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Il CIDI su voti e pagelle: si torna all’antico

La posizione del CIDI (Coordinamento di Iniziativa Democratica degli Insegnanti) sul ritorno al voto in decimi nella scuola

15/09/2008
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Già a partire dall’anno in corso, nelle scuole del primo ciclo d’istruzione ricomparirà la tradizionale valutazione decimale. Operazione annunciata, dopo la breve pausa estiva, e repentinamente realizzata con un provvedimento d’urgenza (decreto legge 1.9.2008, n. 137) come quando nottetempo aumenta il prezzo della benzina.

Le motivazioni "pedagogiche" del ministro dell’Economia

Le motivazioni della scelta erano state minuziosamente illustrate dal ministro dell’Economia e Finanze (e ciò la dice lunga) in un articolo apparso sul “Corriere” del 22 agosto scorso. Con una lezione a tutto campo sulla cultura della valutazione e sulle tecniche di misurazione si metteva in evidenza che: “I numeri sono una cosa precisa, mentre i giudizi sono normalmente causa di confusione (…)”, che “il voto obbliga l'insegnante e l'alunno ad assumersi precise responsabilità (…)”, che “i giudizi, per come sono strutturati e «bizantinati», basati su formule che tendono ad essere ipocrite, psicopedagogiche, tautologiche, caramellose, offensivo-giudiziarie o presunte tali, sembrano fatti apposta per mandare fuori di testa i genitori o per stendere i ragazzi sul lettino dello psicanalista o per portarli tutti insieme da un avvocato che ti predispone il ricorso — quasi sempre vincente — davanti al Tar”, che infine “dove non c'è un voto, non viene fornita una reale informazione sull’andamento scolastico dello studente”.

Peccato, però, che il ministro se la prenda tanto con i giudizi analitici, forse non ricorda che essi erano già stati sostituiti nel 1993 con indicatori e lettere alfabetiche (A, B, C, D, E)[1], e nel 1996 con giudizi sintetici espressi in insufficiente, sufficiente, buono, distinto, ottimo”[2].

Indietro di trent’anni

Così l’articolo 3 del decreto legge, coerentemente con le convinzioni di Tremonti, rimette le cose a posto: a partire, infatti, dall’anno scolastico 2008-2009 nelle scuole del primo ciclo d’istruzione “la valutazione periodica e annuale degli apprendimenti degli alunni e la certificazione delle competenze da essi acquisite sarà espressa in decimi”. Per la scuola primaria tale valutazione dovrà essere “ illustrata con giudizio analitico sul livello globale di maturazione raggiunto dall'alunno”.

Si torna, quindi, alla situazione antecedente alla legge 517 del 4 agosto 1977 che aveva introdotto per la prima volta la scheda di valutazione (art. 4), ma che ha rappresentato - come è noto - l’avvio verso quelle politiche dell’inclusione che hanno costituito fino a oggi il fiore all’occhiello del nostro sistema educativo pubblico.

Tre decenni non sono pochi. Se l’attuale governo ha ritenuto opportuno invertire la rotta è forse perché è convinto che un sistema di valutazione con preminente azione formativa, che precede, accompagna e segue i percorsi curricolari, introdotto nel 1977, seppure aggiustato e integrato con provvedimenti successivi, abbia solo creato una grande confusione.

Noi siamo invece fermamente convinti che il problema della valutazione non risiede nella forma utilizzata, quanto piuttosto nella chiarezza dei criteri valutativi e degli esiti degli apprendimenti che si intendono perseguire (quali conoscenze? quali competenze?), nella condivisione all’interno della comunità professionale dei comportamenti cognitivi, affettivi, relazionali… che compongono il quadro degli apprendimenti e delle competenze oggetto di valutazione e, per ultimo, nella capacità del sistema scelto di comunicare agli stessi studenti, alle famiglie, erga omnes, i significati reali di tali esiti.

