Il documento conclusivo della Consulta Docenti del 13 febbraio
La Consulta docenti dello Snur-Cgil, riunita a Roma il 13 febbraio 2003, ha preso in esame la situazione politica creatasi con le recenti iniziative del Ministro Moratti ed ha espresso le sue più vive preoccupazioni per le progettate riforme degli Enti pubblici di ricerca e delle Accademie e dei Conservatori
SNUR CGIL
CONSULTA DOCENTI
DOCUMENTO DEL 13 FEBBRAIO 2003
La Consulta docenti dello Snur-Cgil, riunita a Roma il 13 febbraio 2003, ha preso in esame la situazione politica creatasi con le recenti iniziative del Ministro Moratti ed ha espresso le sue più vive preoccupazioni per le progettate riforme degli Enti pubblici di ricerca e delle Accademie e dei Conservatori che sostanzialmente mirano a porre l'intero apparato della ricerca pubblica e dell'Alta formazione in Italia sotto il controllo immediato e diretto del potere politico, negando quella autonomia delle istituzioni che è garantita dall'art. 33 della Costituzione repubblicana perché costituisce una imprescindibile premessa dello sviluppo della ricerca stessa e della cultura. Ogni produzione culturale e, ancor più, un'attività di ricerca alle frontiere del sapere scientifico non possono essere asservite ai poteri politici ed economici, pena il negare loro stesse.
E', poi, inaccettabile la dichiarazione della Moratti per cui il confronto sulla riforma degli Enti può proseguire fino a giugno, ma che se non si farà come lei vuole, dopo tale data gli Enti saranno messi in liquidazione. E' gravissimo che un Ministro della ricerca scientifica anche solo adombri la possibilità di liquidare le Istituzioni cui è demandato il compito di fare ricerca.
Attacco ai diritti dei lavoratori ed alle organizzazioni che li rappresentano; taglio sia in termini relativi che assoluti dei finanziamenti alla ricerca ed all'alta formazione; divieto alle nuove leve di accedere all'attività di ricerca universitaria e negli Enti attraverso il blocco non solo delle assunzioni, ma anche della spesa per collaborazioni; un piano nazionale della ricerca che ne sposta l'asse verso i servizi tecnologici alle imprese appaiono tutte espressioni di un medesimo disegno politico di fondo: la scelta, per la nostra società, di un modello di sviluppo che non ha come motore la capacità di innovazione, bensì il più intenso sfruttamento di una forza lavoro di cui si vogliono deprimere professionalità e capacità creative. Se questo è il modello di sviluppo perseguito da Governo e Confindustria, perché investire risorse nell'alta formazione e nelle ricerca pubbliche? E non basta disinvestire, le istituzioni deputate a questi compiti sono pericolose per la realizzazione di questo disegno perché, se autonome, non sono facilmente omologabili e strumentalizzabili; vanno, dunque, poste sotto il controllo del potere politico ed economico. Non è questa la politica del Governo nei confronti della Magistratura?
E' in questo quadro che vanno lette le proposte del Ministro, formulate sulla scorta dei lavori della Commissione Di Maio. Di esse, non si dispone ancora di un testo compiuto, in quanto - evidentemente - il Ministro intende seguire la medesima strategia mediatica seguita per gli Enti di ricerca: si lasciano fuggire notizie parziali e confuse in modo che l'opposizione alla linea governativa non possa decollare in mancanza di una proposta compiuta. Questa sarà formulata solo quando i contenuti della proposta non costituiranno più una sorpresa e, dunque, non saranno più in grado di suscitare indignazione, così depotenziando ogni azione di opposizione e resistenza.
Non dobbiamo cadere in questa trappola; anche se non è noto nei particolari, il disegno governativo è chiaro nei suoi punti fondamentali e non dobbiamo rinunciare né ad esprimere il nostro giudizio su di essi, né a chiamare i docenti universitari, tutti coloro che vivono e lavorano nell'Università, le altre organizzazioni dei docenti universitari e l'intera opinione pubblica ad esprimere la propria opinione. Se il Ministro non ha avuto finora la sensibilità di confrontarsi con tutti gli interessati - nonostante gli impegni presi nell'incontro del 16 novembre scorso - dobbiamo far ugualmente sentire la nostra voce.
