La Cgil Scuola e l'obbligo formativo
Pubblichiamo l'intervento di Enrico Panini al Convegno dal titolo "L’obbligo formativo e l’apprendistato nel quadro della riforma dei cicli scolastici e del rinnovamento dei sistemi formativi regionali" tenutosi a Roma il 25.1.2001 nel quale si esplicita la posizione politica della Cgil Scuola rispetto a queste nuove tematiche.
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Pubblichiamo l'intervento di Enrico Panini al Convegno dal titolo "L’obbligo formativo e l’apprendistato nel quadro della riforma dei cicli scolastici e del rinnovamento dei sistemi formativi regionali" tenutosi a Roma il 25.1.2001 nel quale si esplicita la posizione politica della Cgil Scuola rispetto a queste nuove tematiche.
Questo l'intervento:
Le politiche formative
" Per prepararsi alla società di domani non bastano conoscenze e capacità di metterle in pratica acquisite una volta per tutte. E’ indispensabile l’attitudine ad apprendere, a comunicare, a lavorare in gruppo, a valutare la propria situazione. I mestieri di domani richiederanno attitudine a formulare una diagnosi e a presentare proposte di miglioramento a tutti i livelli…. Bisogna perciò adeguare il contenuto dell’insegnamento e cercare di migliorare la formazione ( nozioni e know-how) ogni volta che ciò sia necessario." così Delors, nel suo Libro Bianco, pubblicato nell’ormai lontano ’94.
Come sappiamo, questa analisi, (forse un pò obsoleta nel linguaggio ma assolutamente attuale nella sostanza) si è tradotta nell’europeo "diritto alla formazione per tutto l’arco della vita", che nel nostro paese ha faticato più che altrove ad affermarsi e che non è entrata ancora pienamente nella mentalità corrente.
Problemi si pongono in particolare ora, nella fase attuativa di quei provvedimenti normativi che in qualche modo hanno cercato di applicare nel nostro sistema formativo quel principio.
L’obbligo formativo a 18 anni si colloca a pieno titolo dentro questa visione e non v’è dubbio che sia lo strumento ad essa più coerente, più dello stesso elevamento dell’obbligo scolastico. La debolezza di un unico anno in più di obbligo scolastico, infatti, è stata superata positivamente proprio dall’obbligo formativo.
Mi soffermo un attimo su questo punto, perché ancora oggi dobbiamo rilevare che, nonostante l’istituzione dell’obbligo formativo, ci siano spinte, ad esempio in Veneto ma non solo, non più giustificabili, di percorsi di assolvimento dell’obbligo scolastico anche dentro la formazione professionale. Non è solo una questione di rispetto delle norme; c’è una sostanza alla quale noi teniamo molto: la scuola pubblica è il soggetto istituzionalmente preposto alla formazione della coscienza civile e democratica dei cittadini di questo paese. Ciò richiede che la scuola pubblica corrisponda nei fatti a questo importante compito affidatole dalla Costituzione, e certamente questo affidamento non può tradursi in una aprioristica centralità e una garanzia di ruolo presunta e mai verificata. Così come occorre agire in positivo per combattere i fenomeni, purtroppo ancora presenti, di elusione dello stesso obbligo scolastico: è anche una questione di coerenza da parte di uno stato che ha individuato nella formazione dei cittadini il suo bene più prezioso.
Con l’elevamento dell’obbligo scolastico ma soprattutto con l’obbligo formativo si perfeziona, quindi, il disegno che vede nella formazione la leva non solo dello sviluppo sociale ed economico del paese, ma la leva sulla quale si fondano le radici della convivenza civile, pacifica e democratica.
E la scuola costituisce il motore principale di questo meccanismo virtuoso.
