La storia della Moratti: provinciale, ideologica e con omissis
Pubblichiamo di seguito un interessante l’articolo dello storico Giuliano Procacci, apparso su La Stampa di oggi, a proposito dei programmi di storia previsti dalla “riforma” Moratti.
Pubblichiamo di seguito un interessante l’articolo dello storico Giuliano Procacci, apparso su La Stampa di oggi, a proposito dei programmi di storia previsti dalla “riforma” Moratti.
Roma, 27 luglio 2004
Da La Stampa del 27 luglio 2004
Lacune, allergie verso il lessico storiografico, scelte discutibili: gli «obiettivi» della riforma Moratti
Poche storie, questa è la nuova scuola
Dei programmi di storia previsti dalla riforma Moratti sono stati sinora resi pubblici quelli per la scuola dell’infanzia e quelli per i tre anni della scuola secondaria di primo grado. Questi ultimi coprono l’intero arco storico che va dal Medio Evo ai nostri giorni e si articolano in una serie di «obiettivi specifici di apprendimento», nove per il biennio iniziale, il cui programma si conclude con le rivoluzioni americana e francese, e sedici per il terzo anno in cui è oggetto di studio il periodo storico che va dall’età napoleonica sino ai nostri giorni.
Taluni di questi obiettivi si limitano alla mera enunciazione dell’argomento trattato ricorrendo al lessico tradizionale della manualistica. Ve ne sono però altri (la maggioranza) che sembrano suggerire un tipo di concettualizzazione nuova ricorrendo a perifrasi e circonlocuzioni non sempre facilmente decifrabili perché prive di ogni riferimento concreto. Si direbbe anzi, come avremo modo di constatare, che i redattori di questi «obiettivi» soffrano di una forma di allergia nei confronti del lessico storiografico consolidato. Ciò rende più difficile comprendere lo spirito e gli intenti con cui sono stati elaborati e quali siano i loro limiti.
Ciò che comunque colpisce a prima vista è la limitazione dell'orizzonte geografico alla sola Europa. Nel programma del biennio il solo «obiettivo» che ne fuoriesca - la nascita dell’Islam e la sua espansione - non rappresenta certo un’innovazione. Esso figura infatti con lo stesso titolo in tutti i manuali. Non ritroviamo invece un altro capitolo tradizionale, quello sulle «grandi scoperte geografiche». Si è perciò preferito parlare di un’Europa che si apre ad un «sistema mondiale di relazioni» e che scopre l’esistenza dell’«altro». Sembrerebbe una formulazione con un certo flavor multiculturalista, ma tale supposizione è smentita dalla constatazione che nei successivi «obiettivi» questo «altro» non si materializza.
Né si dice come si venga organizzando il nuovo «sistema mondiale di relazioni» né quali siano i rapporti che si stabiliscono tra il centro e la periferia.
Termini quali imperialismo e colonialismo sono accuratamente evitati e la successiva trattazione rimane solidamente ancorata all’Europa. Se si eccettuano quelli relativi alle due guerre mondiali, tutti i sedici «obiettivi» del terzo anno infatti sono centrati su di essa e più precisamente sulla sua parte occidentale, e non mi sembra casuale che quello finale, se non conclusivo, sia dedicato all’integrazione europea, quasi essa fosse il coronamento, se non la fine, della storia.
Si prende comunque atto del fatto che la «centralità europea» non sopravvisse alla prima guerra mondiale e all’avvento dell’«età delle masse» (due fenomeni dei quali mi riesce difficile vedere la connessione). Ci si aspetterebbe dunque di essere d’ora in poi informati su ciò che è accaduto in quella parte del mondo che da questo momento ha cessato di essere una periferia, ma la nostra aspettativa rimane delusa. Eventi quali la rivoluzione cinese, l’indipendenza indiana e la decolonizzazione non rientrano in nessuno degli «obiettivi» relativi ai decenni successivi alla seconda guerra mondiale. Non mi riferisco solo a quello che impropriamente continuiamo a chiamare il «terzo mondo». Mi riferisco anche alla Russia e al continente americano, la cui storia risulta marginalizzata, se non assente. Il solo riferimento esplicito è quello alla rivoluzione americana.