Nel merito:
1.- Uno dei punti fondamentali della riforma è quello della riarticolazione della carriera del docente su due fasce, ponendo ad esaurimento la fascia dei ricercatori e sostituendola con contratti a termine di quattro anni rinnovabili una sola volta. In primo luogo, nulla si dice della sorte degli attuali ricercatori ed è facile prevedere che incontreranno notevoli ostacoli per vincere un concorso nelle fasce superiori in concorrenza con i più giovani perché questi ultimi, se non vincono il concorso, dovranno lasciare l'Università; ma soprattutto viene del tutto ignorato il pur ricco dibattito che si è svolto sulla cd. terza fascia e sulla necessità di poter contare pienamente su questo personale docente per l'attuazione della riforma didattica e per il pieno sviluppo delle sue potenzialità.
Ma anche l'assetto su due fasce a regime è più che discutibile: il nuovo assetto, infatti, a ben guardare, è identico a quello attuale e se ne differenzia unicamente per la precarizzazione del ricercatore. Insomma, prima di accedere ad un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, il nuovo docente dovrà aver compiuto un accidentato percorso fatto prima da precariato senza diritti (borse di studio, assegni di ricerca ecc.) e poi dal contratto a termine che sostituisce il ruolo di ricercatore, il tutto per un tempo stimabile in più di 15 anni successivi al conseguimento del dottorato di ricerca. Superati i 40 anni, i mancati docenti dovrebbero ricollocarsi altrove: nelle condizioni del mercato del lavoro italiano, una simile pretesa o è ipocrita o è patetica. Il rimedio suggerito, la ricollocazione dei mancati docenti in altri settori della pubblica amministrazione, è un'esperienza già fatta ed è stata fallimentare, come è noto a tutti, ma evidentemente non al collega Di Maio e al Ministro. Come può pensarsi che una simile prospettiva professionale possa attrarre i giovani migliori?
Né va trascurato che, probabilmente, la fascia degli associati, diventando quella iniziale della docenza,verrà considerata inferiore a quella attuale per livello di professionalità, con un evidente e grave danno per gli attuali associati e per il funzionamento dell'istituzione.
2.- Ma anche le caratteristiche del nuovo stato giuridico dei docenti sono inaccettabili.
Di particolare evidenza è l'abolizione della distinzione tra tempo pieno e tempo definito, con una piena liberalizzazione della possibilità per i docenti di svolgere privatamente libera attività professionale, di consulenza ed incarichi retribuiti (l'unico limite è il conflitto d'interessi con l'Ateneo). Si tratta di un grazioso regalo agli attuali docenti a tempo definito che si vedranno attribuire l'indennità di tempo pieno senza innovare il loro rapporto con l'Università e, soprattutto, rimane intatto l'antico problema di quei docenti che, nelle facoltà professionali, conseguono una posizione di rilevante vantaggio nel mercato delle professioni in cambio dello stretto adempimento ai loro doveri di ufficio.
I docenti dovranno dedicare 350 ore annue a tutte le attività del proprio ufficio, di cui 120 ad attività didattiche "o ad esse collegate". Nelle 350 ore, dunque, sono comprese, oltre la didattica, sia l'attività di ricerca, sia l'attività di servizio o di governo. Nell'attuale normativa invece, come è noto, le 250 ore sono dedicate alle attività didattiche e le ulteriori 100 dovute dai docenti a tempo pieno includono, oltre alla didattica, anche "i compiti organizzativi interni". Ne consegue che, in contraddizione con la nuova articolazione degli studi universitari, l'orario destinato alla didattica diminuisce da 250 a 120 ore e la ricerca cui è tenuto ciascun docente sarà, al massimo, quella che può essere svolta in 230 ore annue. Chiunque faccia ricerca sa quanto questo limite sia risibile.
In realtà, il vero intendimento della riforma risulta chiaro se si tiene presente un'ulteriore proposta: l'Ateneo potrà stipulare con ciascun docente un contratto individuale con il quale vengono concordati impegni didattici o di ricerca o gestionali e di acquisizione di risorse umane, strumentali e finanziarie, a fronte di trattamenti accessori di quello di base, computati ai fini del trattamento di quiescenza.
In primo luogo, dunque, la retribuzione del docente universitario diviene una variabile dipendente dalle disponibilità finanziarie di ciascun Ateneo; né gli Atenei potranno chiedere maggiori finanziamenti per far fronte alle maggiori spese sostenute per il personale docente, come hanno fatto i Rettori in occasione dell'ultima Finanziaria, perché tali spese saranno frutto di scelte formalmente autonome. Inoltre, la mancanza di ogni criterio o parametro, comporta che, all'interno di ciascun Ateneo, la distribuzione delle risorse per i contratti sarà potenziale frutto di arbitrio e di conflitti tra i gruppi accademici per l'accaparramento delle risorse stesse, con penalizzazione di quelli più deboli e, ancor di più, degli studiosi isolati. Che il disegno sia questo, è reso evidente dal fatto che nessun cenno ci sia all'opportunità di riequilibrare tutto questo attraverso una contrattazione sindacale, nazionale e di Ateneo. Né va trascurato, che i contratti in discorso sono a termine: una parte della retribuzione del docente è, dunque, resa precaria.
