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I commenti della Segreteria Nazionale sulle linee guida del Governo sulla politica scientifica e tecnologica

Come saprete il MIUR ha predisposto nuove "Linee Guida per la politica scientifica e tecnologica del Governo", propedeutiche alla stesura di un nuovo Piano Triennale, i cui contenuti dovrebbero essere recepiti già nel prossimo DPEF.

23/04/2002
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Roma, 23 aprile 2002

Come saprete il MIUR ha predisposto nuove " Linee Guida per la politica
scientifica e tecnologica del Governo", propedeutiche alla stesura di un nuovo
Piano Triennale, i cui contenuti dovrebbero essere recepiti già nel prossimo
DPEF. Di tali contenuti è stata data informazione alle OOSS, alla CRUI, ai
Presidenti degli EPR: si tratta non di una mera revisione del Piano Triennale
esistente, ma della proposta di una sua completa riscrittura che potrà avere
importanti e gravi ricadute sugli assetti dell'intero sistema pubblico di
ricerca ed alta formazione e sulle prospettive di lavoro di chi in esso opera.

La Segreteria Nazionale dello SNUR-CGIL ha pertanto ritenuto utile
predisporre un primo documento di valutazione sulle proposte del Governo
che vi trasmettiamo in allegato, sulla base del quale riteniamo
necessario ed urgente aprire un ampio dibattito che coinvolga
l'intera comunità scientifica nazionale: tutte le nostre strutture
si impegneranno a questo scopo; chiediamo anche il vostro
contributo di idee poiche' riteniamo che da un tale percorso
possano e debbano scaturire ulteriori interessanti suggerimenti e proposte
che saranno utili ad integrare il documento stesso.

Vi informiamo inoltre che il prossimo 4 Giugno si terrà a Roma,
in orario e sede che vi verranno appena possibile comunicati, una grande
iniziativa pubblica, che verrà conclusa dal compagno Cofferati, per
rilanciare le nostre proposte sui temi della ricerca e dell'alta
formazione, in un confronto sempre più difficile con un Governo che anche
in questi settori sembra aver imboccato senza esitazioni la strada del
ridimensionamento del ruolo del sistema pubblico: anche in vista di
questo appuntamento, ma avendo ben chiaro che esso non può che essere
l'avvio di un percorso di mobilitazione che dovrà necessariamente durare
nel tempo, è importante si faccia tutto il possibile per fare crescere la
discussione ed il consenso attorno alle nostre proposte.

p. la Segreteria Nazionale
Paolo Saracco

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Sulle "Linee guida per la politica scientifica e tecnologica del Governo"

18.04.2002

Il Governo ha recentemente predisposto le nuove "Linee guida per la politica
scientifica del Governo" dalle quali, previo un iter di discussione dalle
caratteristiche non ancora ben definite, verranno le indicazioni per la
stesura del nuovo Piano Triennale per la Ricerca, come previsto dal
D.Lgs. 204/98.

I postulati da cui parte il documento sono spesso contraddittori o comunque
discutibili. Ad es., a pag. 5, si afferma, contro ogni evidenza, che i
vantaggi prodotti dalla globalizzazione sono opportunità a disposizione di
tutti i Paesi e, al loro interno, a tutti i sistemi regionali. Mentre a pag.
10 si enumera per primo, tra i punti di forza del "Sistema Italia", il fatto
che il sistema produttivo si basi essenzialmente su piccole e medie imprese,
poi, a pag 26, si rileva che le imprese con meno di 50 addetti svolgono solo
il 3.2% del totale della ricerca industriale; se il secondo elemento di fatto
è vero - come anche noi crediamo - non può affermarsi che la predominanza
della tipologia di impresa meno propensa alla ricerca e alla innovazione
tecnologica sia un punto di forza del sistema. In diversi punti poi e'
evidente una mancanza di coordinamento con le politiche seguite dal Governo
nel suo insieme, ad esempio laddove si fornisce un apprezzamento positivo dei
flussi migratori che mal si concilia con il ddl governativo Fini-Bossi o
laddove si afferma che una delle direttrici dell'azione di governo sarebbe
il rilancio della programmazione negoziata (p. 21), mentre nel libro bianco
del Ministro Maroni viene proclamata la sepoltura del metodo della
concertazione con le organizzazioni sindacali.