Valutare non è misurare

Il ministro Tremonti ci ricorda, però, che “tutti i fenomeni significativi sono misurati con i numeri “il terremoto con la scala Mercalli o Richter, il moto con la scala numerica della «forza» … la temperatura del corpo umano in base ai gradi ...”. Ma forse il ministro ha dimenticato di considerare due questioni altrettanto basilari: innanzitutto che la scala ci permette sicuramente di misurare un fenomeno, ma che la misurazione non è la stessa cosa della valutazione (a meno che non si voglia far rivivere il mito delle prove oggettive e dei test di profitto); inoltre che l’uso di una scala, come quella per misurare la febbre, presuppone la possibilità di graduare i fenomeni misurati secondo intervalli uguali (o almeno equivalenti) e che tale operazione nel caso della valutazione degli apprendimenti può essere fatta solo per “approssimazione”; un intreccio, cioè, tra misurazione, interpretazione e stima all’interno di un modello cooperativo in cui il soggetto è parte integrante. È pur vero che qualsiasi sistema deve garantire il massimo di oggettività e di attendibilità, ma sappiamo anche che, nella valutazione degli apprendimenti, non è possibile immaginare un confronto perfetto tra classi di grandezze omogenee: l’apprendimento scaturisce da un intreccio di variabili, atteggiamenti, motivazioni, capacità, qualità della didattica, efficacia degli strumenti usati…

Tra voti e giudizi non c’è differenza: contano i significati

Tra l’altro, la sostituzione dei giudizi sintetici con i voti, non rappresenterà neanche una modifica sostanziale perché la scala decimale, quella utilizzabile a scuola, rientra nella tipologia delle scale ordinali (esattamente come quella per i giudizi sintetici) e non delle scale ad intervalli o di rapporti.

Ribadiamo la nostra convinzione che una buona valutazione non dipende dal mezzo utilizzato (sistema numerico: decimi, trentesimi, centesimi…; sistema alfabetico: a,b,c,…; sistema dei giudizi sintetici: insufficiente, sufficiente, buono… o analitici: lo studente ha/non ha conseguito apprendimenti…), quanto piuttosto dai significati reali che sottendono un voto o un giudizio, dalla loro condivisione nella comunità professionale e sociale, e dall’assenza, quindi, di ambiguità interpretativa. E per raggiungere questi livelli di chiarezza c’è ancora molta strada da percorrere.

Appare molto “ingenuo”, perciò, che l’eliminazione degli aggettivi (perché di questo si tratta) e il ripristino dei voti possa essere considerato un fattore di miglioramento del sistema scolastico, quando lo stesso sistema non ha ancora consolidato i fondamentali della cultura valutativa. Ricordiamo, a questo proposito, che nella scuola superiore, dove i voti non sono mai scomparsi, i risultati sono perfino peggiori.

Una scelta mediatica e populista

Questa scelta semplificatoria, dunque, di tornare all’antico può avere solo un carattere mediatico e populista: sarà inizialmente percepita positivamente dalle famiglie perché i numeri appaiono più chiari degli aggettivi e vengono maneggiati con maggiore disinvoltura; forse sarà gradita anche a una larga fetta di docenti che intravede l’immediato vantaggio di non dover più trascrivere giudizi, ma sarà anche un nuovo alibi, quello che con i numeri sia possibile compiere operazioni matematiche ed evitare così un confronto reale su problemi complessi.È una scelta comunque pericolosa perché potrebbe acquietare lo “spirito e la ragione”, togliere la voglia di ricercare soluzioni migliori, ricollocare la scuola italiana nelle retrovie delle scelte europee e internazionali.

Va in tutt’altra direzione la ricerca internazionale

È da leggersi in questo senso anche la questione della certificazione delle competenze a cui è assegnata la stessa sorte della valutazione. Qui vanno rilevati almeno due punti di debolezza: il primo è che allo stato attuale, non esistono ancora modelli nazionali di valutazione e di certificazione delle competenze, né un elenco di competenze attese. Il secondo è che il dibattito europeo e internazionale va in tutt’altra direzione: si stanno da più parti sperimentando indicatori di tipo descrittivo, raggruppati magari entro quadri sintetizzati con una lettera o con un numero. L’esempio più noto è il “Portfolio europeo delle lingue” che si basa su una griglia di autovalutazione composta da tre dimensioni (comprensione, parlato e scritto) e da sei livelli all’interno di ciascuna dimensione (A1, A2, B1, B2, C1, C2).

(10 settembre 2008)

IL CIDI

[ 1] Cm. 17 maggio 1993, n. 167, e Om. 2 agosto 1993, n. 236.
[ 2] Cm. 7 agosto 1996, n. 491.