Relazione introduttiva di Marco V. Broccati all'Assemblea Nazionale delle candidate e candidati FLC all’elezione delle RSU Università e Ricerca
Teniamo questa nostra assemblea nazionale, alla presenza del Segretario Generale della Cgil, Guglielmo Epifani, in un periodo particolarmente difficile della nostra vita politica e civile
Assemblea Nazionale delle candidate e candidati FLC
all’elezione delle RSU Università e Ricerca.
Teniamo questa nostra assemblea nazionale, alla presenza del Segretario Generale della Cgil, Guglielmo Epifani, in un periodo particolarmente difficile della nostra vita politica e civile. Un momento che esige da noi un particolare impegno e una forte capacità di mobilitazione e di risposta alle sollecitazioni, alle sfide, ai rischi, reali e non presunti, che la situazione interna ed internazionale ci pone davanti. La guerra in Iraq, a cui il nostro Governo ha irresponsabilmente scelto di partecipare, è parte di un ridisegno planetario nell’appropriazione e redistribuzione del potere e delle risorse strategiche di lungo periodo, che modifica rapporti politici tra Stati ed equilibri economici. E produce, oltre che vittime e sofferenza, un’ulteriore destabilizzazione di quella delicata area del mondo, e dei suoi rapporti con i Paesi sviluppati, alimentando i peggiori istinti di separazione, diversità, false identità che conducono ai contrapposti fondamentalismi e alle loro nefaste conseguenze. Chi si occupa di istruzione, formazione, ricerca, è per definizione un operatore di pace, perchè progetta, tesse, costruisce per il presente e per il futuro, per sé ma soprattutto per gli altri. La guerra per noi è più di una tragedia politica ed umana: è la negazione morale e culturale della nostra stessa identità, la cancellazione del senso profondo del nostro lavoro.
Abbiamo davanti a noi un anno denso di difficoltà e pericoli: sul piano generale, perché l’azione di Governo disegna scenari politici ed istituzionali che sono fonte di grande preoccupazione per il profilo democratico del Paese, per la distribuzione dei pesi e dei poteri delle istituzioni, per il loro concreto funzionamento. Le modifiche costituzionali in discussione in Parlamento non sono ritocchi o maquillage: esse ridisegnano i poteri degli organi dello Stato in chiave monocratica, di accentramento dei poteri del Capo del Governo, di indebolimento del Parlamento, assecondando e confermando una volta di più la natura autoritaria e geneticamente antidemocratica che si nasconde dietro le pratiche demagogiche del centro-destra. Una demagogia apparentemente bonaria, che parla direttamente ai cittadini dalla televisione ignorando i luoghi della democrazia, ma in realtà affamata di potere e ringhiosa. Una demagogia pronta a qualsiasi compromesso per gli interessi di bottega, come ben testimonia la cosiddetta devolution, insensata e pericolosa per il Paese: si cambia la Costituzione, la carta fondamentale della vita collettiva, per comprare il consenso di un pezzo della maggioranza. Il mutamento costituzionale non è una scelta di breve periodo, non è una legge ordinaria facilmente emendabile, ma un cambiamento di rotta negli assetti che può influire per decenni, e segna un indirizzo del sistema istituzionale di portata storica. Possiamo dire senza tema di smentita che siamo oltre la soglia fisiologica di allarme.
La situazione economica e quella dei conti pubblici sono sotto gli occhi di tutti e non hanno bisogno di commenti: un Paese che non cresce ormai da anni, che vede costantemente erodersi la sua capacità di produrre e competere, in cui le grandi imprese stanno sparendo una ad una. Un Paese che ha perso il treno dell’innovazione e della presenza in quasi tutti i settori di punta, e che sta scivolando costantemente verso il basso nel cosiddetto ranking tecnologico. Quando la Cgil cominciò a parlare di declino industriale ci furono alzate di scudi: oggi quasi tutti convengono con noi, e il termine declino, così crudamente descrittivo, è entrato nell’uso comune. Di fronte al declino sta la più totale assenza di politiche industriali e di un qualsiasi progetto di sostegno e rilancio dell’economia. Il patrimonio positivo di avanzo dei conti pubblici, faticosamente guadagnato in alcuni anni, con un apporto decisivo dei lavoratori dipendenti, è stato irresponsabilmente dilapidato, il rapporto deficit-PIL è in crescita costante, ed è in dubbio il rispetto dei vincoli fissati dall’Unione Europea.
