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Il documento conclusivo della Consulta R&T del 14 febbraio

L'analisi dei dati sulla propensione all'innovazione del sistema produttivo italiano non lascia adito a dubbi, specialmente se viene compiuta in raffronto ai dati corrispondenti dei paesi OCSE, degli USA, del CANADA e del GIAPPONE: la differenza sostanziale sta nella carenza di domanda di innovazione interna al sistema produttivo stesso.

14/02/2003
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L'analisi dei dati sulla propensione all'innovazione del sistema produttivo italiano non lascia adito a dubbi, specialmente se viene compiuta in raffronto ai dati corrispondenti dei paesi OCSE, degli USA, del CANADA e del GIAPPONE: la differenza sostanziale sta nella carenza di domanda di innovazione interna al sistema produttivo stesso. Se è del tutto evidente come da ciò derivi la relativamente bassa percentuale (sul PIL) di investimenti privati in R&S, ciò che apre un problema di prospettiva è invece l'analisi delle cause di tale dato.
E' sicuramente vero che il sistema produttivo italiano è caratterizzato da un lato dalla frammentarietà dall'altro dalla distribuzione prevalente in settori merceologici tradizionali a basso contenuto di conoscenza e di tecnologia. Ed è altrettanto vero che entrambi questi fattori sono per natura di ostacolo, o comunque non favoriscono i processi di innovazione di prodotto, perlomeno su larga scala e di durata duratura.
Si tratta, perlomeno per quanto riguarda la questione della frammentazione di un argomento spesso controverso: è stato sostenuto da molti che proprio la flessibilità di un sistema produttivo basato su una moltitudine di piccole e medie imprese e la conseguente capacità di adattamento alle fluttuazioni del mercato sia uno dei punti di forza del sistema italiano (v. "LINEE GUIDA"). Non ci sembra si tratti di un'osservazione condivisibile, anche prescindendo dall'ovvia considerazione del costo sociale implicito in un tale approccio, anzi essa è contraddittoria con i dati citati sulla propensione all'innovazione del sistema produttivo italiano. Un'analisi appena meno superficiale suggerisce che la flessibilità, ed anche spesso la frammentazione delle imprese di alcuni distretti - high-tech sia conseguenza, e non causa, di un'impetuosa domanda di innovazione proveniente dai settori industriali, della tendenza all'outsourcing dei settori a più alto rischio, dell'elevata competitività che, talvolta si spinge fino alla dimensione dell'individuo singolo. Ma, ad esempio, negli USA, la domanda di innovazione proviene in massima parte dal settore industriale e dei servizi, per la larghissima parte da imprese medio-grandi e grandi.
Anzi un'analisi più di lungo periodo suggerisce come lo stimolo iniziale alla rincorsa tecnologica in atto negli USA da circa 25 anni abbia tra le sue cause più evidenti i massicci investimenti di natura pubblica effettuati a partire dagli anno '50 e '60 nei settori delle TLC, dell'elettronica, dell'aerospazio e dell'aeronautica - solo per citare i casi maggiori - conseguenti alla guerra fredda, alla competizione militare tra i due blocchi, alla corsa alla conquista dello spazio. Il caso della Sylicon Valley che viene spesso usato a paradigma e prototipo di ogni modello futuribile di innovazione è, invece, per molti versi un caso unico ed irripetibile; perfino scorretto sembra l'attributo "sylicon" trattandosi spesso prevalentemente di produzione di software, ovvero di produzione tipicamente immateriale che richiede un investimento iniziale pressoché nullo - e per converso richiede, ci torneremo più avanti, la diffusa disponibilità di conoscenze e competenze di elevatissima qualità; quando si è trattato di produzione di hardware spesso si è trattato più di ingegnerizzazione e assemblaggio di componenti altrimenti prodotti che di produzione vera e propria, o comunque della produzione di prototipi o in piccola serie,
E comunque, o se si preferisce a riprova di ciò, rimane il fatto che a distanza di 20 anni, di tutte le start-up californiane le sopravvissute si contano oggi sulle dita di una mano, essendo state la maggior parte di quelle che effettivamente produssero idee commercializzabili - una minoranza assoluta sul totale, peraltro - riassorbite da quello stesso sistema industriale da cui erano state gemmate. E' inoltre di rilievo l'osservazione circa la enormemente maggiore disponibilità di capitale di rischio in USA piuttosto che in ITALIA.
