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Reclutamento e stato giuridico universitari. Molto rumore per nulla?

Una bozza di disegno di legge del Movimento 5 Stelle suscita dibattito, mentre si moltiplicano le ipotesi di riforma del pre-ruolo e dello stato giuridico e si profilano nuove elezioni. Il nostro punto di vista e alcune proposte.

09/08/2019
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In un quadro politico sempre più caotico, in cui si profilano nuove elezioni e in cui ancora una volta le priorità del paese rischiano di scomparire dall’agenda politica, suscita dibattito una bozza di un progetto di legge sul reclutamento universitario che unifica le due diverse proposte discusse in Parlamento la scorsa primavera: la n. 783 cosiddetta “Torto” e la n. 1608 cosiddetta “Melicchio”. Il nuovo progetto di legge, accogliendo confusamente alcune sollecitazioni raccolte nel corso dell’evento audizioni, non muta la sostanziale disorganicità delle due precedenti proposte, accentuandone semmai i limiti. Da una parte, essa conferma le attuali forme di lavoro precariato (senza introdurre nessuna reale garanzia nelle condizioni, nei rapporti di lavoro, nelle prospettive di reclutamento) aggiungendone, peraltro, di nuove. Dall’altra parte, la proposta irrigidisce le condizioni per il passaggio tra le diverse figure e rende potenzialmente più lungo e rigido il pre-ruolo universitario. Non solo: in maniera sostanzialmente impropria e occasionale, vorrebbe modificare strutturalmente l’insieme della docenza universitaria con una serie di norme che promettono il ruolo unico, ma che nei fatti gerarchizzano ulteriormente il sistema con la generalizzazione della logica delle mediane per la progressione salariale.

È ormai improbabile che, nel contesto politico attuale, il testo possa ormai essere formalizzato nelle commissioni parlamentari. Ci riserviamo di tornare su questa proposta con una lettura più analitica nel caso in cui essa prosegua nel suo iter parlamentare. È importante però ribadire che qualunque ipotesi di intervento sul reclutamento e sullo stato giuridico docenti universitari (e ne stanno circolando diversi in queste settimane) non può essere episodica o guidata da suggestioni del momento, ma deve essere organica e basarsi su finanziamenti adeguati e prevedere una adeguata fase di transizione.

È ormai da due anni che la FLC CGIL è impegnata quotidianamente negli atenei italiani e a livello nazionale con una specifica vertenza dedicata al contrasto del lavoro precario negli atenei italiani. Per questo come FLC CGIL, cioè come sindacato generale della conoscenza, ci sembra più importante oggi ribadire i nostri principi e orientamenti, e le nostre proposte, molte già raccolte nella piattaforma “perché noi no?”.