In questa cornice poco confortante, i settori dell’Università e della Ricerca affrontano oggi un appuntamento che consideriamo centrale nella nostra attività: il rinnovo delle RSU. Centrale perché esso costituisce una verifica ricorrente e periodica del consenso che la Cgil riscuote tra i lavoratori, e dunque una misura visibile della condivisione delle nostre scelte; ma centrale anche perché attraverso le elezioni si determina concretamente la rappresentanza: da una parte la presenza materiale della Cgil e la possibilità di contare negli organismi nei luoghi di lavoro; dall’altra la rappresentatività nazionale della Cgil ai tavoli contrattuali dei nostri comparti. Un appuntamento che in questa tornata si presenta ancora più impegnativo, perché il risultato andrà confrontato con l’eccellente risultato delle elezioni precedenti, che hanno visto la Cgil affermarsi come primo sindacato sia nell’Università sia nella Ricerca; molti guarderanno a questo risultato nella speranza di una riduzione del peso della nostra organizzazione: e diventa dunque per noi ancora più importante confermare e superare l’esito brillante della tornata precedente. Non ci nascondiamo le difficoltà che abbiamo davanti: in primo luogo il fatto che in questa tornata, nella Ricerca, non votano i ricercatori e i tecnologi, per effetto della legge che l’anno scorso li ha portati fuori dal comparto e collocati nella dirigenza. E’ questione per noi molto pesante: tra i ricercatori siamo largamente il primo sindacato, e sottrarre al voto questa platea ci danneggia proporzionalmente molto più che le altre organizzazioni. Ma l’aspetto politicamente più grave è il fatto che oltre la metà del personale del comparto non può esercitare il diritto universale alla rappresentanza sancito dalla legge: si registra qui una preoccupante mancanza di sensibilità e di attenzione della politica ad un problema che investe la democrazia rappresentativa. Venerdì scorso, con un voto trasversale che ha coinvolto tutto il centro-destra e gran parte del centro-sinistra, la Camera ha respinto un decreto che in extremis riportava ricercatori e tecnologi fuori dalla dirigenza e li reinseriva nel comparto, consentendo loro di partecipare alle elezioni. Un’occasione persa, una scelta sbagliata. Se si vuole qualificare i ricercatori e tecnologi come dirigenti, cosa che non sono e che noi non condividiamo, si abbia il coraggio di trarne tutte le conseguenze, anche economiche, e non solo normative, come l’introduzione del licenziamento discrezionale: un ricercatore in accesso guadagna 18.000 euro l’anno di paga base, un dirigente 44.000. Invece dobbiamo introdurre in contratto la ricattabilità del licenziamento nel lavoro di ricerca, perché la legge ce lo impone, ma per gli aumenti non c’è un euro. Ma questo è il Paese, questo è il Governo in cui le coerenze non hanno compimento.
L’altro elemento critico che si propone nelle elezioni è il mancato riconoscimento del diritto al voto per i lavoratori a tempo determinato; già nelle elezioni precedenti si era verificato, ma stavolta speravamo che ci fossero le condizioni per superarlo. Anche in questo caso si tratta di un diritto ingiustamente negato; nel comparto scuola l’accordo Aran-Sindacati ha riconosciuto il diritto al voto anche ai tempi determinati con supplenza annuale. Nei nostri comparti il lavoro a tempo determinato ha normalmente una stabilità ed una durata temporale ben superiore a quelle della scuola, e dunque c’è semmai una ragione in più per riconoscerne i diritti. Dobbiamo allora dire con chiarezza che il problema non nasce dalla controparte, ma dalla non volontà delle altre organizzazioni sindacali di consentire il voto, temendo che questa scelta possa avvantaggiare la Cgil, che ha tra questi lavoratori seguito e adesione. E’ una scelta non solo sbagliata ma ingiusta, che scambia un diritto di rappresentanza con un calcolo di bottega poco nobile. Il nostro Comitato Direttivo ha invitato le strutture FLC ad individuare modalità di voto tali da consentire comunque un’espressione di rappresentanza, ed in modi differenziati molte nostre strutture si stanno organizzando, vuoi per consentire un’espressione di voto in urne separate, che non ha naturalmente valore legale ai fini del risultato, ma ha valore politico, vuoi per prevedere forme di inclusione dei rappresentanti dei lavoratori non stabili all’interno delle delegazioni di trattativa della Cgil. Si tratta di scelte non risolutive del problema fondamentale, ma che riteniamo possano in qualche modo dare il segnale della nostra volontà di rappresentanza e di partecipazione. Stiamo contemporaneamente studiando con i legali la possibilità di ricorsi al giudice per aprire la strada al riconoscimento del diritto di voto, ma premetto che si tratta di questione tecnicamente complessa e politicamente delicata.
