Il Consiglio dei ministri cambia la legge sulla dirigenza pubblica
Pubblichiamo l'articolo di Michele Gentile, Coordinatore Dipartimento settori pubblici della Cgil, che offre le prime valutazioni critiche sulla proposta di legge del Governo sulla dirigenza dello Stato.
Pubblichiamo l'articolo di Michele Gentile, Coordinatore Dipartimento settori pubblici della Cgil, che offre le prime valutazioni critiche sulla proposta di legge del Governo sulla dirigenza dello Stato.
Roma, 23 novembre 2001
Al servizio del principe
Lo spoil system nella scelta dei dirigenti pubblici fa cadere l’imparzialità dell’amministrazione. I dirigenti perdono le garanzie della legge e del contratto. L’incarico premierà la fedeltà
Uno dei primi atti varati dal Governo in carica è la riforma della dirigenza pubblica con un provvedimento, annunciato con grande clamore, ma cambiato radicalmente nello stesso Consiglio dei Ministri per ragioni che non attengono all’efficienza della pubblica amministrazione, ma alla mediazione tra forze politiche, con soluzioni che non hanno alcun riscontro sull’agire concreto.
Una nuova controriforma
Il disegno di legge, che va a scardinare un lunghissimo processo di riforma che si era concluso tre anni con la modifica del Dlgs 29/93, rappresenta un grave passo indietro che si riflette negativamente sull’efficacia dei servizi e sull’efficienza delle prestazioni.
E’ un passo indietro verso la riaffermazione del primato della legge sul contratto di lavoro. Si interrompe così quel percorso di riforma - e di modernizzazione - la cosiddetta contrattualizzazione del rapporto di lavoro che, con l’opera di Massimo D’Antona, si era estesa a tutta la dirigenza pubblica.
Si determina una situazione grave: il rapporto pubblicistico diviene sinonimo di unilaterale, si depotenzia il sistema contrattuale di attribuzione degli incarichi della dirigenza; si depotenziano le garanzie poste a base del principio della distinzione tra politica ed amministrazione che aveva portato ad una sorta di terzietà del dirigente rispetto alla politica. Il sistema delle regole e delle garanzie definite nel recente contratto di lavoro della dirigenza dello Stato, viene disapplicato dalla proposta di legge.
La riduzione della sfera contrattuale, operata attraverso il principio di una nuova pubblicizzazione unilaterale, relativa al conferimento degli incarichi dirigenziali, rischia di subordinare ulteriormente il dirigente alla amministrazione, facendogli perdere la necessaria caratteristica di terzietà.
Si ridà alla legge ciò che la legge ha demandato al contratto
Cosa succederebbe con il dirigente scolastico della scuola dell’autonomia che ha la necessità di operare collegando la domanda all’offerta e modulando, nel rispetto delle regole contrattuali, le risorse umane e l’organizzazione del lavoro a questo fine?
Il contratto di lavoro rappresenterebbe, al momento della firma, quel necessario insieme di regole, doveri e diritti con i quali poter svolgere l’incarico affidato. Ma senza il contratto di lavoro ciò sarebbe arduo e sottoposto a interventi discrezionali.
Il ritorno alla pubblicizzazione del rapporto di lavoro è un ritorno ad un passato deteriore del quale il Governo in carica si è assunto la paternità.
Il secondo passo indietro è sul tema del valore dei contratti collettivi ed individuali.
L’equilibrio definito nella legge 165/2001 (La nuova disciplina del rapporto di lavoro pubblico) tra legge e contratti e tra contratto collettivo e contratto individuale, viene anch’esso sconvolto. Infatti, per i dirigenti più elevati (i direttori generali) diviene oggetto del contratto individuale il solo trattamento economico e non - come recita il contratto di lavoro recentemente firmato - anche “l’oggetto, i programmi da realizzare, gli obiettivi da conseguire, le risorse umane, finanziarie e strumentali”.
A tutto ciò si sostituisce: un provvedimento di conferimento dell’incarico che ingloba quanto oggi era contenuto nel contratto individuale, che è atto privatistico, mentre il trattamento economico è definito da un accordo individuale. L’accordo è cosa diversa dal contratto: il primo è un atto amministrativo, il secondo è di natura, appunto, privatistica e risponde alle regole del Codice Civile). Lo stesso conferimento dell’incarico segue logiche “aleatorie” e discrezionali quali “le attitudini e le capacità professionali dei singoli dirigenti”.
