Formazione, povertà ed esclusione sociale
Proponiamo ai nostri navigatori un’altra interessante lettura. Un articolo di Chiara Saraceno su “Formazione, povertà ed esclusione sociale” apparso sul sito www.lavoce.info.
Proponiamo ai nostri navigatori un’altra interessante lettura.
Un articolo di Chiara Saraceno su
“Formazione, povertà ed esclusione sociale” apparso sul sito www.lavoce.info.
Come molti sapranno, Chiara Saraceno è professore ordinario di Sociologia della famiglia presso la facoltà di Scienze politiche di Torino, dove insegna anche sistemi sociali comparati. Per diversi anni ha fatto parte della Commissione di Indagine sulla Povertà e l'esclusione sociale presso la Presidenza del Consiglio e dal 1999 al 2001 ne è stata la presidente. Le sue ricerche, spesso di tipo storico-comparativo, riguardano le trasformazioni della famiglia, le politiche sociali, i mutamenti nei comportamenti delle donne e nei ruoli di genere, la povertà.
Le riflessioni di Chiara Saraceno rappresentano una pesante denuncia dello scarso ruolo che si continua ad affidare all’educazione degli adulti (di cui la Legge delega n°53/’03 si è perfin dimenticata) e alla formazione permanente in conseguenza delle scelte di politica scolastica ed economica del Ministero e del Governo.
Il Protocollo firmato recentemente dalle Confederazioni e da Confindustria va’ in un’altra direzione ma il Governo si è ben guardato dal convocare le Confederazioni per discuterne o dal prevedere l’indicazione degli strumenti per gli stanziamenti necessari alla sua realizzazione nel DPEF.
Roma, 13 agosto 2003
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Formazione, povertà ed esclusione sociale
"Dal punto di vista del rischio di esclusione sociale la misura in cui il lavoro offre opportunità di aggiornamento e acquisizione di competenze professionali ha una importanza cruciale. Lo sviluppo delle competenze è essenziale per mantenere il passo con l’ambiente tecnologico e mantenere il proprio valore sul mercato del lavoro in caso di perdita del lavoro. Ma negli ultimi cinque anni la tendenza generale nella UE è stata la riduzione … della frequenza con cui sono state offerte ai lavoratori possibilità di aggiornamento sul posto di lavoro. Fatto ancora più preoccupante, nello stesso periodo è aumentata la vulnerabilità del gruppo più a rischio - i lavoratori a bassa qualifica. Perciò la loro situazione è peggiorata sia in termini assoluti che relativi".
Così scrivono Duncan Gallie e Serge Paugam in un rapporto sulla esperienza della precarietà e sull’integrazione sociale, preparato per la direzione Employment and Social Affaire della UE e basato sulla analisi dei risultati di una serie di indagini dell’Eurobarometro: dal 1976 fino al 2001.
L’accesso a opportunità di formazione sul lavoro appare uno degli elementi distintivi di cristallizzazione e rafforzamento delle disuguaglianze nel mercato del lavoro - nella occupabilità delle persone non solo all’ingresso, ma lungo il ciclo di vita. Sono i lavoratori a bassa qualifica i più esposti non tanto alla perdita del lavoro quanto a non trovarne un altro nel caso in cui lo perdano. La bassa o nulla esperienza formativa si somma, aumentandone le conseguenze in termini di dequalificazione professionale, alla bassa qualità del lavoro che si svolge (misurata dalla esistenza di stimoli ad apprendere, varietà, possibilità di autonomia). Non sorprendentemente, solo una minoranza di tutti i lavoratori UE oscillante tra il 30 e il 20% riconosce queste caratteristiche al lavoro che fa. Ma ciò che colpisce è che sia scesa di circa sei punti tra il 1996 al 2001, nonostante tutta la retorica sulla learning society e la maggiore scolarizzazione della forza lavoro.