E' possibile, ma tutt'altro, che garantito, che condizioni simili possano generarsi in futuro in alcuni settori della produzione legati principalmente al settore bio-sanitario, laddove di nuovo sono necessari relativamente piccoli investimenti in capitale, elevatissime competenze specifiche e laddove sia prevedibile, almeno nel breve periodo, una produzione quantitativamente limitata: una sorta di "artigianato tecnologico" per intendersi.
Rimane invece riaffermato, anche dall'analisi di questo caso "unico", la validità di quanto si diceva in precedenza, ovvero l'assoluta centralità nei processi di innovazione industriale delle imprese di dimensioni medie e medio-grandi collocate nei settori ad alto contenuto di tecnologia e di conoscenza. Risulta anche chiaro come non sia il mero "contenuto in tecnologia" di un prodotto o di un processo a renderlo "ipso facto" innovativo, ovvero adatto a riprodursi moltiplicandosi in altri prodotti e processi, ma il più complesso "contenuto in conoscenza e tecnologia": non la pura espressione applicativa di una conoscenza, la tecnologia appunto, ma la capacità anche di proporsi come modello, come esempio, come proposta implicita al resto del sistema produttivo, dei servizi ed a consumatori. Un prodotto o un processo innovativo non è insomma, semplicemente futuribile, funzionale e utile (o apprezzabile), ma è in grado di proporsi come prototipo di innovazione per prodotti o processi simili, analoghi o comunque ad esso relazionabili.
Questa considerazione porta due immediate conseguenze di rilevanza per il sindacato: la prima è la non scindibilità delle politiche per la ricerca e l'innovazione da quelle per la formazione, la diffusione della cultura e della conoscenza, e l'istruzione, considerazioni su cui torneremo in seguito.
La seconda attiene invece all'analisi dell'attuale situazione di declino industriale del paese, con particolare, ma non esclusivo riferimento alle pratiche in favore dell'innovazione industriale seguite nell'ultimo ventennio, il caso FIAT è per moti aspetti esemplificativo, ma considerazioni analoghe valgono ad esempio per la parabola OLIVETTI nel settore dei PC, nel settore della chimica di sintesi o della produzione di energia (NIRA, Ansaldo). In tutti questi casi, in buona sostanza, il sistema produttivo manifesta un elevato contenuto in tecnologia, quasi sempre nei processi produttivi, spesso anche nei prodotti che da quei processi risultano: ma ciò che è evidente, specialmente nei casi FIAT e OLIVETTI, è la incapacità a rendere non episodica od occasionale - specifica cioè della singola gamma di processi e prodotti - l'innovazione tecnologica, ma concepirla come parte di un processo strutturalmente stabile. Si tratta, in parte di una conseguenza dell'incapacità del sistema produttivo a stare sulla frontiera dell'innovazione tecnologica, in parte di una causa della medesima incapacità.
Ma a correggere questo dato riteniamo siano insufficienti od inefficienti le politiche di sostegno alla ricerca industriale, fin qui adottate, fino al pur innovativo D.lgs 297/99; se, infatti, il sostegno alla ricerca industriale si esercita in una mera offerta di incentivi all'innovazione in un sistema che è carente in modo evidente di domanda di innovazione da parte del sistema produttivo, è evidente che nella stragrande maggioranza dei casi l'imprenditore si rivolge a soddisfare l'unica domanda a lui certamente nota, ed anzi da lui certamente addirittura governabile: quella proveniente dall'interno dell'azienda stessa, ovvero prevalentemente rivolta all'innovazione di processo che consente di ridurre il costo vivo del lavoro tramutandolo in investimenti in conto capitale. E se ciò avviene per le imprese medio-grandi o grandi, come nei casi citati, non può non avvenire, a maggior ragione e con maggiore intensità per le imprese piccole e piccolissime, specie se dislocate in settori produttivi tradizionali.
L'automazione dei processi produttivi diviene così, è storia di tutti gli anni '80 e '90, il vero settore trainante e non è un caso se il settore della produzione di macchinari per le imprese è uno dei settori meno toccati dalle crisi recenti. A differenza che, ad esempio negli Stati Uniti, ciò si traduce in un saldo netto negativo sotto il profilo occupazionale perché, non trattandosi di un processo realmente innovativo come discusso poco sopra, non ha la capacità di trasformare la distribuzione settoriale dell'apparato produttivo esercitando un effetto attrattivo e di traino verso i settori a più alta tecnologia ed contenuto di conoscenza.
