La lotteria degli aspiranti. Il reclutamento e la carriera dei docenti restano gli elementi di più vistosa contraddizione all'interno del tormentato riordino legislativo dell'università italiana
Il reclutamento e la carriera dei docenti restano gli elementi di più vistosa contraddizione all'interno del tormentato riordino legislativo dell'università italiana
IL MANIFESTO
La lotteria degli aspiranti. Il reclutamento e la carriera dei docenti restano gli elementi di più vistosa contraddizione all'interno del tormentato riordino legislativo dell'università italiana
REMO CESERANI
Qualche tempo fa ho scritto una serie di articoli sui progetti di riforma dell'università italiana (il manifesto, 5-6-7 gennaio 2000), parlando delle concezioni contraddittorie che li ispirano, in particolare del potente modello che sembra prevalere, di origine americana, riassumibile nella formula "l'università deve essere strutturata e governata come un'azienda", e la conseguente messa in crisi della tradizionale concezione dell'università humboldtiana, come luogo di formazione ampia e approfondita delle classi dirigenti delle nazioni moderne, prima ancora che come strumento di formazione professionale.
Nel frattempo, pur continuando a scontrarsi le diverse concezioni e la conseguente confusione di intenti e filosofie dei vari organismi preposti all'attuazione della riforma (il ministero, le commissioni ad hoc, il consiglio nazionale universitario, il coordinamento dei rettori e dei presidi, le facoltà, il consiglio degli studenti, il parlamento, i movimenti politici, gli organi professionali, la società civile), la legislazione ha fatto qualche passo avanti e alcuni decreti, in particolare quelli sulle classi di laurea dei primi tre anni, sull'autonomia degli atenei, sul sistema dei crediti, stanno agli ultimi stadi dell'approvazione parlamentare e sono pronti per entrare in vigore.
Uno degli elementi di più vistosa contraddizione, in questa tormentata e complessa attività legislativa, mi pare che riguardi il reclutamento e la carriera dei docenti. Qualunque sia il modello di università che intendiamo costruire, sia essa l'università-azienda o l'università che introduce al mondo dei saperi (magari tenendo conto dei grandi cambiamenti avvenuti nella gerarchia stessa dei saperi), mi pare chiaro che sia interesse dell'istituzione avvalersi di un personale di alta qualità, protagonista della vita intellettuale, motivato alla ricerca, capace di spendersi nell'attività didattica.
E invece è successo che, essendo il vecchio sistema dei concorsi naufragato in seguito alle riforme degli anni Sessanta, alle frequenti promozioni ope legis (del tutto ingiustificabili in un mondo come quello universitario), all'ingorgo provocato dalla crescita tumultuosa del sistema, si è cercato di correre ai ripari ponendosi come obbiettivo immediato quello di allineare il nostro sistema a quello dei paesi più avanzati, garantendo lo svolgimento regolare e decentrando i concorsi, introducendo un pò di competizione fra le università, responsabilizzando le commissioni. Il ministro Berlinguer aveva, con l'aiuto di alcuni esperti e di persone illuminate, preparato un progetto di concorsi in cui convivevano due momenti: uno centralizzato di composizione di liste di idonei, uno locale di scelta da parte di una commissione responsabilizzata del candidato più adatto per quell'ateneo, capace di aumentarne la produttività e l'immagine nel mondo. Un correttivo particolarmente importante, destinato a rompere le fedeltà di scuola e le chiusure locali, prevedeva che chiunque vincesse un posto dovesse andare per un periodo di tempo a insegnare in una università diversa e lontana dalla sua, arricchendo al tempo stesso le proprio esperienze e quelle dell'università ospitante.