Ma, aldilà di queste e di altre contraddizioni interne al documento ovvero
tra il documento e la politica governativa, ci sembra indispensabile rilevare
come, nelle intenzioni, esplicitamente dichiarate, del Governo non si tratta
di procedere ad una serie di correzioni piu' o meno significative del
Piano Triennale esistente, quanto di arrivare ad una riscrittura complessiva
del testo, a partire da un impianto che segni con evidenza la caratteristica di
discontinuita' rispetto al Piano Triennale preesistente. Nella volonta'
del Governo proprio aver proceduto alla stesura di nuove Linee Guida,
piuttosto che procedere direttamente ad una revisione del Piano Triennale,
sta a sottolineare questo aspetto.

In questa prima fase le "Linee Guida" sono state presentate alla CRUI ed ai
Presidenti degli EPR, al CUN e di esse e' stata data informazione alle OOSS.
Intenzione del Governo e' di giungere ad una loro approvazione da parte
del CIPE in tempi utili per consolidarne e coordinarne gli obiettivi gia'
con il prossimo DPEF, la cui definizione avverra' nel mese di maggio.

La prima osservazione riguarda proprio i tempi ed i modi della discussione:
dei tempi, ristrettissimi a dir poco, si e' gia' detto e per quanto
riguarda i modi - nella perdurante assenza dell'Assemblea del Scienza e
della Tecnologia prevista dal D.Lgs. 204/98 e mai attivata ne' dai
precedenti, ne' dall'attuale Governo - sembra del tutto evidente che si
sia scelta una forma di confronto del tutto omologa al "dialogo sociale"
gia' teorizzato e praticato dal Governo in altre occasioni: una forma di
confronto a "geometria variabile", le cui forme vengono dettate di volta in
volta dalle esigenze dell'esecutivo e dalle disponibilita' manifestate dai
diversi soggetti a prestarsi ad una discussione ad agenda ed obiettivi
predeterminati e non mediabili. La CRUI, il CUN, i Presidenti, le OOSS
vengono in questo caso informate e consultate in tempi strettissimi e non vi
e' alcuna garanzia, ne' formale, ne' di metodo, sulla disponibilita' del
Governo a tenere conto delle osservazioni che verranno formulate.

Ci sembra questa una questione solo apparentemente metodologica: se
l'obiettivo e' una riscrittura su nuove basi del Piano Triennale della
Ricerca - obiettivo che in quanto tale potrebbe anche essere condivisibile,
posto che ne fossero condivise le ragioni - la scelta se arrivare alla sua
realizzazione attraverso un percorso condiviso o se, invece, in qualche modo
forzarne la praticabilita' comprimendo i tempi ed i modi del dibattito, e'
un importante segnale, in un senso o nel suo opposto, dell'attenzione e
della sensibilita' che il Governo ha nei confronti del settore della
ricerca pubblica e dell'alta formazione e di chi in esso opera.

Troviamo quindi quantomeno sospetto che un testo di questo rilievo venga
sottoposto ad una discussione frettolosa e all'apparenza puramente formale
nell'urgenza della sua approvazione, senza coinvolgere nella maniera piu'
ampia ed approfondita possibile la comunita' scientifica nazionale e
l'intera opinione pubblica: sempre che, ovviamente, non si consideri
esaurita la discussione con gli interventi sulla stampa pubblicati negli
ultimi mesi, tutti, o quasi, a firma di membri dell'attuale maggioranza di
Governo o di personalita' ad essa vicine e tutti, o quasi, tesi a
sostenere l'inefficacia, se non addirittura l'inutilita' o
l'inopportunita', di un potenziamento dell'intervento pubblico nel settore
della ricerca e dell'alta formazione.

Siamo stati noi i primi, a partire dal Patto sottoscritto nel settembre 1996,
a sostenere la necessita' di una riforma volta a potenziare il settore
proprio perche' eravamo e siamo convinti che quello in ricerca, in
formazione ed in innovazione e' un investimento di carattere strategico
per il Paese, che da esso derivano le condizioni immateriali, nondimeno
concrete, per lo sviluppo e la crescita della societa' e dell'economia.
Anche sulla base di quel Patto prese l'avvio nella seconda meta' degli
anni '90 un vasto disegno di riforma dell'intero sistema universitario e
degli EPR, i cui effetti sono ancora tutti da valutare, dato il poco tempo
trascorso.