La discrezionalità regna sovrana
Ciò non può che significare l’assoluta inesistenza di criteri oggettivi che presiedono al conferimento dell’incarico. Proprio tale scelta di discrezionalità rende evidente il rischio di subalternità e mette in luce la mancanza di un sistema di garanzie per il dirigente, che in tal modo può preservare una propria autonomia. In questo quadro il percorso di riforma della dirigenza ha una grave battuta di arresto: si è passati, attraverso un percorso lunghissimo, dalla legge e dall’inamovibilità ad un sistema contrattuale di regolazione del rapporto di lavoro, e, in un batter d’occhi, al primato della discrezionalità nell’affidamento e al trattamento economico definito in accordo individuale senza né le garanzie di legge, né le garanzie di contratto.
Un altro grave passo indietro è determinato dal capovolgimento del rapporto tra legge e contratto.
La legge disapplica il contratto (nei suoi contenuti, nella sua durata, nell’attribuzione degli incarichi). Ciò è tanto più grave perché in tal modo si afferma una totale inversione di marcia sul primato della contrattazione. Nel D.lgs 165/2001 si afferma che con il contratto si possono disapplicare le norme di legge che intervengono sul pubblico impiego. A chi ricorda la storia non può sfuggire come uno dei pilastri della riforma della pubblica amministrazione era, già alla fine degli anni Settanta, la sottrazione del rapporto di lavoro pubblico alla competenza parlamentare. La legge quadro sul pubblico impiego del 1983 dava un colpo alla pratica perniciosa di leggi, leggine, provvedimenti nascosti che facevano del lavoro pubblico una vera giungla. Il padre di quella riforma era il compianto Massimo Severo Giannini.
Le ripercussioni sui dirigenti e sull’amministrazione
Nel disegno di legge attuale si afferma, invece, la inderogabilità delle norme di legge da parte dei contratti. In applicazione di questo principio, cessano tutti i contratti firmati dai dirigenti di prima fascia attualmente in vigore. Per 450 alti dirigenti i contratti vengono azzerati e potranno essere riattribuiti solo in presenza di disponibilità di posti di funzione; altrimenti avranno per un anno il mantenimento del trattamento economico. Non è dato sapere cosa potrà succedere in seguito.
Solo la ferma e decisa opposizione sindacale ha impedito che questa aberrante disposizione, dal dubbio requisito di costituzionalità, fosse applicata per tutta la dirigenza statale (circa 4.500 persone). Ciò non rende meno grave il principio introdotto, ne limita al momento la portata, ma i dirigenti sanno che nel tempo anche loro saranno interessati da una rimessa in discussione di criteri oggettivi nel conferimento di incarichi.
In sostanza si tratta di uno spoil system generalizzato, attuato su un doppio versante:
- la riduzione delle garanzie che presiedono all’obiettività dell’azione del dirigente;
- un segnale a tutta l’Amministrazione sulle intenzioni del Governo in merito alla riforma della stessa amministrazione e al rapporto di lavoro dei dirigenti e dei dipendenti pubblici, per i quali si mette in discussione il principio della contrattualizzazione del rapporto di lavoro e dell’autonomia dalla politica.
La discussione in Parlamento probabilmente farà venire alla luce le diversità strategiche presenti nel Governo: da un lato chi vuole il ritorno ai tempi antichi, al primato della legge, della politica che stipula i contratti dei dirigenti e dei dipendenti pubblici con pochi diritti e certo non con quelli contrattuali; dall’altro chi pensa ad una privatizzazione selvaggia dell’Amministrazione in nome del primato del bilancio, incurante degli effetti sui cittadini e sui lavoratori pubblici.
Queste posizioni coesistono sia sul disegno di legge che riguarda la dirigenza, sia sulla legge finanziaria. Il comune denominatore è una sorta di autoritarismo della legge che supera diritti contrattuali, autonomie funzionali, diritti sociali.
Proprio contro questa miscela il sindacato deve battersi in nome degli interessi dei lavoratori e dei diritti dei cittadini.