uso delle tecnologie nella prassi educativa. La nuova strutturazione didattica modificherà necessariamente l’assetto organizzativo e avrà una ricaduta anche sul lavoro del personale tecnico-amministrativo e CEL, che non viene mai coinvolto nelle decisioni che riguardano il proprio lavoro.
Dunque torniamo prima alla normalità, riprendiamo a fare il nostro lavoro, e poi con calma, con lucidità e in modo condiviso, discuteremo le soluzioni migliori per il nostro futuro e per quello dei nostri studenti.
Docenti Preoccupati
Disintossichiamoci - Saperi per il futuro
Simone Saccani FLC CGIL Emilia Romagna