Ed e' percio' sorprendente che la proposta del Governo non parta da
un'accurata analisi di cio' che le riforme degli anni passati hanno
impostato e prodotto, di cio' che inerzie interne ed esterne hanno
impedito di sviluppare appieno, di quali interventi ulteriori siano quindi
necessari, di quali risorse finanziarie ed umane siano necessarie per far
funzionare la riforma in atto. Cio' non solo, di nuovo, per ragioni
puramente di ordine metodologico, ma soprattutto perche' l'impostazione
generale di quel disegno di riforma discendeva da una complessa (e condivisa)
analisi dell'interdipendenza tra ricerca, formazione, crescita sociale ed
economica che, nel documento del Governo subisce una drastica revisione, una
"reductio ad unum" in cui l'unico fattore significativamente preso in
considerazione e' la potenzialita' insita nell'attivita' di R&S di agire
come moltiplicatore per la competitivita' dei sistemi economici, sia
direttamente attraverso lo sviluppo di imprese high-tech il cui tasso di
crescita e' molto maggiore di quelle tradizionali in virtu' del maggior
valore aggiunto dei propri prodotti, sia indirettamente grazie all'impatto
che l'output (in termini sia di prodotti, sia di servizi) delle imprese
high-tech ha sul resto dell'economia.

Si tratta, ovviamente, di uno dei termini del problema - e tra l'altro
un'accurata analisi dei cicli economici e delle condizioni del loro
sviluppo porta a conclusioni meno assolute sia in termini di tassi di
crescita, sia ed ancor di piu' in termini di tasso di occupazione e di
composizione del valore aggiunto - ma ridurre essenzialmente ad esso il
cardine di un ragionamento che riteniamo abbia motivazioni piu' complesse
porta ad uno strabismo di impostazione le cui conseguenze sia in termini di
assetto del sistema, sia in termini di modalita' reali del suo
funzionamento e, di conseguenza, in termini di risultati sul medio e lungo
periodo sono potenzialmente devastanti. In termini politici e'
sorprendente che venga riproposta quella semplificazione ormai da tempo
superata che confonde la crescita con il progresso, laddove la prima e'
una mera misura attualizzata del contenuto economico, mentre il secondo
- anche prescindendo da altre considerazioni che pure potrebbero essere
fatte - e' quel compleso di condizioni che la rendono, qui ed oggi,
possibile. Ragionare nell'ambito di questa semplificazione ha portato
spesso nel passato a valutazioni erronee, le cui conseguenze poi sono
risultate evidenti sul medio e lungo periodo.

Si pensi, ad esempio, a cosa implica, in relazione alla programmazione
dell'offerta formativa del sistema universitario nazionale, teorizzarne una
sostanziale subalternita' a valutazioni di mera domanda attuale, o
prevedibile sul breve periodo, da parte del mercato del lavoro;
paradossalmente cio' provocherebbe sul medio-lungo periodo esattamente
l'effetto opposto a quello che ci si propone, sia in termini di
distribuzione quantitativa dei laureati nelle diverse discipline, sia in
termini della qualita' della formazione specificamente loro fornita. Cio'
e' particolarmente vero per quanto riguarda l'equilibrio che deve esistere
nella composizione dell'offerta formativa tra formazione di base e
contenuti piu' direttamente professionalizzanti: si tratta evidentemente
di un fattore delicatissimo, da cui discende la capacita' delle persone
non solo di inserirsi nel mercato del lavoro, ma soprattutto di adeguarsi
successivamente ai suoi mutamenti.

Oppure si pensi a cosa implica in termini di assetto del sistema, come
implicitamente proposto, sostenere che l'esistenza o meno di specifici
Enti di Ricerca e' funzione degli obiettivi che di volta in volta vengono
dati al sistema mediante lo strumento del Piano Triennale: nella migliore
delle ipotesi significherebbe dover ricondurre necessariamente l'intera
attivita' di ricerca di base nell'ambito universitario, negando nei fatti
l'idea stessa di un sistema nazionale basato sull'equilibrio di tre reti
di ricerca distinte ed intercomunicanti. Che questa non sia un'opinione e'
confermato nelle "Linee guida" stesse, laddove il risultato atteso
dall'investimento sull'Asse 1 ("Avanzamento delle frontiere della
conoscenza") e' determinato unicamente in riferimento alla qualificazione
scienifica ed al grado di internazionalizzazione del sistema universitario
nazionale.