  • Il carattere Nazionale del Sistema Universitario è un patrimonio da salvaguardare. L’autonomia delle Università (con la loro autodeterminazione gestionale, didattica e di ricerca) deve svilupparsi nel quadro di norme omogenee che definiscano l’offerta formativa (ordinamenti e classi di laurea; corsi di dottorato) e l’inquadramento di coloro che svolgono attività didattica e di ricerca (stato giuridico pubblico del personale di ruolo, definizione per legge di collaboratori e tempi determinati, normative uniche per concorsi e percorsi di reclutamento). Sono questi elementi che garantiscono il ruolo pubblico di tutte le Università (con il loro stretto intreccio tra didattica e ricerca), la libertà di insegnamento e di ricerca in tutti gli Atenei (indipendentemente dalla loro configurazione e dai loro Statuti) e quindi la loro funzione sociale. La salvaguardia di questo inquadramento nazionale e del suo effettivo rispetto è anche garanzia di uno standard qualitativo delle università, della coesione sociale e della democrazia in questo paese.
  • Qualunque intervento deve quindi guardare sempre all’insieme del sistema universitario nazionale. Negli ultimi trent’anni il sistema universitario è stato soggetto ad un processo di continua ridefinizione normativa generale, per non parlare delle decine di modifiche attraverso articoli e commi delle leggi di bilancio, del milleproroghe, di questo o quel decreto legislativo. Si sono modificati aspetti didattici, dell’inquadramento del personale, del processo di reclutamento, dei meccanismi di finanziamento degli Atenei, spesso senza nessun modello generale e anzi, talvolta in contraddizione con altri principi e dispositivi dell’università. È ora che qualunque nuovo intervento avvenga guardando ad una logica di sistema e con una prospettiva generale di funzionamento dell’Università.
  • È necessario rilanciare ed espandere il nostro sistema universitario. Il lungo decennio di crisi è stato affrontato dai diversi governi contraendo le risorse per l’Università. La significativa riduzione del personale (docente e tecnico amministrativo) ne è solo il segnale più evidente. Come, sull’altro versante, la sostanziale incapacità di aumentare i laureati (ed anzi, il calo di studenti successivo alla crisi, risalito solo negli ultimi anni). Qualunque intervento sull’università deve quindi partire dall’obbiettivo prioritario di portare le risorse a un livello comparabile a quello degli altri principali paesi europei. È un’esigenza prioritaria tanto per la salvaguardia dei diritti dei suoi cittadini, quanto per lo sviluppo del paese: espandere le risorse complessive del sistema (FFO), espandere strutture e capacità ricettive dei corsi di laurea, espandere servizi e garanzie per il diritto allo studio (dalle borse alle case dello studente), espandere il personale universitario (docente e tecnico amministrativo). In questi anni, al contrario, si è fondamentalmente limitato il reclutamento, sfruttando per contrarre l’università una massiccia ondata di pensionamenti (in relazione alle stabilizzazioni dei primi anni ‘80), oggi in esaurimento. I “piani straordinari” di questi anni sono stati sostanzialmente limitati al ricambio fisiologico (intorno alle 1000/2000 unità all’anno). Ogni nuovo intervento non può allora basarsi sulla conferma degli attuali numeri della docenza e della ricerca universitaria (50mila in percorsi tempo indeterminato e 4mila a tempo determinato, al netto del multiforme precariato), o su un loro leggero incremento, ma deve porsi l’obbiettivo di una loro espansione strategica: serve cioè rompere i limiti introdotti per i punti organico, permettendo di riportare in tempi certi anche i numeri del personale ad un livello europeo (almeno intorno agli 80/100mila per il personale di ruolo, mantenendo l’attuale rapporto per il personale tecnico amministrativo).
  • Il ruolo unico (docenza e ricerca). Il personale universitario di ruolo, che intreccia compiti di didattica e di ricerca, deve avere un unico inquadramento professionale, con stessi doveri e diritti, soggetta a valutazione periodica non comparativa per la progressione stipendiale (tenendo conto della ricerca, della didattica, della gestione). Ciò consentirebbe anche di separare in modo chiaro il reclutamento dalla progressione di carriera e dal trasferimento di sede, permettendo agli Atenei una seria e responsabile programmazione. E si supererebbe così anche l’attuale scomposizione dello stato giuridico nei diversi regolamenti di Ateneo, che di fatto diversifica sostanzialmente le condizioni di insegnamento e ricerca a seconda delle istituzioni di appartenenza.
  • Un’unica figura pre-ruolo. Il percorso di reclutamento nei ruoli universitari deve poter avvenire attraverso una figura a tempo determinato, focalizzata sulla ricerca (ricercatore a tempo determinato) e inserita in un percorso di tenure track. Un percorso di tenure limitato nel tempo, trasparente e con una valutazione basata su criteri chiari. Il ricercatore deve poter disporre di un pieno accesso alla vita accademica (strutture, organismi e fondi) e il suo rapporto di lavoro deve esser regolato collettivamente, in maniera omogenea tra gli atenei. L’unificazione della figura di pre ruolo cammina di pari passo ad un reclutamento ordinato e ciclico in grado di colmare il gap di didattica e ricerca che il nostro Paese soffre da più di dieci anni. Per alcune limitate e specificate attività di ricerca, può esser necessario attivare contratti a tempo determinato, anche brevi, esclusivamente legati allo sviluppo di progetti. Questi contratti devono prevedere precisi limiti quantitativi e temporali e valere come rapporto di lavoro subordinato (quindi con pieno accesso a coperture e contribuzioni, accesso a sedi, dotazioni, servizi, coperture di welfare, rappresentanze, ecc).
  • Percorsi transitori per il precariato universitario. Se è importante abrogare le figure e i percorsi che hanno permesso in questi anni l’espansione di un anomalo precariato strutturale (come gli assegni di ricerca), non possiamo pensare di abrogare le persone (gli assegnisti). Lo sviluppo di un diverso e più equilibrato sistema di reclutamento e inquadramento delle attività di didattica e di ricerca, deve cioè prevedere una fase transitoria, per poter attivare percorsi di stabilizzazione rivolti alle decine di migliaia di attuali precari dell’università (dottorandi, assegnisti, borsisti, rtd, ecc). Le nostre proposte sono raccolte nel dettaglio nella piattaforma dei ricercatori determinati lanciato nello scorso anno.
  • Garantire il passaggio a PA degli attuali RTI abilitati. Nei prossimi mesi la Corte Costituzionale sarà chiamata a pronunciarsi, sulla base di una sentenza del TAR della Calabria, su eventuali sperequazioni tra RTDb e RTI nelle progressioni di carriera. Vedremo la sua valutazione. In ogni caso, riteniamo sensato provvedere a meccanismi che garantiscano il passaggio degli RTI con abilitazione a professori associati. La legge di Bilancio 2019 (art. 1, comma 401 della legge 145 del 2018) fa un passo in questa direzione. Viene infatti introdotta, sino al 31 dicembre 2021, una valutazione comparativa per PA riservata a RTI. A questo scopo vengono destinati 10 milioni di euro a partire dal 2020. Il Decreto applicativo 364 del 11 aprile 2019 prevede però meccanismi che generalizzano un clima di incertezza sugli effettivi posti disponibili e un estensione molto limitata (anche molto inferiore ai previsti 676 posti). Lo stesso decreto ministeriale prevede in ogni caso la possibilità di un limitato cofinanziamento. Si consideri allora da subito la possibilità di ulteriori cofinanziamenti che allarghino la platea degli interessati (e si valuti la possibilità di permettergli di farlo anche in deroga ai punti organico). Con un costo limitato, con procedure snelle, utilizzando i 10 milioni come leva e non come gabbia, si darebbe fiato a questo strumento e si farebbe un reale passo avanti.