Con l’obbligo formativo, però, si aprono nuovi scenari che richiedono una regia complessa, di elementi finora assenti o separati l’uno dall’altro:
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La dimensione istituzionale. Essa riguarda il rapporto tra centro e periferia, ma soprattutto il governo politico a livello regionale. Siamo purtroppo in una situazione di grande sofferenza su questo versante: ritengo che le indiscutibili autonomie regionali non vadano solo rivendicate, vanno esercitate. Non si tratta di discutere e di scegliere fra centralismo e federalismo: si tratta di offrire realmente pari opportunità a chi vive e lavora nel nostro paese. Essere nati, vivere e lavorare in una regione piuttosto che in un’altra non può tradursi in fattore di diseguaglianza e quindi di esclusione o di inclusione. Su questo l’impegno deve essere comune, e occorre evitare che le singole regioni assumano una visione tutta interna dei problemi a ragione delle loro diverse opzioni politiche: quest’ultima è una soluzione inaccettabile quando in gioco ci sono i diritti delle persone. Dobbiamo registrare purtroppo anche una certa sottovalutazione e approssimazione rispetto alle tematiche di cui oggi ci occupiamo: in questa sede non spetta a me denunciare i ritardi di implementazione dei nuovi servizi per l’impiego, ma certo per il ruolo loro attribuito dalla normativa sul nuovo obbligo formativo (dall’orientamento alla tenuta dell’anagrafe dei giovani assoggettati all’obbligo, alla nomina del tutor) questo ritardo pesa come un macigno sulla effettiva applicazione dell’obbligo formativo stesso, che prima che essere un obbligo da rispettare da parte dei giovani è un obbligo da garantire da parte delle istituzioni pubbliche.
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La formazione professionale. Siamo ad un passo dalla definizione, condivisa dal governo e dalle regioni, di regole minime sull’accreditamento delle strutture formative. Non credo valga la pena ripercorrere i passaggi di questo defatigante lavoro, avviatosi con l’approvazione dell’art.17 della legge 196 del ’97 e proseguito tra apparenti accelerazioni e brusche frenate. Siamo ormai a quattro anni da quella data: il testo licenziato dal gruppo tecnico presso il Ministero del lavoro sull’accreditamento delle strutture, pubbliche e private, che organizzano tale offerta, costituisce la risposta minima necessaria perché si possa parlare, a proposito di assolvimento dell’obbligo formativo, di opzioni tra due tipi di offerta, la scuola e la formazione professionale. Ritengo necessario che si proceda al più presto alla sua approvazione in sede di Conferenza unificata Stato regioni; spetterà alle singole regioni, poi, articolare ed arricchire quell’impianto minimo nazionale. Non è tollerabile un’ulteriore rinvio: se si rimette in discussione quanto contenuto in quel testo e si dilatano ancora i tempi, si sappia che il sistema di istruzione diventa l’unica reale opzione per l’assolvimento dell’obbligo formativo, non potendosi prefigurare in alcun modo un analogo sistema nazionale di formazione professionale, basato su un minimo di regole comuni. Diplomi e qualifiche professionali hanno valenza nazionale, a condizione che ci sia un denominatore nazionale alla base dei sistemi che li producono. Venti distinti sistemi regionali non possono che riprodurre la condizione presente, che nega validità nazionale e a maggior ragione europea ai percorsi formativi regionali. Se non si risolve positivamente questa vicenda, credo che si porrà anche un problema di opportunità di finanziamento per un’attività le cui finalità, anche solo sociali, sfuggono. Insomma la definizione di regole minime nazionali è un passaggio obbligato. Tra queste considero prioritario il contratto nazionale dei lavoratori del settore. Trovo inaccettabile che si possa mettere in discussione, da parte degli enti gestori, il diritto dei lavoratori al contratto nazionale. Il 5 febbraio CGIL CISL UIL scuola di settore hanno proclamato uno sciopero di 4 ore a sostegno della richiesta di avvio del confronto contrattuale. Gli enti gestori, in particolare quelli associati in FORMA ( ma il silenzio degli altri non è per nulla rassicurante) stanno utilizzando il diritto al contratto dei lavoratori per ottenere dal Ministero del lavoro e dal coordinamento delle Regioni condizioni di maggior favore. Non è questa la sede per una discussione di merito delle loro motivazioni, ma la CGIL scuola ritiene la definizione di regole minime nazionali la condizione minima perché si possa parlare di pari dignità tra la scuola e la formazione professionale, che la CGIL scuola ritiene il riferimento al contratto di settore elemento fondante e qualificante del sistema nazionale e che respingiamo con forza ogni tentativo di strumentalizzazione dei lavoratori e del loro sacrosanto diritto al contratto.