Noi condividiamo l'obiettivo di aumentare la capacita' di innovazione
complessiva del Paese, di aumentare le risorse pubbliche e private destinate
a questo scopo e di rendere piu' disponibili e fruibili anche al sistema
produttivo i risultati dell'attivita' di ricerca; ed e' tanto ovvio
il fatto che cio' implichi la necessita' di incentivare il sistema
pubblico a muoversi anche in questa direzione che, appunto nel Patto
del settembre 1996, questo obiettivo veniva esplicitato ed assunto tra
le priorita' del processo di riforma; se, però, nei fatti, si subordina
il sistema pubblico agli interessi privati, in realtà si rende l'intera
ricerca asfittica, ristretta in obiettivi di breve periodo. In altre parole
noi non crediamo che l'esigenza di un sistema pubblico di ricerca e di
formazione derivi esclusivamente dall'incapacita' o dall'impossibilita' -
per motivi strutturali o altro - del sistema produttivo di darsene uno
proprio, ma che compito imprescindibile dello Stato sia quello di rendere
disponibile la conoscenza ed i vantaggi che da essa derivano alla societa'
nel suo complesso, incluso ovviamente lo stesso sistema produttivo.

La condivisione di questo discrimine porto' allora a disegnare un progetto
di riforma del sistema basato su un dosato equilibrio tra la necessita'
di una attivita' di programmazione dell'attivita' di ricerca da parte
del Parlamento e del Governo, l'esercizio, difficile, dell'autonomia
da parte di Universita' ed EPR e l'implementazione di un sistema di
valutazione, la cui attivita', in quanto terza, consente il necessario
feedback tra programmazione ed autonomia e viceversa, senza implicare
una subalternita' strutturale ed irreversibile dell'una sull'altra.
Si tratta, come e' ovvio, di un equilibrio dinamico difficile da
esercitare, ma che tuttavia ci sembrava e ci sembra tuttora la migliore
soluzione praticabile.

Quel progetto non e' stato ancora compiutamente realizzato, sia perche'
ancora non sono ancora stati insediati ne' i Consigli scientifici
nazionali ne' l'assemblea della scienza e della tecnologia, organi la
cui istituzione veniva prevista dal D.Lgs. 204/98, oltre che come organi
di consulenza, come organi di massima espressione dell'autonomia di
sistema, in quanto "formulano osservazioni e proposte per l'elaborazione
e l'aggiornamento del PNR, sulla coerenza con esso dei piani e programmi
delle amministrazioni pubbliche e degli enti di ricerca, nonchè circa lo
stato e l' organizzazione della ricerca nazionale", sia perche' lo stesso
sistema di valutazione parimenti previsto dal D.Lgs. 204/98 e' ben lontano
dalla compiuta realizzazione.

Se gli obiettivi del Patto del settembre 1996 fossero condivisi dal Governo
si dovrebbe intervenire da un lato per completare l'architettura prevista
dal D.Lgs. 204/98, dall'altro sulle "Linee Guida", riequilibrando
quantitativamente la ripartizione delle disponibilita' di risorse
aggiuntive, ma, soprattutto, per rivedere quegli aspetti nella definizione
degli obiettivi e delle modalita' di attribuzione dei finanziamenti che,
esasperando la funzione di programmazione attribuita a Governo e Parlamento,
minano l'esercizio pieno dell'autonomia e rischiano infine di
disequilibrare la natura pubblica stessa del sistema.