Oltre a questi due elementi oggettivi, peserà nel voto anche il bilancio dell’attività delle RSU elette in precedenza, il loro ruolo e la loro capacità di avere dato voce adeguata alla rappresentanza. Nell’Università siamo riusciti ad assegnare alle RSU poteri contrattuali effettivi su materie importanti, e le abbiamo messe in condizione di esercitare un ruolo visibile nell’attività negoziale. Sappiamo poi che spesso nel loro concreto funzionamento si è manifestata tra i sindacati quella divaricazione di opinioni che ci separa dalle altre organizzazioni, e che vede la Cgil impegnata a valorizzare e accrescere il potere delle RSU, mentre gli altri sindacati hanno un atteggiamento diffidente quando non contrario. In molte realtà ciò ha prodotto un’ostilità esplicita o strisciante nei confronti delle RSU, che si è tradotta spesso in serie difficoltà di funzionamento. Nella Ricerca la situazione è ancora più complessa perché, nonostante le battaglie da noi condotte in sede di contratto nazionale per l’estensione delle prerogative delle RSU, la resistenza degli altri sindacati ha prodotto competenze molto limitate, e dunque una visibilità ridotta dell’organismo che può incoraggiare fenomeni di disaffezione al voto.
Noi pensiamo che sia utile dovunque cercare di darsi un regolamento di funzionamento, che fissi regole e procedure tali da rendere più spedita ed agevole l’attività dell’organismo. Ma il problema è di natura politica e non si risolve nel breve termine solo con le regole: occorre lavorare con pazienza per accrescere nella pratica quotidiana l’autorevolezza delle RSU e farne il primo punto di riferimento dei lavoratori. Sarà questo radicamento, questa reale capacità di rappresentanza a modificare nel tempo le condizioni per un efficace svolgimento del proprio ruolo.
Si tratta, come ben si vede, di ipoteche non lievi, che ci spingono però a dire che mettiamo su questo terreno tutto l’impegno della nostra organizzazione. L’iniziativa di oggi ha proprio il senso di segnalare, all’interno e all’esterno, la netta scelta di campo della FLC e dell’intera Cgil, che intende investire nei processi di democrazia rappresentativa. C’è un importante elemento di novità in queste elezioni: noi ci presentiamo al rinnovo con la sigla FLC, Federazione Lavoratori della Conoscenza, e non come Snur, sebbene lo Snur Cgil esista ancora; non si tratta di una scelta burocratica od organizzativa, ma di una scelta politica. Abbiamo costituito la FLC convinti che questa Federazione possa rappresentare in modo più adeguato l’insieme dei nostri settori, convinti che esista un continuum che attraversa i mondi dell’istruzione, della formazione, della ricerca, e che a questa realtà interconnessa occorra dare una rappresentanza organica e coerente. Che la FLC sia il luogo nel quale queste realtà distinte ma parallele possono trovare sintesi di elaborazione politica e sistematicità di iniziativa. E dunque la nostra scelta elettorale vuole essere il modo di mettere valore aggiunto nella nostra rappresentanza, e di trasmettere il messaggio di volontà di sintesi politica.
Le RSU che andremo ad eleggere si troveranno davanti un insieme di problemi pesanti, oltre a quelli tipici del proprio ruolo di rappresentanza quotidiana nei luoghi di lavoro, sui quali occorrerà una stretta sinergia con le OO.SS.
Abbiamo infatti di fronte a noi un complesso di scelte ed interventi che incidono pesantemente sulla nostra vita collettiva come lavoratori e come cittadini, che portano il segno di un’involuzione sociale e culturale per noi inaccettabile, che chiamano in causa la nostra stessa natura di soggetti rappresentativi. I mesi che ci attendono richiederanno, come FLC, il nostro impegno su tre fronti principali: i contratti, la legge Finanziaria, i processi di riforma, o meglio, di controriforma in atto. La fase che dobbiamo affrontare postula la ripresa di un’iniziativa diffusa e condivisa, di cui il sindacato e le strutture nei luoghi di lavoro devono essere protagonisti. Non è in alcun modo pensabile il governo di un movimento così esteso e complesso dal centro, senza un protagonismo ed un’azione convinta e capillare delle strutture territoriali, dei Comitati degli iscritti, e delle RSU.