Sarebbe errato definire come eurocentrica una siffatta impostazione. L’eurocentrismo è infatti tale in quanto prende in considerazione la storia dei Paesi extraeuropei solo nella misura in cui essa si intreccia con quella del vecchio continente, e le riserva quindi un’attenzione minore e un ruolo subordinato, ma non la ignora come avviene invece nel nostro caso. Più che di eurocentrismo, si tratta dunque di provincialismo, un provincialismo magari a livello europeo, ma sempre tale. Mi sembra superfluo sottolineare come nel mondo globalizzato in cui viviamo questa angustia di orizzonti rappresenti un limite grave.
Storia d’Europa quindi. Ma quale storia d’Europa? Nel preambolo che precede l’elenco degli «obiettivi specifici» si legge che «i fatti, personaggi, eventi ed istituzioni» cui ci si riferisce nella trattazione devono essere correlati «al contesto fisico, sociale, economico, culturale e religioso» nel quale si collocano. Si tratta di un’affermazione pienamente condivisibile, se non ovvia. Solo che dei fatti, personaggi, eventi ed istituzioni non vi sono che scarse tracce nel testo dei vari obiettivi. Rimangono solo i «contesti» come cornici senza quadro. E neppure tutti.
Privilegiato è infatti quello culturale e religioso. Esso consiste essenzialmente nell’«unificazione culturale e religiosa dell’Europa» che si sarebbe prodotta dopo il Mille e alla quale risalgono «le radici di un’identità comune». Questa unità religiosa conosce nel corso del ‘500 una «crisi» (il riferimento - suppongo - è alla Riforma protestante e alle guerre di religione) e nel corso del ‘600 e del ‘700 si trova a dover affrontare la sfida di «nuovi saperi» e dell’Illuminismo. Ciononostante l’identità comune europea continua ad affondare le sue radici nell’unità religiosa e cristiana. Nel bel mezzo di questo percorso si collocano, come un masso erratico, l’Umanesimo e il Rinascimento. I redattori del curriculum, solitamente così loquaci, non spendono infatti una parola circa il loro apporto alla formazione di un’identità europea, limitandosi a riprodurre la formulazione della tradizione manualistica.
Se i contesti culturale e religioso appaiono sia pure approssimativamente delineati, altrettanto non si può dire del contesto economico e sociale. Negli «obiettivi» relativi alla storia medioevale non figurano ad esempio termini e concetti quali feudalesimo e società feudale che pure appartengono al lessico di base di qualsiasi manuale di storia.
Peggio, molto peggio vanno le cose per ciò che concerne la storia moderna e contemporanea. L’omissione più clamorosa è quella della rivoluzione industriale inglese. Senza una sua adeguata trattazione diventa incomprensibile la successiva estensione del processo di industrializzazione e l’affermazione dell’economia capitalistica in Europa e nel mondo.
Non sorprenderà perciò se conseguentemente sia assente ogni riferimento al contesto economico e sociale e il termine stesso di capitalismo, che pure non dovrebbe essere tra quelli tabù, non vi figuri, come non vi figura specularmente quello del suo antagonista storico, il movimento operaio e socialista. A meno che anche ad esso non si riferisca il più sibillino degli «obiettivi», quello relativo alle «ideologie come tentativi di dar senso al rapporto uomo, società, storia».
Se il movimento socialista viene passato sotto silenzio, è ovvio che altrettanto accada per quella variante o, se si vuole, quella degenerazione di esso che è il comunismo. Non un riferimento alla rivoluzione del 1917 (la stessa sorte era peraltro toccata anche alla rivoluzione inglese) e ai settant’anni della storia sovietica. Ci si limita a inserire l’Unione Sovietica tra i regimi totalitari. Ciò non impedisce peraltro agli estensori del curriculum di dedicare uno dei loro «obiettivi» al «crollo del comunismo nel Paesi dell’Est europeo». Le mort - come diceva il vecchio Engels - saisit le vif.
Senza capitalismo, senza socialismo e anche senza comunismo la storia contemporanea risulta amputata di una sua componente non certo marginale, e ridotta alla sola dimensione della storia politica.