Credo sia stato un errore quello del ministro Berlinguer di accettare che il suo progetto venisse radicalmente travisato dalle lobbies corporative degli aspiranti professori e dalle commissioni parlamentari. L'arte del compromesso ha dato ancora una volta pessima prova. Incerti fra il mantenere il vecchio sistema centralizzato (grandi concorsi nazionali con commissioni uniche e strapotenti, che designavano in certi casi decine di vincitori) e il nuovo sistema decentrato (una commissione per ogni concorso in ogni ateneo, che tenesse conto delle necessità di quell'ateneo e puntasse alle scelte di qualità se non voleva dequalificarne il funzionamento e l'immagine - con in più i correttivi di una previa abilitazione nazionale e dell'imposizione di un servizio fuori sede contro le possibili storture degli interessi locali, personali e di scuola) si è scelta la via del concorso-compromesso-mostro, in parte nazionale in parte locale e della terna di vincitori (che nel 2001 si ridurrà a una coppia): uno (di solito il candidato locale, voluto dalla facoltà e protetto dal membro interno della commissione, nominato di ufficio e non eletto come sono invece gli altri quattro) e due considerati "idonei" che entro due anni dovrebbero essere chiamati da altri atenei.
I risultati, come può constatare chiunque abbia la pazienza di visitare in rete i siti delle università italiana e leggere i verbali delle tornate di concorsi finora effettuate, sono stati pessimi. Concorsi di professore ordinario e associato in sedi prestigiose e in discipline importanti, con centinaia di cultori nel paese e quindi con le condizioni per una bella competizione, per le quali le domande presentate, nella stragrande maggioranza dei casi, si contano al massimo sulle dita di due mani e che, all'atto dell'insediamento della commissione si riducono, in seguito a una serie di rinunce strategiche, a un numero molto vicino a quello dei tre vincitori.
Che questo sistema sia in grado di innalzare il prestigio e migliorare la qualità del personale universitario italiano e soprattutto di immettere giovani forze, portatrici di nuove visioni della ricerca, nuove aperture nel sistema dei saperi e nuove energie didattiche mi pare nettamente escluso. La produttività dei nuovi concorsi è stata altissima: dopo anni di blocco delle assunzioni e delle carriere universitarie ci sono stati d'improvviso molti concorsi e mi si dice che attualmente ci siano in Italia più di 3.000 idonei, tra fascia dei professori ordinari e fascia degli associati, in attesa di chiamata. La qualità, tuttavia, e la funzionalità del prodotto è stata molto bassa. Pochissime le nuove leve. In grandissima parte si è avuto una serie di "scorrimenti" di carriera dalla fascia dei ricercatori a quella degli associati, da questa a quella degli ordinari.
Le logiche che stanno dietro a meccanismi così clamorosamente inefficienti sono di due tipo e dipendono le prime dall'assetto amministrativo degli atenei in seguito alla cosiddetta "autonomia", le altre dai comportamenti compromissori, furbeschi o semplicemente (nella grande maggioranza dei casi) rassegnati dei professori italiani come categoria e come ceto.
Le prime logiche derivano direttamente dalle questioni che riguardano il "budget" che ogni ateneo, nei suoi organi accademici (senato) e amministrativi (consiglio di amministrazione), deve governare. La scarsa disponibilità di fondi spinge le università a non rischiare grossi investimenti in nuovo personale e a impegnare risorse finanziarie solo per aggiustamenti di stipendio di chi è già in carico nel bilancio: un nuovo professore di prima fascia costa circa 150 milioni l'anno, un nuovo ricercatore circa 80, un avanzamento di carriera da professore associato a professore ordinario circa 10 milioni; è evidente che è più facile accontentare chi è già sui libri paga dell'ateneo piuttosto che chiamare forze nuove, attirare giovani brillanti da altri atenei, indire concorsi per gente di spicco, anche se questa risultasse fresca di ricerca e capace di portare nuove esperienze avendo magari studiato e insegnato all'estero o in centri importanti e prestigiosi.