Quello che sembra veramente mancare è allora la volontà politica di aggredire questa questione con una vera e propria politica industriale coerente che favorisca la trasformazione e l'aggregazione del tessuto produttivo: anzi, l'evoluzione delle posizioni di Confindustria indica con nettezza la scelta di consolidamento di questa impostazione tradizionale, cristallizzandola nell'ambito ideologico fornito dal neo-liberismo, in stretto rapporto con alcuni settori dell'attuale maggioranza, prevalentemente facenti capo all'ala liberal di FI ed alla Lega. Il "modello nord-est" diventa paradigma dell'azione di Governo e Confindustria non solo sul versante della battaglia per l'aumento incontrollato della flessibilità del mercato del lavoro, ma anche sul versante delle politiche per l'innovazione: la teorizzazione della ricerca adattiva e la riduzione dei fondi ai soggetti pubblici che fanno ricerca di tipo fondamentale, il tentativo di rimodellare funzioni e compiti della rete degli Enti Pubblici di Ricerca in senso subalterno alle esigenze e necessità contingenti dell'impresa, l'idea che si possano selezionare le priorità del sistema scientifico nazionale sulla base della loro maggiore capacità di agire come possibili o potenziali moltiplicatori di produttività, sono scelte che indicano, nella migliore delle ipotesi, la volontà del Governo di affrontare la questione della bassa propensione all'innovazione del sistema produttivo esclusivamente dal punto di vista dell'aumento e della rimodulazione dell'offerta di innovazione - da parte del sistema pubblico, ovviamente, data l'incapacità del sistema industriale a sostenerne gli oneri - e non sul versante delle politiche atte a stimolarne la domanda.
Qui sta il nocciolo del problema di prospettiva che ci si pone: quali siano le strade attraverso le quali affrontare un confronto che ha nelle singole questioni di merito i punti qualificanti di una plausibile iniziativa di tipo sindacale, evitando di arroccare la nostra iniziativa su di una posizione "di testimonianza".
Sul piano del merito crediamo andrebbe affrontata una discussione critica delle politiche in favore degli incubatori di impresa, accettando la scommessa di finalizzarli nei soli settori ad elevata tecnologia e contenuto di conoscenza; che si dovrebbero approfondire le modalità di utilizzo degli strumenti della programmazione negoziata in modo da favorire la selezione di quei modelli che favoriscano la trasformazione e l'aggregazione del tessuto produttivo, l'emergere di una domanda perlomeno coordinata, se non ancora omogeneamente finalizzata, di innovazione dalle PMI; che si dovrebbero rivedere gli strumenti di incentivo alla ricerca industriale previsti dal D. Lgs. 297/99 prevedendo, perlomeno, strumenti di valutazione dei progetti presentati in base sia alla loro sostenibilità nel tempo sia alla potenzialità di ulteriore loro diffusione territoriale al di fuori della o delle aziende proponenti; in prospettiva si dovrebbe prevedere l'introduzione di strumenti di programmazione su base territoriale o settoriale dell'utilizzo degli incentivi alla ricerca industriale, sulla base di politiche concertate. In altre parole si deve arrivare al coordinamento dei diversi strumenti di intervento in modo da rendere ciascuno di essi non un unicum, ma un segmento di una coerente politica industriale per l'innovazione. Non vi è dubbio che su questo terreno vi saranno resistenze, talvolta di natura ideologica, talvolta derivanti dalla redistribuzione materiale di quote di potere all'interno dei ministeri interessati, o ancora provenienti da quei settori industriali che fino ad oggi hanno concepito questi interventi come forme di sostegno indiretto alle aziende. Siamo tuttavia convinti che affrontare questa questione consenta di aprire contraddizioni di non semplice soluzione all'interno di Confindustria e dell'asse di quest'ultima con il Governo. Alcuni significativi passi in questa direzione sono stati recentemente fatti in Campania ed Emilia-Romagna.
