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Due piccoli rimedi contro i malanni dei concorsi a cattedra riformati

Nel dibattito in corso sulla riforma universitaria, il tema dei concorsi a cattedre universitarie è stato poco discusso.

18/01/2000
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Due piccoli rimedi contro i malanni dei concorsi a cattedra riformati

di Bruno Jossa
Ordinario di Economia politica
nell'Università "Federico II" di Napoli

Nel dibattito in corso sulla riforma universitaria, il tema dei concorsi a cattedre universitarie è stato poco discusso. Eppure si tratta di un problema di primaria importanza, perché l'Università decade o assume prestigio a seconda che la ricerca peggiora o migliora; e le sorti della ricerca sono in gran parte condizionate dal modo come si fanno i concorsi. Una considerazione preliminare a riguardo è che non c'è alternativa a un sistema di concorsi nei quali a giudicare siano i professori già in ruolo nelle discipline di cui trattasi. L'Università viene spesso criticata perché appare come una casta chiusa, ove il sistema della cooptazione genera privilegi e crea corporazioni che non si rinnovano a sufficienza. Ma vi immaginate un concorso a cattedra universitaria ove i giudici non siano del mestiere? Data l'enorme specializzazione a cui tutte le scienze sono ormai pervenute, chi può avere la competenza a giudicare se non coloro che coltivano professionalmente una certa disciplina?

Ma è proprio sui concorsi che negli ultimi tempi è avvenuta la svolta legislativa più significativa. Il ministro Berlinguer per lungo tempo aveva caldeggiato una proposta secondo la quale i concorsi si svolgevano in due tempi: prima una commissione nazionale approvava periodicamente un listone di idonei, poi le singole Università sceglievano uno degli idonei e lo chiamavano a ricoprire una cattedra. Ma quella proposta sollevò un mare di critiche che indussero Berlinguer a cambiare radicalmente indirizzo e a introdurre per la prima volta in Italia i concorsi effettuati in sede locale dalle singole Università; e Sylos Labini attribuisce il cambiamento di rotta del ministro all'appello pubblicato dal Sole-24 Ore del 28 maggio 1997, firmato da 150 docenti, e a un rapporto di una commissione creata dalla Società degli economisti, da me presieduta.

Io non so quanta influenza possa aver avuto il rapporto della Società degli economisti, ma quel che devo chiarire, per dare un contributo al dibattito oggi in corso, è che la nostra commissione non si espresse affatto a favore del sistema "localistico" che alla fine Berlinguer ha varato. L'opinione della maggioranza dei miei colleghi e mia di allora, che io tuttora condivido, può essere così espressa. I concorsi devono essere decisi da una commissione di esperti della materia scelti a livello nazionale, senza alcuna concessione alle esigenze locali; e il concorso deve svolgersi a livello locale solo per evitare le enormi lungaggini cui dava luogo il vecchio sistema dei concorsi centralizzati. Il sistema che, invece, ha prevalso è un sistema "localistico", che sta dando pessima prova. Per esso, ogni facoltà designa un docente locale nella commissione, non vi sono limiti al numero di concorsi che si possono effettuare ogni anno e ogni commissione sceglie tre vincitori. Questa normativa ha fatto sì che nelle due tornate di concorsi che si sono avute nel 1999 si è avuto un proliferare di concorsi ove le esigenze localistiche hanno preso un totale sopravvento. Il gran numero di concorsi chiesti dalle singole Università e il loro condizionamento dovuto all'esistenza di un commissario scelto localmente hanno fatto sì che gruppetti di docenti siano riusciti molto spesso a organizzare da soli l'intero concorso, in modo da precostituirlo in tutto o in parte. E ciò determinerà in molte discipline un autentico crollo della ricerca scientifica.

Fortunatamente, per aggiustare le cose ci sono due rimedi semplici che possono essere apportati alla normativa vigente. Il primo di essi è quello di porre un vincolo al numero di concorsi che possono essere effettuati ogni anno, per evitare la proliferazione dei concorsi in singoli gruppi di materie. L'attuale vincolo finanziario, dovuto al regime di autonomia oggi esistente nelle Università, si è rivelato assai poco efficace a riguardo. Il secondo aggiustamento è quello di cancellare la norma che prevede un membro interno nelle commissioni. Che senso ha, mi domando, precostituire in parte i concorsi consentendo alle singole facoltà di scegliere esse un membro della commissione che abbia il compito di favorire il candidato locale? Il ministro Zecchino lamenta la bassa qualità della didattica impartita nelle nostre Università. Ma la qualità della didattica dipende quasi esclusivamente dalla qualità della ricerca, come occorre ripetere in ogni occasione. E la qualità della ricerca dipende in grandissima parte dal modo in cui sono organizzati i concorsi.