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Le certificazioni. Ovvero servono modelli e linguaggi condivisi, per una vera politica dei crediti formativi. Non volendo sottrarre tempo agli altri interventi, mi limito a porre il problema e a sottolinearne la rilevanza. è un tema che evoca una complessità che non mi sfugge, ma non per questo possiamo sottrarci.
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Infine la scuola. Il riordino dei cicli scolastici rende davvero possibile l’attuazione dell’obbligo formativo. Ma soprattutto la secondaria ha di fronte a sé un percorso, probabilmente lungo, di profondo cambiamento, che va accompagnato e sostenuto. Non è solo questione di definizione dei curricoli a livello nazionale: certo questa è una esigenza forte, ma non certo l’unica. Il nuovo profilo professionale che si delinea richiede riconoscimento e valorizzazione delle diverse prestazioni da garantire; a maggior ragione se alla scuola si chiede un impegno anche per la formazione degli apprendisti. Così come il passaggio dall’insegnamento all’apprendimento, la centralità del discente rispetto all’impostazione tutta centrata sulle discipline, tipica di questo grado di scuola, non possono essere assunti come passaggi indolori e scontati, per il solo fatto che così vuole il nuovo sistema. Il consenso e la condivisione di questi obiettivi da parte del personale docente sono condizioni indispensabili per il loro raggiungimento. E questo consenso va ricercato e costruito, con la formazione in servizio, con percorsi di aggiornamento professionale e metodologico, con una serie di servizi di supporto alla progettazione curricolare che il nuovo assetto organizzativo del Ministero, centrato sulle direzioni regionali dovrà mettere a disposizione della scuola dell’autonomia. E’ innanzitutto una trasformazione culturale che si richiede in particolare ai docenti della secondaria superiore, di revisione del proprio ruolo, con una sottolineatura del carattere sociale di una professionalità finora basata essenzialmente invece sulle discipline e sullo svolgimento del programma. L’obbligo formativo ribalta questa impostazione: i nuovi alfabeti e l’uso di tecnologie in continua evoluzione richiedono nuovi saperi ma soprattutto la capacità di orientarsi, di lavorare con altri, di affrontare problemi sapendo ricercare soluzioni, non potendo più contare su soluzioni preconfezionate. Didattica individualizzata affinchè ciascuno possa acquisire gli strumenti necessari per una cittadinanza piena e consapevole. Ciò implica una scuola che sta sul territorio, che progetta insieme agli altri soggetti sociali ed istituzionali di quel territorio con un’attività "partecipata", in cui ciascuno porta il suo contributo alla riuscita piena del progetto formativo. Vanno costruite e garantite le passerelle, la possibilità cioè di passare non solo da un indirizzo scolastico all’altro, ma anche di entrare ed uscire da e verso la formazione professionale ed il lavoro. E tutto questo rinvia al tema della certificazione di tutti percorsi, alla pari dignità fra le offerte, ma rinvia anche al tema dell'ambiente, dell’edilizia scolastica e della disponibilità di laboratori. Occorre garantire anche una più diffusa presenza territoriale dei diversi indirizzi della scuola superiore, affinchè la scelta sia davvero tra percorsi diversi e occorre lavorare di più e meglio sull’orientamento, insieme agli altri soggetti a cominciare proprio dai centri per l’impiego. Torna la necessità del rapporto con gli altri soggetti, di una collaborazione che non va però tradotta in confusione o peggio ancora in concorrenza. La chiarezza del mandato e del ruolo di ciascuno è fondamentale per garantire il successo formativo ai giovani, che per l’appunto vanno sostenuti nelle scelte che devono compiere e non disorientati dalle spinte autoprotezionistiche dei diversi soggetti che a loro si rivolgono. Infine un accenno alla contrattazione: le modalità di finanziamento di queste attività integrate, ivi compreso l’IFTS, richiedono la messa a punto di modalità e strumenti contrattuali del tutto inediti, ma necessari sia per un’ovvia esigenza di trasparenza e democrazia sia per la costruzione di quel clima positivo dentro la scuola, determinante per la qualità stessa dei percorsi.
Roma 26 gennaio 2001