Diciamo questo perche' l'ipotesi semplificativa che riconduce la ragione
prevalente, se non unica, dell'intervento dello Stato nell'attivita' di
ricerca alla potenzialita' insita nell'attivita' di R&S di agire come
moltiplicatore per la competitivita' del sistema economico, porta come
conseguenza necessaria un'architettura dell'intero documento governativo
assolutamente distorta: quasi il 90% del finanziamento previsto -
teoricamente un investimento vistoso, pari nel 2006 a circa 5400 Mln.
di Euro, ma la cui effettiva disponibilita' e' tutta da verificare
essendo legata ad una previsione di crescita media del PIL del 2,5% per
ciascuno dei prossimi quattro anni - e' destinato agli assi 2, 3 e 4
("Sostegno alla ricerca scientifica orientata allo sviluppo di tecnologie
chiave abilitanti a carattere multisettoriale", "Potenziamento delle
attivita' di ricerca industriale e relativo sviluppo tecnologico,
finalizzate ad aumentare la capacita' delle imprese a trasformare
conoscenze e tecnologie in prodotti e processi a maggiore valore aggiunto"
e "Promozione della capacita' di innovazione nei processi e nei prodotti
delle piccole e medie imprese e creazione di aggregazioni sistemiche a
livello territoriale") previsti nelle "Linee guida", assi che prevedono
attivita' di ricerca esplicitamente ed unicamente finalizzate al sostegno
dell'attivita' industriale, sia che esse vengano esercitate dal sistema
pubblico, dal sistema industriale o congiuntamente tra i due.

Si potra' obiettare che di finanziamenti aggiuntivi si tratta e quindi,
ad esempio e per male che vada, la ricerca di base godra' di finanziamenti
comunque incrementati - a regime nel 2006 e se tutte le ipotesi su cui si
basa il Piano saranno effettivamente realizzate - di circa 600 Mln di Euro.
Ed in generale che comunque di risorse aggiuntive si tratta e che quindi
nulla di quanto gia' esiste viene negato.

Certamente. Ma e' parimenti indiscutibile che in un sistema nazionale di
ricerca notoriamente ai limiti di sopravvivenza l'immissione di risorse
aggiuntive di tale entita' - se mai saranno effettivamente rese
disponibili - e in misura cosi' squilibrata da un punto di vista quantitativo e
qualitativo verso il sostegno esclusivo all'impresa diretto od indiretto,
non potra' non esercitare una possente leva verso il riorientamento non
solo delle attivita' di ricerca effettivamente svolte nelle Universita'
e negli Enti - obiettivo esplicito delle "Linee Guida" sulla cui
condivisibilita' si ritornera' piu' oltre - ma anche nei loro
meccanismi concreti di governo e di funzionamento, negli assetti e negli
equilibri dell'intero sistema pubblico di ricerca e di alta formazione;
il documento governativo sembra ignorare questo delicato aspetto della
questione che invece ci preoccupa non poco perche' implica non solo una
ridefinizione degli obiettivo di breve periodo del sistema pubblico,
condivisibile o meno, ma, di fatto, una ridefinizione per via indiretta
dei suoi assetti e dei suoi compiti istituzionali. Ci sembra del tutto
chiaro che tra le conseguenze piu' probabili di questo intervento ci siano
l'accentuazione del ruolo di "servizio" del sistema degli EPR e, in
assenza di meccanismi di riequilibrio, della capacita' di alcuni atenei di
ritagliarsi una posizione prevalente nel sistema universitario nazionale.

Lo squilibrio e' poi assai evidente dal punto di vista quantitativo poiché
la ripartizione delle risorse aggiuntive viene prevista essere, a regime nel
2006, rispettivamente per gli assi 1, 2, 3 e 4 dell'11,5%, del 36,4%, del
44,6% e del 7,5%, ma che risulta ancora più accentuato da un'accurata
analisi in particolare degli obiettivi e degli impatti attesi per l'asse
2, quello rivolto alla ricerca "mission oriented" da parte dei soggetti
pubblici: vengono identificati 4 settori di intervento (biotecnologie e
post-genomica, nanotecnologie e materiali intelligenti, Information and
Communication Technology ed, infine, tecnologie aerospaziali) sulla base
dell'unica considerazione delle potenzialità di sviluppo dei
corrispondenti settori industriali high-tech e gli impatti attesi sono
quasi esclusivamente espressi in riferimento alla qualificazione del
sistema produttivo. Anche una quota significativa dei finanziamenti
previsti per gli assi 3 e 4 potrà essere destinata dal sistema delle
imprese a realizzare programmi congiunti con il sistema pubblico - in
particolare per la previsione della concessione di vantaggi fiscali alle
aziende che ad esso si rivolgano per le loro esigenze di ricerca: cio'
accentua ulteriormente l'effetto di riorientare in maniera unidirezionale
le attivita' di ricerca pubbliche verso risultati di tipo meramente
applicativo e spesso presumibilmente focalizzarle sul
raggiungimento di obiettivi a breve termine di immediata utilizzabilita'
da parte del sistema industriale (1).