La situazione contrattuale è estremamente tesa: per l’Università, come per il resto del Pubblico Impiego, si apre la stagione del rinnovo del secondo biennio economico, per il quale le Confederazioni hanno unitariamente formulato una richiesta di incrementi salariali dell’8%, a fronte di una disponibilità dichiarata dal Governo del 3,7%. La distanza tra richiesta e offerta dice da sola della difficoltà di questa trattativa, e della mobilitazione che si renderà necessaria. Per la Ricerca la situazione contrattuale è ancora più difficile, perché non è neppure disponibile l’atto di indirizzo per il quadriennio normativo ed il primo biennio economico, unico contratto pubblico ancora non aperto insieme con i dirigenti scolastici e l’Enea. Tutti i comparti del Pubblico Impiego hanno già definito il programma di agitazioni. Venerdì incontreremo Cisl e Uil e proporremo loro un calendario di mobilitazione che, attraverso assemblee ed iniziative nei luoghi di lavoro, conduca a scioperi in tutti i nostri comparti, da collocare, secondo la nostra proposta, in serie nella stessa settimana: Università, Ricerca, Accademie e Conservatori, Enea. Per la Ricerca, che si trova contrattualmente nella situazione più grave, pensiamo ad una manifestazione nazionale, verso fine novembre, da realizzare a Roma in una sede da decidere.
Il secondo fronte è rappresentato dalla Legge Finanziaria, che formalmente presenta, rispetto agli anni passati, uno spiraglio, ma che nella sostanza reitera le chiusure e le inagibilità dell’anno scorso. Non viene riproposto, per Università e Ricerca, il blocco delle assunzioni; ma l’incremento delle risorse previsto rende di fatto impossibile qualsiasi operazione che non sia il puro adeguamento dei bilanci alle spese correnti. Per l’Università infatti, l’incremento del Fondo di Finanziamento Ordinario è pari al 2%, ed è assorbito per intero dalla dinamica naturale dei costi di gestione; per la Ricerca l’incremento è dello 0,79 %, e non c’è bisogno di commentare, salvo il fatto che la distribuzione interna di tale incremento tra gli Enti rispetta una rigorosa gerarchia di vicinanza al Governo dei Presidenti dei singoli Enti. Dunque lo sblocco delle assunzioni è puramente nominalistico in assenza di risorse. Anche gli articoli in cui si prevedono disposizioni di risorse apparentemente più abbondanti ricadono comunque sotto la tagliola del 2% come limite alla previsione del fabbisogno, che si presenta quindi come l’unica cifra vera della Finanziaria. In tutto questo rigore, emergono comunque i segnali-spia delle politiche di Governo; come già l’anno scorso, quando in regime di risparmio si assegnarono 1000 mld. di vecchie lire all’Istituto Italiano di Tecnologia, ente anomalo ed inventato, il cui Direttore Generale è il Ragioniere Generale dello Stato, così quest’anno, mentre l’Università pubblica ha un incremento del 2%, le Università private hanno un incremento finanziario del 9%. E’ francamente difficile credere, anche per le persone più in buona fede, che si tratti di pura coincidenza e non di scelta politica.
Il terzo, e forse il più impegnativo fronte che ci occuperà nei prossimi mesi è quello dell’intervento legislativo messo in opera dal Governo. Per la Ricerca i danni normativi sono già stati prodotti, e, come nella scuola, siamo nella fase applicativa in cui ci si confronta con i regolamenti e la traduzione materiale delle norme, fase che richiede il massimo di attenzione delle strutture sindacali ad ogni livello, sia per evitare la fuga delle Amministrazioni dal confronto, sia per ricondurre i regolamenti stessi ad una ratio di principi accettabili. Bisogna evitare che questa fase sia considerata marginale e quasi scontata, come una conseguenza naturale dei decreti di riordino: bisogna anzi veicolare l’idea che è proprio sui regolamenti applicativi che si gioca la partita principale per l’equilibrio funzionale e la missione degli Enti. E’ in questa fase che la comunità scientifica ed il sindacato devono fare sentire più da vicino la propria voce. Nella Scuola l’applicazione della L. 53, giunta ai suoi destinatari naturali, le singole scuole ed istituti, incontra un vasto e capillare movimento di opposizione che nasce dagli stessi docenti e che sta mettendo in discussione la concreta traduzione degli istituti normativi previsti dalla legge, nonostante le intimidazioni e pressioni pesanti esercitate dal Ministero e dalle Direzioni Regionali. Nella Ricerca occorre fare la stessa cosa, chiamando a schierarsi e a pronunciarsi la comunità scientifica, evitando la distrazione e il senso di rassegnazione che talora si respira. Come nella Scuola, come nell’Università, occorre ridare voce e presenza ai lavoratori della Ricerca, protagonisti oggi ancora troppo assenti di questa delicata fase.