Le logiche che governano i comportamenti dei candidati e dei commissari ai concorsi sono di altro tipo. Di norma succede che la persona che intravede la possibilità di usufruire di una quota di budget presso la sua università, sufficiente a indire un concorso, mette in moto, o fa mettere in moto, il meccanismo (spesso in prima persona, creando il modello poco decoroso del candidato che si costruisce la sua commissione). La proposta viene portata in consiglio di facoltà, qui viene stilato un "profilo" della persona ideale di cui la facoltà ha bisogno per le sue esigenze scientifiche e didattiche (a chi possa assomigliare tale profilo potete immaginarlo). Viene nominato, su proposta del consiglio di facoltà, un "membro interno" della commissione, con il compito di adoperarsi perché il futuro vincitore corrisponda appunto al profilo stilato dalla facoltà.
A questo punto viene, due volte all'anno, in luglio e in febbraio, una tornata elettorale, nel corso della quale tutti i professori italiani che insegnano la disciplina oggetto del concorso sono chiamati a eleggere, per via elettronica, altri quattro commissari. Sarà stata cura del candidato locale e dei suoi protettori preparare bene questa elezione. Disponendo ogni commissione, almeno fino al 2001, di altri due posti da assegnare a "idonei" cioè a vincitori di concorso che potranno entro tre anni essere chiamati da altre facoltà, sarà cura di chi organizza il concorso procurarsi almeno altri due alleati-commissari, disposti a far vincere il candidato per cui è stato indetto il concorso in cambio della promessa di nominare come "idonei" i loro rispettivi candidati. Gli altri due commissari saranno da cercare o fra delle comparse anonime e innocue o fra persone disposte a prendere impegni di scambio per il futuro. Va aggiunto che i commissari impegnati a ottenere l'idoneità per i loro candidati devono essersi a loro volta previamente assicurati che presso la loro università ci sia la disponibilità poi a impegnare una quota di budget per chiamare l'idoneo e che anche in questo caso è molto più facile ottenere il finanziamento necessario per uno scorrimento di carriera del personale già inquadrato che ottenere una quota piena di budget per chiamare una persona giovane o comunque che provenga dall'esterno.
C'è da meravigliarsi se, con un meccanismo di questo genere, siano così scarsi i candidati per ogni concorso e che comunque, una volta nota la commissione uscita dalle elezioni (e nota più o meno a tutti la probabile composizione della terna dei vincitori) tutti gli altri si ritirino? Le aziende su cui dovrebbe modellarsi l'università-azienda non si comportano così e anzi hanno dei meccanismi di reclutamento del personale rigorosissimi e "scientifici"? E cosa possiamo farci?
Forse non c'è da meravigliarsi troppo neppure del fatto che la classe accademica italiana, sempre pronta a protestare, difendere le proprie nobili tradizioni, discutere all'infinito sull'inevitabilità della cooptazione nei sistemi di arruolamento del personale universitario, in molti casi abituata a comportarsi in modo totalmente diverso quando viene chiamata a fare da giudice e a dare un parere sulla scelta di un candidato per una cattedra all'estero, di fronte a un meccanismo perverso come quello inventato dai nostri legislatori si sia presto rassegnata e semmai impegnata a utilizzarlo a proprio vantaggio, per rafforzare la propria scuola, mettere finalmente in moto alcune carriere che erano bloccate da anni, gettando soltanto qualche lacrima sull'amaro destino dei giovani nella società contemporanea, che vede investimenti sempre più ristretti nella ricerca.
Che fare? chiaro che la protesta individuale non serve e neppure il nobile rifiuto a far parte del meccanismo. Ci vorrebbe un ravvedimento del legislatore (poco probabile, vista la quantità di professori universitari in parlamento, a cominciare dal ministro, lui stesso di recente coinvolto in prima persona in un concorso), uno scatto di orgoglio della categoria (ancor meno probabile), un movimento di opinione più ampio, forte della consapevolezza che dalla qualità dei docenti dipende in gran parte la riforma dell'insegnamento superiore in Italia, il suo collegamento con l'Europa, la sua fondamentale partecipazione alla modernizzazione del paese.