Insomma, i doveri dei docenti vengono ristretti in limiti temporali risibili, di gran lunga inferiori al tempo che oggi un docente normalmente dedica al totale delle sue attività; di conseguenza, o si riduce altrettanto drasticamente l'attività dell'Istituzione nel suo complesso ovvero l'attività della stessa rimarrà quella che è oggi, ed allora, per alcuni, il tempo che i docenti dovranno dedicarci oltre le 350 ore annue sarà "sommerso" (una sorta di lavoro nero) e per altri oggetto di un contratto ad hoc con un compenso aggiuntivo la cui misura varierà secondo le capacità finanziarie dell'Istituzione e, all'interno di queste, secondo la forza contrattuale del gruppo accademico cui si appartiene.
E' facile prevedere che, in un simile sistema, i docenti saranno incentivati alla ricerca affannosa di risorse esterne per lucrare contratti vantaggiosi, distogliendo gran parte delle proprie energie dalla didattica ordinaria e dalla ricerca di base. Perché impegnarsi più di tanto nei corsi di laurea, se un corso di formazione venduto all'esterno può portare incrementi più o meno significativi di reddito? Perché intraprendere una linea di ricerca che non porterà a risultati applicativi immediatamente utilizzabili sul mercato, quando un'altra può portare un reddito aggiuntivo?
Siamo ben oltre un corretto rapporto tra una Università che, nel rispetto del proprio ruolo istituzionale e della propria funzione sociale, cerca ogni opportuna sinergia con le altre istituzioni e con il sistema produttivo; siamo ad una Università che abdica al proprio compito di interpretare sul lungo periodo le esigenze formative e di ricerca della società per subordinare i propri progetti formativi e le proprie linee di ricerca alle esigenze immediate delle imprese.
3.- Il Ministro propone una riforma dei concorsi per la docenza che prevede un'idoneità nazionale per un numero di posti limitato, pari alle richieste delle singole Università aumentato del 20%, cui segue la chiamata da parte di ciascun Ateneo, secondo le procedure dallo stesso stabilite. Le prove di idoneità, articolate per settore scientifico-disciplinare, saranno bandite ad anni alterni per ciascuna fascia. Delle relative commissioni giudicatrici potranno far parte anche docenti dell'Unione europea, ma nulla si dice sulle modalità con le quali si arriva alla loro composizione, salvo che saranno individuate "nuove modalità".
Ovviamente, su quest'ultimo punto sospendiamo il giudizio in attesa che siano precisate tali modalità. Ugualmente, sospendiamo il giudizio circa la partecipazione di docenti dell'Unione europea, in attesa della definizione delle modalità di scelta degli stessi. In sé, tale allargamento può essere positivo, anzi perché non allargarlo oltre i confini dell'Unione? Ma non è che la scelta spetterà al Ministro, come viene proposto in un disegno di legge di un autorevole esponente della maggioranza? Se così fosse, saremmo in flagrante violazione del principio di autonomia della scienza, in primo luogo dal potere politico.
Aldilà di questo pur importantissimo punto, rileviamo la contraddizione tra qualificare prova di idoneità quella nazionale e, poi, limitarne il numero al 120% dei posti disponibili. L'idoneità presuppone una valutazione assoluta che Tizio sia idoneo a ricoprire un posto di professore universitario e comporta un giudizio binario: o è idoneo o non lo è. Una comparazione tra più aspiranti per valutare chi deve andare a ricoprire un numero di posti limitato, si chiama concorso. In realtà, si tratta di un concorso in due fasi, quella nazionale e quella locale, con la necessaria conclusione che un 20% dei vincitori della fase nazionale dovrà non essere assunto. Quello che si prefigura è un meccanismo che consentirà alle commissioni nazionali di lavarsi la coscienza: l'outsider potrà pure vincere il concorso nazionale, ma non sarà chiamato da nessuna sede.
Sia consentito, infine, esprimere perplessità sull'obbligo, gravante sul Ministero, di bandire i concorsi ad anni alterni per ciascuna delle due fasce. La norma già esisteva nel d. lgs. n. 382 ed è stata ampiamente disattesa. Attraverso questo strumento, il Ministro può - se crede - bloccare il reclutamento senza assumersi la responsabilità politica di bloccarlo esplicitamente nella legge finanziaria: se passa questa norma, il medesimo risultato può essere realizzato solo ritardando i concorsi.