Nell’Università, dopo la mobilitazione della primavera, sta riprendendo corpo un movimento di opposizione che non si vedeva da decenni. E’ un movimento composito, fatto di tante anime e attraversato da tante richieste che esprimono condizioni personali e professionali molto differenziate. Ci sono in prima linea i ricercatori minacciati dalla messa ad esaurimento, oltre un terzo del corpo docente universitario, che dopo vent’anni non vede alcuna risposta alla loro condizione professionale. E insieme a loro i precari, di ogni genere, che dall’imbuto della precarietà vedono chiudersi ogni spazio futuro. E i vincitori di concorso, condannati ad un’attesa senza certezze. E gli studenti, che pretendono con ragione un’Università di qualità per il loro futuro, e le pari opportunità per frequentarla. E accanto a loro una solidarietà mai vista degli organi accademici, dei professori ordinari ed associati, dei Presidi, di tanti Rettori. Cos’è accaduto per accomunare ed unificare persone e condizioni professionali e personali così diverse e spesso lontane? La signora Moratti nelle dichiarazioni stampa mostra di stupirsi per le manifestazioni, per carità legittime in democrazia, ma incomprensibili, vista la disponibilità al dialogo del Governo, e all’accoglimento dei "suggerimenti" necessari a migliorare i decreti; e chiede alla Conferenza dei Rettori, oggi suo unico interlocutore, perché con le organizzazioni sindacali non parla, o se parla comunque non ascolta, di formulare delle proposte. A questo punto, a parte noi, che siamo notoriamente dei maleducati incontinenti, perfino il Presidente della CRUI, che è invece provvisto di un solido self-control, è autorizzato ad espressioni non convenzionali e poco ortodosse. Signora Moratti, le proposte, diverse e magari anche non compatibili tra loro, sono sul tavolo da febbraio, se solo le vuole prendere in considerazione. Ma Lei non le vuole prendere in considerazione. Signora Moratti, è successo che quest’insieme eterogeneo di persone che lavorano all’Università ha capito che sotto le Sue proposte non c’è solo il problema dei ricercatori o dei precari o dei vincitori di concorso senza presa di servizio. Ha capito che la Sua proposta è la morte dell’Università come l’abbiamo conosciuta per 700 anni, con tutti i suoi difetti e distorsioni e problemi, ma anche con i grandi valori portanti che ne hanno fatto uno dei centri fondamentali della nostra civiltà europea. Non si spaccano didattica e ricerca, non si marginalizza la ricerca universitaria senza snaturare l’istituzione; anche noi siamo convinti come Lei che l’Università italiana ha bisogno di un profondo rinnovamento, di nuove regole, di una rifondazione insieme etica e funzionale. Ma l’universitas esprime un insieme di valori che non possono essere ridotti a quelli del mercato; essa ne deve accogliere le giuste esigenze in quanto espressione della domanda sociale, ma rappresenta il presidio di una cultura e di una parità di diritti che solo il settore pubblico può garantire.
Le proposte di Governo invece vanno in tutt’altra direzione: precarizzazione, dequalificazione dell’Università, riduzione dell’autonomia, sono i puntatori contenuti nel decreto ingiustificatamente intitolato allo stato giuridico dei docenti, e che andrebbe invece rititolato "Nuovo assetto degli Atenei", e che indicano tutti la medesima direzione: quella della scuola , e della ricerca, e che consiste in un’idea di Stato che si ritrae dalle sue funzioni, e affida al libero mercato la sorte dei cittadini. Non saremo mai d’accordo con quest’idea, già sconfitta dalla storia, e negatrice dell’ispirazione dell’Unione Europea e della moderna cultura dell’Europa.