E' probabile però che anche uno schema di questo genere risulti carente, o che perlomeno i tempi di maturazione del sistema produttivo utilizzando solo questi strumenti siano troppo lunghi per risultare significativi nella competizione globale. E allora è utile notare che tra le eccezioni al panorama disegnato, per lo meno sotto il profilo della ricerca e dell'innovazione, c'è quello della produzione di beni ed attrezzature di interesso bio-sanitario, dalla farmaceutica ai macchinari per la diagnostica, la cura e le riabilitazione: la domanda di beni e servizi innovativi proviene in questo caso dall'esigenza di migliorare e qualificare i servizi al cittadino del SSN. E' allora legittimo chiedersi se non sia concepibile un intervento diretto, come in questo caso, o indiretto del sistema pubblico come soggetto che stimola e propone in proprio la domanda di innovazione rivolta al sistema produttivo e dei servizi, pratica che può essere rivolta contestualmente al miglioramento delle prestazioni pubbliche verso i cittadini e, in diversi contesti, anche ad una effettiva riduzione dei costi. Non dovrebbe nemmeno essere il caso di sottolineare che l'informatizzazione è solo uno degli aspetti del problema: da essa ci si può attendere un miglioramento della qualità dei servizi, un abbattimento dei costi e un miglioramento della produttività della pubblica amministrazione, ma è difficile immaginare che da essa venga invece una spinta all'innovazione del sistema produttivo essendo il nostro paese prevalentemente importatore sia nel settore hardware, sia in quello software.
Il sistema pubblico di ricerca e alta formazione - atenei ed enti pubblici di ricerca, primariamente, a cui vanno aggiunti però perlomeno l'ENEA, gli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, la ricerca e parte della formazione specialistica dei medici effettuata nelle aziende del SSN, alcune delle attività svolte dagli Ist. Zooprofilattici, attività di ricerca pubblica gestite direttamente da alcuni ministeri e da diverse regioni - assume un ruolo centrale, sia perché la formazione della conoscenza e la sua riproduzione non possono essere delegate ad un sistema privato, né per ragioni di principio, né per ragioni di funzionalità o di costi, ma anche perché il processo di costruzione di una rete privata di ricerca richiede tempi medio-lunghi: l'errore principale del modello di riforma impostato dal governo di centrodestra per le università e per gli enti pubblici di ricerca è quello di prevedere per essi un ruolo di supplenza dell'attività di R&S privata invece che cercare di costruire le condizioni per un suo sviluppo: E' nostra ferma convinzione che su questa strada si ottengano vantaggi trascurabili a fronte di numerose e serie controindicazioni:
· l'organizzazione dei saperi è necessariamente diversa nella fase della loro formazione e riproduzione rispetto alla fase di loro trasposizione in processi produttivi, prodotti e servizi, anche prescindendo da questioni legate alla brevettabilità o al segreto industriale;
· drasticamente diversa è ovviamente anche l'organizzazione del lavoro nel campo della ricerca perché come si diceva diversi sono gli scopi, i tempi ed i modi della formazione della conoscenza;
· la frammentarietà della domanda rende impossibile sostenere un'attività di ricerca credibile sulla base delle attività commissionate;
la strada perseguita dal Governo di rendere immediatamente subalterna agli interessi di impresa di una larga parte dell'attività di ricerca dei soggetti pubblici ha quindi come immediata conseguenza la necessità della trasformazione della loro modalità organizzativa - ed a questo sembrano funzionali i decreti legislativi attualmente in discussione - delle modalità del loro finanziamento - si vedano in proposito le "Linee guida per la politica scientifica e tecnologica del governo" - ma ha come conseguenza di medio periodo quella di rendere incapaci i soggetti pubblici di svolgere il ruolo primario a loro affidato, ovvero come si diceva quello della riproduzione oltre che della produzione della conoscenza. Si estenderebbero, paradossalmente, per questa via anche al sistema pubblico di ricerca i mali che abbiamo individuato per i processi di innovazione industriale praticati negli ultimi venti anni: l'accentuata attenzione verso il contenuto in tecnologia del risultato finale, sia esso processo o prodotto, invece della ricerca del suo contenuto in conoscenza che può essere molto più efficientemente e stabilmente diffuso e riprodotto, reso cioè infine disponibile effettivamente per i processi di innovazione. In questo vediamo la ragione profonda per una coesistenza con ruoli però ben definiti e distinti di una attività di ricerca pubblica e privata.

Roma,14 febbraio 2003