Per far crescere l'investimento privato in ricerca ed innovazione e per
metterlo in relazione con le potenzialita' del sistema pubblico degli
atenei e degli EPR si ripercorre, in buona sostanza, una strada gia'
battuta con la
L. 46/1982 e, successivamente, con il D.L. 297/1999, quella dell'incentivo
pubblico, diretto o indiretto, alla ricerca industriale e della coercizione
al cofinanziamento pubblico/privato per una buona parte delle attivita' di
ricerca svolte da soggetti pubblici: una lettura poco meno che sommaria di
cio' che e' stato realizzato utilizzando quegli strumenti legislativi
indica chiaramente che se, da un lato, la capienza di spesa e' stata
pressoche' integralmente utilizzata, dall'altro sia la quantita'
dell'investimento privato in R&S, sia ancor di piu' la qualita' degli
obiettivi di tale investimento non sono significativamente aumentate. Che
cio' sia vero e' implicitamente riconosciuto nella prima parte del
documento governativo stesso. E' del tutto evidente, ormai, e questi fatti
stanno a dimostrarlo, che cio' che il Governo indica - piuttosto
ideologicamente, invece che su di una base documentata - come uno dei punti
di forza del sistema italiano dell'innovazione, ovvero l'essere quello
italiano "un sistema produttivo altamente flessibile basato su di un
numero elevato di piccole e medie imprese", e', dal punto di vista
delle potenzialita' di innovazione del sistema se non altro, un handicap
piuttosto che un vantaggio: cio' sia perche' le piccole aziende hanno una
strutturale difficolta' all'investimento non solo a causa delle loro
dimensioni, ma anche a causa della scarsissima disponibilita' di capitale
di rischio, sia per la loro distribuzione nei diversi settori merceologici
che vede la maggior concentrazione nei settori a piu' basso contenuto
tecnologico, sia, infine, a causa della bassissima cultura
dell'innovazione degli imprenditori stessi, la stragrande maggioranza dei
quali non ha, per fare solo un esempio, un titolo di studio superiore.
Sono queste tre differenze assolutamente significative se confrontate con
le corrispondenti condizioni, ad esempio, della California dove invece le
piccole e piccolissime imprese sono risultate - in una condizione di ciclo
economico estremamente particolare, peraltro - nel decennio scorso il motore
dell'innovazione. Immaginare che il rapporto tra il sistema della PMI
italiana ed il sistema pubblico di alta formazione e di ricerca possa
tramutarsi in tempi relativamente brevi, con il ricostituente di una
robusta iniezione di risorse esclusivamente, in qualcosa di simile al
rapporto tra le PMI californiane ed il corrispondente sistema pubblico
di universita' e laboratori di ricerca, portera' ad investire risorse
ingenti, se mai saranno disponibili, senza la minima possibilita' di
realizzare i risultati attesi.

Occorre secondo noi ripensare complessivamente queste politiche, avendo
ben chiaro, innanzitutto, che e' impensabile nella specifica situazione
italiana - che, come dicevamo, parte ad handicap sul terreno
dell'innovazione prevalentemente perche' le PMI sono dislocate soprattutto
su settori merceologici tradizionali ed a basso contenuto tecnologico - che
il Piano Nazionale della Ricerca possa essere concepito in surroga di una
coerente politica industriale che abbia come assi portanti lo stimolo al
riorientamento settoriale ed alla concentrazione della PMI in una struttura
meno frammentaria; appare oltretutto contraddittorio, da questo punto di
vista, che nelle "Linee Guida" proprio l'asse 4, che in qualche misura
potrebbe contribuire al perseguimento di questi obiettivi, sia marginale
quantitativamente rispetto all'investimento previsto per l'asse 3. La
pretesa quindi che l'investimento pubblico in ricerca ed innovazione si
tramuti in un ritorno misurabile in tempi brevi e' strutturalmente
insostenibile.