Ma la lista delle disgrazie non finisce qui: alle porte c’è l’annunciata volontà di riformare il 3+2, in perfetta omologia con il percorso ad Y deciso per la scuola superiore; un 1+2+2 che indebolirebbe ulteriormente il percorso professionalizzante del triennio, getterebbe nel caos studenti ed Atenei, senza un esame ragionato dei pur contrastati esiti dell’applicazione del 3+2 ancora in corso. Un’operazione fortemente ideologica, oppure semplicemente idiota, destinata comunque a fare del male all’Università italiana. Dobbiamo a questo punto programmare il prosieguo delle iniziative. Siamo parte del movimento di protesta, e ne sosteniamo integralmente le ragioni, ed anzi, vogliamo che nelle prossime settimane la Cgil assuma un ruolo ancora più evidente nell’organizzazione del movimento. Abbiamo idee, abbiamo contatti, abbiamo l’organizzazione che altri non hanno e dobbiamo metterle a patrimonio comune. Si tratta di costruire un movimento in grado di durare; il decreto sullo stato giuridico è calendarizzato in Parlamento per dicembre, e la discussione durerà verosimilmente fino a primavera; se torna al Senato con modifiche probabilmente arriveremo a maggio-giugno. Tempi lunghi dunque. E’ chiaro che occorre un ragionato equilibrio tra intensità della risposta e durata; questo non significa adesso fermare la protesta in atto, ma occorre rendere tutti gli attori consapevoli dei tempi della partita. Tenere, per così dire, il fuoco acceso, pronto a riprendere forza, senza bruciare in breve tutte le cartucce; il rischio di un esaurimento precoce del movimento per stanchezza è ciò su cui conta il Governo; facciamoli sfogare, poi al momento buono non avranno più le energie necessarie. Come si diceva una volta, dobbiamo durare un minuto più di loro; per questo, usiamo le assemblee di questi giorni, le iniziative per costruire una consapevolezza collettiva ed una rete permanente e stabile che ci consenta di tenere viva la fiamma. E’ difficile immaginare che il rinvio dell’inizio dell’anno accademico prosegua ad oltranza, oltre tutto con le conseguenze sulla didattica e sugli studenti che ne deriverebbero, rischiando anche di generare spaccature nel movimento di protesta: senza contare che arriveranno certamente iniziative collaterali, per esempio dalla Commissione di Garanzia sugli scioperi, per intimidire coloro che praticano il blocco dell’attività didattica. L’iniziativa sindacale delle prossime settimane non si sostituisce al movimento, ma ne diventa un sostegno ed un affiancamento.
Ma noi non siamo solo quelli che protestano: vogliamo dire la nostra, far vivere la nostra idea di società della conoscenza, dire in positivo quali sono le nostre priorità e che cosa riteniamo necessario ed urgente per il Paese in materia di istruzione, formazione, ricerca. Vogliamo mettere sul tavolo della discussione le nostre proposte programmatiche alternative a quelle del Governo, e chiediamo alle forze politiche che si candidano a guidare il Paese di pronunciarsi su di esse, di dire in modo impegnativo se su quelle linee programmatiche sono d’accordo. Per questo oggi pomeriggio la FLC presenterà in quest’aula la bozza delle proprie linee di programma, delle proprie priorità, che svilupperemo in un’ampia discussione nelle prossime settimane, e che porteremo a sintesi insieme con la Cgil Confederale in un’iniziativa pubblica a conclusione della discussione.
Care compagne, cari compagni, siamo convinti che fare sindacato ha senso se si fa in mezzo agli altri, e insieme con gli altri. Nelle prossime settimane ognuno di voi deve diventare l’immagine della Cgil nei luoghi di lavoro, senza stancarsi mai di spiegare le nostre ragioni. Dentro il DNA della Cgil c’è un ineliminabile nòcciolo etico, fatto di responsabilità e di condivisione, che ci rende quello che siamo. La democrazia televisiva non fa per noi. A noi piace parlare con le persone in carne ed ossa, ci piace ascoltare, litigare, discutere. Il nostro candidato è quello che sta in mezzo alla gente, che vive i loro problemi, e che prova a risolverli. Mi piace pensare che forse siamo un po’ rétro e un po’ controcorrente, che in tempi di velocità e superficialità vogliamo trovare comunque il tempo di ragionare con le persone, perché questa è la nostra forza e il nostro patrimonio di credibilità. E poi che siamo quelli per cui il sindacato è impegno, passione vera, un’insostituibile parte della nostra vita collettiva.
Roma, 19 ottobre 2004