In quale Stato sono gli esami di Stato?
Le polemiche sugli esami di stato arrivano oltre Tevere. Tutto sembrerebbe iniziare con la contestazione globale ma, a ben vedere, l’inutilità del rituale raggiunge il suo apice più di recente, ai tempi del ministro Moratti. A questo la FLC Cgil aveva contrapposto una giornata di sciopero generale. Da sola!
La ridda di questioni sollevate – come sempre del resto – dagli esami di Stato, con le polemiche sui “temi” di italiano e sulla fuga di notizie vera o presunta sul brano di Plutarco ( ma perché sempre le prove del liceo? Nessuno che si preoccupi se sono le ragazze e i ragazzi dell’alberghiero a conoscere prima l’argomento della prova?), ridanno ogni anno modo alla stampa di versare fiumi di inchiostro sull’argomento. Così dalle testimonianze del “come eravamo” di questo o quel personaggio (un filone rinfocolato quest’anno dal successo sorprendente di una recente pellicola) fino a sussiegosi commenti su prove, burocrazie ministeriali, commissioni e corpo docente in genere, da parte di sedicenti esperti, maitres à penser e quant’altro, ecco che si riempiono pagine e pagine di giornale.
E quest’anno il contagio à arrivato anche oltre Tevere.
Con un incipit gustoso (il suono della campanella scolastica nel giorno degli esami assimilato al trillo di una sveglia che risveglia il Paese sull’argomento) anche l’Osservatore Romano è sceso in campo per dire la sua.
Ma all’incipit non corrispondono, ahinoi!, l’analisi e le conclusioni.
E’ un po’ semplicistico dire che tutto il disfacimento della scuola italiana, esami compresi, cominciò con la contestazione globale. Risale ad allora, al 1969, sicuramente la prima riforma dell’esame di maturità. Ma attribuire la responsabilità di questa riforma alla sola contestazione globale è un po’ furbesco. Semmai fu la politica e soprattutto chi allora la governava che non seppe dare una risposta migliore di quella trovata. E non seppe darla non tanto alla contestazione globale, che era la manifestazione di un’insofferenza, ma alla situazione di insufficienza conclamata del sistema scolastico che generava proprio quell’insofferenza.
Insomma ricordiamoci che alla severa e pesante maturità pre-1969 arrivava allora a malapena il 18,32% della gioventù italiana e molti neppure la passavano al primo colpo. Ricordiamoci che alcuni percorsi secondari, come l’istruzione professionale, allora neppure ci arrivavano. Il che oggi vorrebbe dire circa 500.000 candidati in meno. Oggi ci arriva e la supera il 72% della gioventù italiana ed è un numero ancora troppo basso se si vuole raggiungere entro quattro anni quell’obiettivo dell’85% che l’Unione Europea si è dato sei anni fa a Lisbona. Va da sé quindi che, contestazione o non contestazione, qualcosa doveva cambiare.
La formula elaborata allora (due discipline allo scritto e due all’orale in una rosa di quattro e una commissione di cinque esterni e un interno) forse non era la migliore ma doveva essere sperimentale. Rimase invece in vigore nel bene e nel male fino al 1998.
Fu necessario arrivare al primo governo Prodi, con ministro della pubblica istruzione Berlinguer, per modificare la formula portando praticamente a sei le discipline, a tre le prove scritte e sottoponendo il tutto ad una commissione formata per il 50% di commissari esterni. Tre anni dopo, ufficialmente per ragioni di spesa (risparmiare sulle trasferte dei commissari: risparmio che non avvenne perché faceva affidamento sull’errata convinzione che i commissari interni non ricevessero compenso) il ministro Moratti e il governo Berlusconi decisero di rendere del tutto interna quella commissione.
Così gli alunni si ritrovarono nella curiosa situazione di dover sostenere né più né meno che una prova in più con gli stessi insegnanti che avevano avuto modo di esaminarli durante tutto l’anno. Certo una facilitazione non da poco per gli alunni che non avevano più l’incognita del commissario sconosciuto, ma, questo si, un inutile supplemento.
Qui sta l’aspetto rituale del modello attuale assai più che in quello che l’Osservatore Romano definisce
“il giocare per un giorno a fare i giornalisti, i saggisti e gli strutturalisti”.
Un modello a cui, giova ricordarlo agli smemorati, la FLC Cgil (allora ancora Cgil Scuola) si è opposta fin dall’inizio non solo a parole ma anche promuovendo una giornata di sciopero generale, in grande solitudine tra i sindacati di categoria, il 12 novembre 2001 contro la finanziaria che lo conteneva, ravvisandovi non solo un’inutile ritualità ma soprattutto lo scivolamento progressivo verso la dequalificazione e la perdita del valore legale del titolo di studio.
Ma proprio perché su questo fronte non ci sentiamo minimamente la coda di paglia pensiamo che ci siano tutti gli elementi e le possibilità di ri-riformare l’esame cominciando col tornare alle commissioni così come erano state previste nel 1998 sia per le scuole di stato che per quelle paritarie, a meno che non si voglia invocare rigore per le une e commissioni di comodo per le altre.
Si tratta in questo caso di cominciare con misure così semplici, ci sembra fuori luogo la disperante conclusione dell’Osservatore: “Non c’è stato nuovo ministro che non abbia promesso grandi cose. Con i risultati che tutti sappiamo”.
Su questo fronte non ci sono da promettere grandi cose e su ciò almeno abbiamo la speranza che si faccia ciò che si deve, non solo perché la speranza, insieme alla fede e alla carità, è una virtù teologale, ma perché in fondo noi della Cgil siamo degli inguaribili ottimisti.
Roma, 23 giugno 2006