4.- Coloro che saranno chiamati dalle Università, saranno assunti con un contratto di durata non superiore a tre anni rinnovabile una sola volta. Tale contratto potrà, poi, essere trasformato "in contratto a tempo indeterminato previa valutazione del docente in base a modalità e criteri definiti dalle Università" (così nel rapporto Di Maio).
Prima osservazione: si parla di contratto a tempo determinato o a tempo indeterminato. O si tratta di un'inammissibile approssimazione, o si introduce la contrattualizzazione del personale docente nel modo peggiore, perché ciò avviene in modo surrettizio e senza le garanzie previste dal d. lgs. n. 165/2001 per tutti gli altri settori dell'impiego pubblico, prima tra esse il riconoscimento del diritto alla contrattazione collettiva.
Inoltre, sarebbe in errore chi vedesse nella nuova disciplina solo uno spostamento della competenza al giudizio di conferma in ruolo da una commissione nazionale alla sede decentrata. Infatti, nell'attuale disciplina il giudizio negativo deve essere espresso e motivato, nella nuova l'Ateneo potrà (se vorrà) trasformare il rapporto; se non vorrà farlo, è sufficiente che taccia e la scadenza del termine comporterà automaticamente la risoluzione del rapporto.
5.- Nella direzione di un più forte controllo politico sul sistema universitario va anche l'inaccettabile proposta di sostituire al Cun un nuovo organismo nel quale la metà dei componenti sia di designazione governativa. Il sistema universitario rimarrebbe, così, privo di un organismo di rappresentanza in grado di interloquire - con l'autorevolezza che gli può derivare solo da una piena rappresentatività - con il potere politico.
6.- Un gravissimo vuoto e nelle dichiarazioni del Ministro e nella relazione Di Maio riguarda le soluzioni da dare alla crescente necessità di una figura docente nuova senza obblighi di ricerca scientifica che vada a ricoprire specifiche esigenze didattiche - prima di tutto quelle linguistiche - presenti in tutti i nuovi ordinamenti didattici. La mancata esplicita previsione di tale figura sta già creando gravi disfunzioni e, in molti Atenei, la tendenza ad esternalizzare una funzione come quella didattica che rientra prioritariamente tra le funzioni proprie dell'Università.
7.- Le dichiarazioni fatte dal Ministro alla Crui e al Cun non riprendono alcune indicazioni della Commissione Di Maio. Non possiamo sapere se ciò è avvenuto solo per la loro sommarietà o perché si tratta di indicazioni che il Ministro non intende seguire. Ci riserviamo, dunque, di tornare su di esse quando sarà possibile sciogliere questo dubbio.
Già in questa sede, però, possiamo anticipare che la proposta Di Maio di riarticolare i corsi di laurea triennale in percorsi ad Y ( se bene intendiamo, in percorsi distinti, solo alcuni dei quali danno titolo all'accesso ai corsi di laurea specialistica) contraddice l'indicazione di proseguire nella sperimentazione della riforma degli ordinamenti didattici: elemento essenziale di questa, infatti, era che la scissione in due segmenti del vecchio percorso di laurea aveva l'obiettivo principale, se non esclusivo, di diminuire il tasso di insuccesso negli studi. Corsi di laurea triennali che, nonostante un loro compimento positivo, non consentano l'accesso ai corsi di laurea specialistica sono destinati a riprodurre gli inconvenienti che hanno portato al fallimento dei DU.
Desta anche preoccupazione un'altra indicazione della commissione: quella per la quale vada invertita la logica del "diritto all'accesso" agli studi in "diritto al successo" per sostenere il processo di competitività degli Atenei. L'indicazione è sufficientemente oscura, ma può osservarsi che il primo "diritto" non è certo in contraddizione con il secondo e porli in alternativa può voler significare solo che si intende introdurre meccanismi che limitino l'accesso alle Università (ad alcune Università?) anche in presenza di quei saperi di ingresso che consentono i relativi studi e in assenza di limiti derivanti da disponibilità di risorse umane e materiali.
Il Ministro sappia che ci opporremo con forza alla creazione di un sistema universitario che riservi poche punte di eccellenza alla riproduzione delle élites e lasci degradare tutto il resto. Ci opporremo con forza perché un simile sistema non è idoneo a supportare un modello di sviluppo fondato su una capacità di innovazione diffusa nell'intero sistema economico e sociale.