Sono ovviamente le occupazioni a minor contenuto professionale quelle a presentare anche una qualità più bassa. Ma vi è anche una differenza significativa tra uomini e donne: sia nel 1996 che nel 2001 le donne hanno sistematicamente occupazioni di qualità più bassa di quelle degli uomini. Il divario si è ampliato nel 2001; ovvero la situazione delle donne è peggiorata di più. Verrebbe da dire che l’aumento di partecipazione femminile è pagato al prezzo di una accentuazione del divario di genere nelle condizioni di lavoro. Viceversa i lavoratori autonomi attribuiscono al proprio lavoro una qualità più alta dei lavoratori dipendenti.
I due autori del rapporto accostano questi dati sul peggioramento della qualità del lavoro, e dello scarso investimento in formazione, a quelli rilevati dall’indagine più importante sul nesso tra qualità del lavoro, salute e sicurezza sul lavoro nei paesi UE effettuata nel 2000. Anche questi indicano l’assenza di miglioramenti tra il 1990 e il 2000. In altri termini, negli ultimi anni l’ambiente di lavoro non è migliorato né sul piano delle risorse per il mantenimento e perfezionamento delle capacità, né su quello della qualità, né su quello della sicurezza rispetto alla salute.
Esistono ovviamente differenze notevolissime tra paesi nella diffusione delle opportunità di aggiornamento e miglioramento delle proprie competenze professionali. I paesi scandinavi la offrono oltre tre volte di più di quelli mediterranei, che si confermano come paesi in cui c’è un bassissimo investimento in capitale umano, quindi anche in ricerca e innovazione, da parte dei datori di lavoro. Va tuttavia segnalato che benché in Italia ancora nel 2001 il 62% dei lavoratori non aveva ricevuto alcuna formazione negli ultimi cinque anni, c’era stato un sensibile miglioramento rispetto al 1996, quando si trovava in questa situazione il 78,8% dei lavoratori. Italia e Danimarca ( ove nel 2001 non aveva ricevuto formazione il 22,9% dei lavoratori rispetto al 35,8% del 1996), sono stati gli unici due paesi a mostrare un miglioramento nella offerta formativa da parte dei datori di lavoro. Ma il gap che l’Italia e gli imprenditori italiani devono coprire rimane enorme e apparentemente non sufficientemente messo a tema, né quando si parla di riforma del mercato del lavoro né quando si parla di responsabilità sociale delle imprese. Anche questa "irresponsabilità sociale" di fronte alle condizioni in cui si producono le persone, può forse spiegare perché in Italia, come negli altri paesi mediterranei, l’esperienza della povertà sia di più lunga durata (15 anni in media, rispetto ai due-tre nei paesi nordici) e spesso sia ereditata da una generazione all’altra.
Come osservano anche gli autori del rapporto, per molti anni le politiche contro la povertà e l’esclusione sociale hanno considerato l’aumento dei tassi di occupazione, o la diminuzione dei tassi di disoccupazione, l’obiettivo principale se non unico. Questi dati suggeriscono che si tratta di un atteggiamento non solo semplicistico, ma in parte fuorviante. Se non si affronta anche la questione della qualità del lavoro e delle opportunità di miglioramento delle competenze professionali nel corso della vita si ignorano almeno due fattori potenzialmente produttivi di povertà, se non esclusione sociale. Innanzitutto molti lavori di bassa qualità sono anche lavori a bassa remunerazione, che producono una popolazione di working poor. In secondo luogo, il lavoro stesso, se di bassa qualità e con basso contenuto professionale, può indurre fenomeni di dequalificazione e di perdita di capacità: rendendo quindi più vulnerabile chi lo fa, specie in un contesto di crescente precarizzazione dei rapporti di lavoro. "Mettere al lavoro" le persone a bassa qualifica è notoriamente più difficile che trovare lavoro a chi ha qualifiche elevate. Di più, come segnalano anche Gallie e Paugam nelle loro conclusioni, se fatto senza cura e senza investimento di risorse può anche contribuire a rafforzare quella difficoltà e innescare processi di stigmatizzazione.