Certamente meglio sarebbe pensare ad una rifinalizzazione degli incubatori
industriali esclusivamente sui settori high-tech, ad un potenziamento della
domanda di nuova conoscenza e tecnologia sia indirizzando il consumo privato,
sia indirizzando il settore pubblico verso l'offerta di nuovi servizi e la
qualificazione di quelli gia' disponibili nei settori della tutela
ambientale, della sicurezza, della salute, della tutela del patrimonio
in beni culturali del Paese, solo per fare alcuni esempi.

Inoltre il disegno del Governo si caratterizza per un accentuato
potenziamento dell'attività di programmazione centralizzata che, oltre a
modificare di fatto la natura dell'equilibrio previsto dal D.L. 204/99
appropriandosi di diverse delle funzioni proprie dell'autonomia di
Università e di Enti e del sistema di valutazione, mira a reindirizzare
l'attività istituzionale di soggetti pubblici, restringendo il ventaglio
delle opzioni possibili essenzialmente ad una sola, il vantaggio competitivo
del sistema industriale.

Dal punto di vista poi della relazione tra questo modello di intervento e le
previsioni e gli obiettivi del VI Programma Quadro dell'U.E. molto ci
sarebbe dire: ci limitiamo ad osservare che l'U.E. punta si' ad un
aumento della competitivita' dell'economia dei Paesi aderenti in cui
l'innovazione e la ricerca giocano un ruolo fondamentale, ma che, in totale
controtendenza rispetto alle "Linee Guida", viene enfatizzato fortemente il
valore sociale che i risultati della ricerca possono e debbono avere e, anzi,
obiettivo prioritario diviene quello del miglioramento della qualita'
della vita.

Per quanto riguarda poi gli specifici interventi previsti per le Università
e gli Enti non è condivisibile la revisione del percorso del dottorato di
ricerca sia per quanto attiene la sua esplicita finalizzazione non più solo
alla formazione di personale addetto a funzioni di ricerca pubblica o privata,
ma anche per una generica alta qualificazione per l'industria,l'agricoltura
ed i servizi con ciò oltretutto sovrapponendosi ad altre tipologie di corsi
universitari (corsi di perfezionamento, masters), sia per quanto attiene la
previsione del suo possibile finanziamento in parte a carico del sistema
industriale; si tratta di un intervento discutibile in linea di principio
perché ne snatura la funzione stessa di percorso formativo dedicato alla
preparazione dei ricercatori e che prefigura l'introduzione nell'intero
sistema formativo pubblico dell'idea che laddove esistano contenuti
professionalizzanti sia il sistema privato delle imprese a poterne
determinare i contenuti.

Troviamo inaccettabile poi l'idea che per il tramite del Piano Triennale
vengano dettati non solo gli obiettivi del sistema, ma gli stessi standard
di valutazione, laddove, ad esempio, vengono elencati in modo dettagliato
i parametri sulla base dei quali verrà valutata l'attività scientifica
degli atenei e la conseguente attivazione di meccanismi premianti il
conseguimento di risultati di eccellenza: si distorce così lo strumento
della valutazione utilizzandola impropriamente come strumento di
indirizzamento dell'attività degli atenei, riducendone l'autonomia
a mero esercizio applicativo. P. es. quando tra i parametri di valutazione
si pongono il numero e il valore economico dei brevetti, è evidente che
l'effetto ricercato è quello dello spostamento dell'asse della ricerca
universitaria verso la ricerca applicata.

E' grave poi che si affermi, in via del tutto generale e senza fornire
alcun elemento a supporto, che "l'autonomia degli Enti si è espressa
su scelte di carattere politico-strategico che hanno in alcuni casi
travalicato il principio dell'autonomia scientifica" e che "ciascun Ente,
di conseguenza, si è trovato immesso in logiche autoreferenziali": se
l'affermazione fosse vera se ne dovrebbe dedurre che non di attività
di ricerca si sta parlando, ma di vera e propria distrazione di fondi
pubblici.

