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Le Regioni sulla riforma dello stato giuridico dei docenti universitari

Il documento della Conferenza delle Regioni

08/08/2005
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La Conferenza delle Regioni si schiera a fianco dei Rettori nel criticare la riforma dello stato giuridico della docenza universitaria. “Le Regioni – si legge nel documento approvato dalla Conferenza delle Regioni del 14 luglio - pur concordando con la valutazione del Governo, condivisa dall’intera comunità scientifica, circa la necessità di un provvedimento di riforma dello stato giuridico della docenza universitaria, ritengono del tutto inadeguati i contenuti del DDL in discussione al Senato e condividono le valutazioni negative sul provvedimento espresse dalla CRUI e dal CUN e da molti Atenei”.

“Le esigenze immediate, cui occorre corrispondere, sono:

i nuovi requisiti di flessibilità del servizio didattico, richiesti dalla recente riforma didattica;
i risultati deludenti forniti dalla recente riforma dei meccanismi concorsuali, anche se si ritiene che essi non siano stati determinati dal decentramento delle procedure concorsuali, ma dall’inadeguata gestione dei concorsi, che ha spesso penalizzato la qualità delle selezioni e la mobilità, per favorire burocratiche carriere interne;
la mancata realizzazione nel tempo di condizioni di ricambio ordinato e progressivo nei diversi gruppi di ricerca ed il conseguente invecchiamento del personale docente e ricercatore, di cui circa la metà andrà in quiescenza nel prossimo decennio;
la mancata definizione dello stato giuridico dei ricercatori, problema lasciato aperto dal DPR 382/80;
lo stato di grave difficoltà finanziaria degli Atenei, a causa delle modalità con cui è stata realizzata l’autonomia budgetaria degli stessi, per iniziativa dei diversi governi che si sono succeduti dal 1993 ad oggi, modalità che hanno determinato una sostanziale e progressiva riduzione delle risorse che le università avrebbero potuto destinare al reclutamento di nuove unità di personale.
Il disegno di legge proposto dal Governo fornisce risposte a queste esigenze, ma non in maniera esauriente, e dà adito al alcune perplessità.

In particolare il provvedimento non è collocato all’interno di un intervento quadro sull’università, che affronti il problema cruciale del suo finanziamento e comunque non prevede risorse aggiuntive per la copertura finanziaria delle misure adottate.

Le Regioni ritengono, infatti, che la possibilità, prevista dal provvedimento, di interventi di altri soggetti pubblici o privati, imprese private e fondazioni , per la copertura di posti di professore o per la realizzazione di programmi di ricerca nelle università, per quanto auspicabile, non possa corrispondere al disimpegno dello Stato nei supporti finanziari necessari all’università.

A tale proposito le Regioni ritengono che, per il futuro del Paese, per la sua competitività, per la sua permanenza nel novero dei paesi maggiormente sviluppati, occorre che i settori dell’alta formazione e della ricerca vadano considerati prioritari e che pertanto le quote di risorse pubbliche statali ad essi destinati vadano allineate a quelle degli altri paesi europei, dove rappresentano l’1,4% del PIL, contro lo 0,8 dell’Italia e tendere al raggiungimento del 2% previsto per il 2010 dalla Conferenza di Lisbona.

Analogamente occorre compiere tutti gli sforzi affinché, anche sul fronte del numero di soggetti in possesso di un titolo di studio universitario, rapportato con la popolazione residente, vengano rapidamente raggiunti i livelli europei. Si ricorda che in Italia, con riferimento ai soggetti compresi tra i 25 e i 34 anni in possesso di titolo di studio di livello universitario, il rapporto con la popolazione residente è del 12%, con notevoli disomogeneità a livello territoriale, mentre la media dei paesi europei, con riferimento all’Europa a dodici, è superiore al 20%.

Induce perplessità il modello di università proposto dal disegno di legge, fondato su una dotazione di organico di personale di ruolo piuttosto ristretta, affiancata da un gran numero di personale non strutturato a contratto, per il quale si aprirebbero, di norma, chances concrete di ingresso in ruolo solo dopo i 40 anni. La maggior parte dell’ attività universitaria dovrà essere garantita da personale titolare di diversi tipi contratti rinnovabili e, comunque, di natura privatistica.

Altrettanto negative appaiono le proposte relative al personale attualmente in servizio nelle Università. Da una parte si prospetta per i ricercatori l’attribuzione di un titolo meramente formale, quello di professore aggregato privo di concrete connotazioni di stato giuridico, dall’altra si adottano misure particolaristiche che prospettano inaccettabili forme di ope legis.

Tali meccanismi, inoltre, si pongono in contrasto con la necessità che gli avanzamenti di carriera siano legati a criteri meritocratici e, pertanto, a rigorosi meccanismi di valutazione. Nello stesso tempo viene violato il principio dell’autonomia universitaria al cui ambito vanno ricondotti tutti i processi di valutazione.

Il sistema di valutazione proposto nel nuovo testo, riferito alla valutazione della idoneità scientifica nazionale, va chiarito in particolare nell’ individuazione dei settori scientifico-disciplinari e nella loro precisa definizione.

Il sistema relativo ai meccanismi concorsuali per l’accesso in ruolo e per la progressione di carriera necessita di criteri rigorosi e trasparenti al fine di favorire, da parte delle università italiane, livelli di produttività scientifica e didattica allineati a quelli delle migliori università europee ed americane.

Se il testo legislativo proposto venisse adottato i giovani più dotati potrebbero essere scoraggiati ad intraprendere la carriera universitaria e non verrebbe fornita una risposta soddisfacente all’esigenza di promuovere un ricambio generazionale.

Più convincenti in alternativa sembrano essere soluzioni che prevedano:

un periodo di formazione alla docenza successivo al dottorato di ricerca, di durata ragionevolmente breve, coperto da contratto e tale da consentire, alla sua conclusione, le necessarie scelte qualitative di quelli che potranno risultare idonei per l’ingresso nei ruoli dei professori;
un ruolo della docenza articolato su più fasce, caratterizzate da livelli differenziati di qualificazione scientifica; l‘articolazione proposta su sole due fasce, con la contemporanea messa ad esaurimento del ruolo dei ricercatori, finirebbe inevitabilmente per innalzare eccessivamente l’età di ingresso in ruolo.
Le Regioni, infine, evidenziano la necessità di un ulteriore provvedimento legislativo sulla governance del sistema universitario in cui, a valle di una più precisa definizione di ruoli, funzioni e missioni dell’università, si affrontino sia i problemi della programmazione del sistema universitario stesso sia quelli dei rapporti tra atenei e territorio. Per quest’ultimo aspetto appaiono, ad esempio, del tutto insufficienti le funzioni normativamente attribuite ai Comitati regionali di coordinamento, che nella maggior parte dei casi non consentono alle Regioni concrete possibilità di incidere nelle scelte operate dalle università”.

Roma, 8 agosto 2005

Nonno, cos'è il sindacato?

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