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Ultima chiamata per la scuola della Costituzione

Il potere di “chiamata diretta” dei dirigenti scolastici è una legge rovinosa, ben oltre la deriva di alcuni recenti fatti di cronaca. Analisi di una lenta trasformazione destinata a colpire il sistema dei diritti.

22/08/2016
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Come può accadere che la scuola pubblica, luogo democratico deputato alla crescita e alla formazione dei cittadini di domani, precipiti nel buio dell’arretratezza dei diritti?

La domanda forte, anche provocatoria, nasce dalle recenti notizie di cronaca, ampiamente riportate dai giornali che ne hanno amplificato l’effetto-spettacolo: la “modernità” del dirigente-padrone che sceglie i docenti a cui dare l’incarico triennale e lo fa, anche, con i mezzi più subdoli che il ruolo gli consente.

Dopo gli Istituti Comprensivi di Prato e Pistoia intenti a reclutare insegnanti con video a figura intera, pena l’esclusione, sono stati segnalati diversi abusi a Perugia e nelle Marche nei confronti di lavoratrici-madri; altri, probabilmente, andranno formalizzandosi in questi giorni e concorrono a definire un quadro di libere interpretazioni molto lontano dalla qualità culturale e relazionale di cui la scuola è garante.

La realtà comune non è questa, naturalmente, ma l’autorità discrezionale della figura-vertice dell’autonomia scolastica è parte della legge 107, e l’esercizio che ne deriva si avvale di iniziative individuali sulle quali il MIUR non ha saputo imporre altro che vacue linee-guida.

Dove non sono bastati quasi due anni di mobilitazioni, scioperi, azioni legali e raccolta-firme per il referendum, è arrivato il gossip a farne un fenomeno popolare e, nei risvolti, a svelare i possibili rischi, però soffermandosi più sull’aspetto boccaccesco che su quello della violazione costituzionale.

Aldilà di chi pensa alla scuola come il set di un provino televisivo o detta le regole per l’inquadratura del collegamento-skype, casi isolati che si commentano da sé, il grave della questione è nelle mille tracce quotidiane di colloqui invadenti, ricattatori, in cui anziché il dovuto rispetto alla professionalità dei docenti, che tali già sono, si indaga nelle pieghe personali, intimidendo le reazioni e marcando la piramide della gerarchia.

La questione di genere torna prepotente alla ribalta, come nella più cupa realtà di certi settori del lavoro privato; facce, forme, disponibilità, disimpegno familiare, arrendevolezza, età, diventano corollario ai requisiti richiesti dalla legge per fare l’insegnante, perché come un vero responsabile delle risorse umane, il dirigente si adopera a tracciare il profilo del “suo docente ideale”, con un’autonomia senza precedenti.

I fatti segnalati non raggiungono necessariamente la soglia del reato né sono di per sé illegittimi, ma offendono la persona interessata e, più in generale, il mondo della scuola, perchè screditano i principi di cui è portatrice l’istruzione stessa: l’inclusione, le pari opportunità, il pieno sviluppo dell’individuo, la dimensione sociale.

Lo sterile rapporto a due che si crea nell’esercizio della “scelta” da parte del dirigente, premessa di un percorso di valutazione e non di valorizzazione che invece preclude alla dimensione partecipativa, è quanto di più arretrato si possa immaginare, anche senza la deriva emersa nei tristi fatti di cronaca. 

Solo la ministra Giannini pare non accorgersene, chiamando alla reazione coloro che vogliono denunciare gli episodi vessatori di cui sono stati vittime durante i colloqui: casi singoli, da perseguire e fine del problema. Analisi del contesto ridotta a zero e intervento di routine, anche superfluo, perché utili forme di tutela sono già previste dalla legislazione vigente.

Capire come si è permesso a queste dinamiche di affermarsi nella scuola, in nome dell’innovazione, corrodendo le solide basi cooperative che miglioravano i saperi e i rapporti interpersonali pur nella differenza dei ruoli di gestione, è argomento che attiene al senso civico di chi crede nell’istruzione pubblica.

Ci sono indicatori concreti, oltre l’esaltazione dei fatti di cronaca, che si collegano tra loro e rilevano come tutto questo sia, purtroppo, l’inizio di una trasformazione che segna l’adattamento dell’organizzazione scolastica alle esigenze produttive, in cui il lavoro è flessibile e i ruoli di responsabilità elevati e investiti di cultura aziendale.

La domanda di autorità trova espressione nelle ripetute parole magiche “meritocrazia” e “leadership” e si rende credibile come opera di convinzione per la rinascita di un sistema malato; il non-governo dell’amministrazione è l’atto finale che sostiene il progetto di smantellamento valoriale di quanto c’era.

Si richiama l’efficienza della macchina pubblica, come contrasto ai fannulloni, ad imporre strumenti radicali perché così vuole la propaganda strillata, che stabilisce l’obiettivo di risultato con implicita indifferenza ad ogni disarmonia.

E il sistema dei diritti diventa un ostacolo, la concorrenza un valore per fare emergere “il migliore” in campo: i lavoratori che non rispondono all’onere di investimento, pubblico o privato che sia, deciso da chi ha il potere di gestione, rimangono a margine.

Il principio del pluralismo come elemento educativo dei giovani, la diversità delle idee come strumento di orientamento, la passione come leva formativa, rischiano di annullarsi dietro lo sbarramento dell’omologazione; e il dirigente, con la benedizione del governo, costruisce la “sua squadra” selezionando, con i mezzi che ritiene, le candidature e i curriculum dei docenti.

Gli impegni familiari, la difficile realtà quotidiana dell’assistenza e del lavoro di cura, la disabilità e le sue esigenze, il desiderio di investire nello studio da adulti, la militanza sindacale, l’adesione politica, arriveranno a segnare la linea della discriminazione, con buona pace delle lotte che hanno garantito queste conquiste e dei tanti altri diritti che rimarranno al palo, sepolti dalle regole dell’agonismo.

Non deve, quindi, distogliere dal vero problema il comportamento esagerato e detestabile di qualche capo d’istituto, a fronte della nutrita maggioranza che applica ragionevolmente quanto la legge prescrive, perché è proprio la legge a demandare un potere esclusivo sbagliato. E le conseguenze effettive, nella mala gestione come nella buona, rischiano di essere sempre più estranee al cambiamento che richiede la profonda comprensione della realtà sociale.