Come già sottolineato non è possibile sostenere che il PNR sia lo strumento
attraverso il quale si definisce il ruolo e la funzione degli EPR, nel
loro complesso ed invidualmente: il PNR è lo strumento di indirizzo
attraverso il quale ai soggetti del sistema vengono dati gli strumenti
generali di programmazione, la missione di ciascun ente è definita nella
Legge istitutiva e nello Statuto. La sovrapposizione di uno strumento di
indirizzo all'attività di tipo legislativo, ancora una volta, lascia
intravedere, oltre che uno scarso senso del ruolo istituzionale degli Enti,
una evidente volontà di far prevalere una programmazione centralistica
sull'autonomia scientifica. Se il Governo ha intenzione di mettere mano ad
una nuova riforma del sistema nazionale di ricerca si assuma la responsabilità
politica di dichiararlo esplicitamente, definisca le motivazioni e gli
obiettivi ed apra la discussione: non entriamo quindi nel merito della
maggior parte degli obiettivi che le "Linee Guida" danno per quanto
attiene agli EPR, ritenendo che la loro discussione debba avvenire
distintamente da quella del Piano Triennale.

Desta, inoltre, preoccupazione l'affermazione che occorra introdurre
nel personale scientifico una cultura manageriale: se, certamente, questo
personale deve curare la congruità tra le risorse umane e materiali impiegate,
è altrettanto vero che un'organizzazione per la ricerca scientifica non è
un'impresa privata e, dunque, la managerialità deve adattarsi a questa
specificità.

Per quanto riguarda, infine, le questioni relative al "Potenziamento del
capitale umano", questione molto seria ed alla quale è bene sia stato dato
un evidente rilievo, troviamo estremamente limitativo che si pensi alla
necessità dell'organizzazione del lavoro scientifico su basi
interdisciplinari in relazione all'incremento della capacità di
commercializzazione dei risultati della ricerca; assolutamente non
condivisibile e' poi il vincolo che viene posto sull'utilizzo delle
risorse aggiuntive che non potranno essere impiegate per la copertura di
costi relativi a personale di ruolo: dal che si deduce, partendo dai dati
di previsione del piano stesso, che nel 2006 il numero di precari nelle
Università e negli Enti di ricerca sarà aumentato di almeno 30000 unità (2),
portando il rapporto tra personale di ruolo e personale precario ad un
livello insostenibile per l'intero sistema. E comunque almeno altri
24000 (3) precari saranno stati creati nel sistema industriale. Sempre
che le previsioni siano rispettate. Anche a questo proposito, si parte
da un postulato ideologico, ovvero che la precarietà sia uno stimolo
alla ricerca; si tratta di un presupposto non dimostrato, nè dimostrabile
perché falso: il sistema americano, che si basa su una percentuale minore
di posizioni permanenti rispetto a quello italiano, non e' competitivo
per la maggior precarieta', ma perche' la domanda complessiva di ricerca
e di innovazione da parte della societa' e del sistema produttivo e'
enormemente superiore a quella che si realizza in Italia, come di deduce
dal fatto che circa il 75% della spesa in R&S negli USA e' causata dal
settore privato (4). Ancora una volta si imitano modelli organizzativi
propri di altri sistemi senza valutare analogie e differenze: la
precarieta' implica semmai spesso la tendenza da parte dei (giovani)
ricercatori ad impegnarsi in attivita' di corto respiro, sia sotto il
profilo temporale, sia sotto il profilo culturale. Né può essere trascurato
che, nelle università italiane, questa precarietà mal si concilia con la
necessità di preparare il radicale rinnovo del personale universitario che
dovrà realizzarsi nel corso del decennio tra il 2010 e il 2020.
___________________________________________

Note:
(1) A questa conclusione si puo' giungere analizzando accuratamente i progetti di ricerca industriale finanziati o cofinanziati nell'ultimo decennio.
(2) Circa la meta' del finanziamento previsto e' destinato tramite gli assi 1 e 2 al finanziamento di attivita' di ricerca svolte dal sistema pubblico; parametrando su questo dato le ipotesi del piano, circa la meta' dei 54000 nuovi occupati per effetto diretto dell'investimento si dovrebbero realizzare nel sistema pubblico. Abbiamo sovrastimato a 30000 unita' questo effetto in linea con la previsione che una parte dei finanziamenti alla ricerca industriale possano rientrare direttamente o indirettamente nelle disponibilita' di atenei ed EPR.
(3) Per differenza dal dato complessivivo di previsione di 54000 nuovi posti.
(4) Fonte: OCSE, 1999.